Il governo non basta al cambiamento

Written by Claudio Sardo Wednesday, 29 October 2014 17:55 Print

La ricostruzione del partito è decisiva per uscire dal declino sociale e democratico.


Il governo è oggi il centro del sistema politico-mediatico. Da tempo ormai la comunicazione non è più soltanto strumento, ma parte rilevante della politica e della stessa struttura del potere. Nessuno può dubitare che le speciali doti espresse in questo campo da Matteo Renzi siano ragione del suo successo, e insieme presidio dell’attuale primato. Ma l’illusione più pericolosa è pensare che le leve del governo siano sufficienti a cambiare davvero le dinamiche economiche, a dominare i conflitti determinandone gli esiti, a ricostruire il tessuto sociale laddove si è lacerato. Se i socialisti non trovarono a Palazzo Chigi la stanza dei bottoni negli anni Sessanta, tanto meno quella stanza si troverà adesso.

Piuttosto, il paradosso di questa stagione sta nell’enorme divaricazione tra la forza politica attribuita al segretario del PD – quasi senza rivali esterni o interni – e la relativa impotenza nell’incidere sulla realtà. Grandi mutamenti strutturali sono avvenuti in pochi anni. Non ci sono solo i condizionamenti dell’Europa, la “stupidità” dei vincoli dell’area euro, la sempre più marcata egemonia politica, produttiva, commerciale tedesca a ridurre lo spazio dei nostri governi a minimi aggiustamenti di bilancio. Non c’è soltanto una sovranità democratica sfibrata da un lato dalla fuga dei poteri verso le tecno-strutture sovranazionali e finanziarie, dall’altro dalla complessità degli ordinamenti giuridici e burocratici che sovrappongono vincoli, limitazioni e persino centri di decisione autonomi benché settoriali. C’è anche un mix sempre più complesso tra beni materiali e beni immateriali che rende incerti i confini tra le classi, ma non riduce, bensì aumenta, le disparità e le esclusioni interne: il nuovo capitalismo, quello plasmato dalla globalizzazione finanziaria, è diverso dai precedenti e incide più profondamente sull’organizzazione sociale, sul senso di comunità, sulla persona. Tende a costruire un suo “diritto naturale” fondato sulla volontà di potenza e sul desiderio dell’individuo; tuttavia la promessa onnipotenza – utilizzata come carburante del consumo – viene continuamente tradita nella solitudine, talvolta nella disperazione. Se anche un governo di una nazione come la nostra riuscisse a conquistare margini di autonomia maggiori – periodo ipotetico del secondo tipo, che oggi sembra del terzo – si troverebbe comunque di fronte a un paese rimescolato, inquieto, ferito, incerto, attraversato da umori negativi pari almeno agli slanci, alle manifestazioni di solidarietà, alla creatività e al coraggio di chi lavora e fa impresa.

Per questo il governo non basta al cambiamento. Tanto più sarebbe insufficiente, quanto più avesse solidi e ambiziosi propositi riformatori. Per dar vita a un nuovo sviluppo, per contrastare il declino nel quale rischia di essere abbandonata l’Italia, ci vuole una riscossa civile, una nuova coesione sociale, un patto per la crescita e l’uguaglianza, persino un’idea di fratellanza e di comunità. Sono indispensabili corpi intermedi autonomi, vitali, in grado di promuovere progetti non settoriali, non corporativi. Ci vogliono partiti democratici. Partiti che abbiano le loro radici nella società, prima che nelle istituzioni. Senza il partito, il governo sarà ancora più subalterno rispetto a forze che ormai esercitano la loro egemonia fuori dalle istituzioni democratiche. Certo, il partito va ripensato nelle forme, nella stessa missione, nella vita interna. Guardare al passato serve a poco. Così come inutili appaiono le querelle sul partito liquido o solido. La consistenza di un partito sta nel pensiero e nel senso di comunità che riesce a esprimere e a consolidare nel tempo molto più di quanto non rivelino le formule organizzative. Anche per il PD, che ha deciso di mettere a tema la riforma del partito, sarebbe un errore cercare di sciogliere il nodo affidandosi semplicemente a soluzioni statutarie. Il rischio è di considerare comunque il partito come un tema secondario, come l’intendenza del governo, come un oggetto da migliorare nel design perché il suo solo utilizzo pratico è elettorale. Questo sarebbe un grave errore politico. Una rinuncia, anzi una resa.

Chi ha grandi capacità comunicative può pensare di colmare lo scarto nella società attraverso la parola, i simboli, la tenuta in scena. C’è indubbiamente un tratto di modernità nel populismo mediatico: riesce a scavalcare i conflitti reali, a varcare gli imponenti argini delle compatibilità economiche, per raggiungere il cittadino-monade. E c’è del vero quando si dice che la comunicazione politica può diventare, a suo modo, vettore di fiducia o di speranza. Ma nell’idea che la comunicazione sia oggi il surrogato di una politica altrimenti inafferrabile c’è anche una sottovalutazione della modernità. La sottovalutazione riguarda la forza del denaro che produce denaro e potere, della finanza che sovrasta l’economia reale, dell’interdipendenza che condiziona gli stessi modelli sociali (basti pensare che, in un’Europa con la moneta unica e la piena libertà di movimento dei capitali, la svalutazione del lavoro e la riduzione dei salari sta diventando la modalità quasi obbligata per il recupero di competitività). Insomma, la forza mediatica rischia di essere una qualità effimera, poco duratura, precaria perché esposta alle mutevoli contingenze e a forze molto più spietate.

Per troppi anni si è gettato discredito sui partiti. Sono stati denigrati. Delegittimati. Con il partito personale di Berlusconi, l’autonomia politica è apparsa come una pretesa esclusiva della sinistra. Da qui l’incremento della campagna ostile, condotta con il benestare di buona parte del capitalismo italiano. Non si può negare che il discredito dei partiti sia stato alimentato anche da errori gravi e limiti culturali della sinistra. Tuttavia, l’avversione ai partiti ha segnato il clima del ventennio passato e condizionato le stesse riforme istituzionali. Siamo l’unico paese del mondo in cui si votano le coalizioni preventive, e in cui i premi in seggi si assegnano alle coalizioni anziché al partito. Tutto questo ha favorito il trasformismo, ha indebolito ulteriormente i governi, ha fatto crescere il mito presidenzialista pur in presenza di una Costituzione formale che restava ancorata al sistema parlamentare. La seconda Repubblica prometteva di restituire lo scettro al principe, cioè al popolo sovrano. Alla fine i cittadini sono stati defraudati di molti dei loro diritti, persino di quello di scegliere i parlamentari.

Sarebbe una grande conquista se la nuova legge elettorale attribuisse il premio di governabilità al partito anziché alla coalizione. Così avviene in tutti i paesi democratici. Ma il quadro delle riforme, purtroppo, è ancora confuso. E, sia detto tra parentesi, il potere di interdizione riconosciuto dal premier a Berlusconi appare davvero eccessivo se si confronta invece con lo sbarramento continuamente opposto alle proposte che vengono da sinistra e dal sindacato. L’idea che il leader sia la vera soggettività della politica e tutto il resto possa essere sacrificato non è democratica, né convincente. Preservare il leader, isolandolo dal corpo sociale che lo ha espresso, produce vulnerabilità, non forza. Il salto democratico che il PD è chiamato a compiere – nel ripensare la sua forma partito, e dunque la sua stessa identità – sarà possibile solo ricostruendo una soggettività politica e sociale. È una necessità storica della sinistra italiana ed europea. Per far questo una leadership forte come quella odierna potrebbe essere una grande opportunità, a condizione però che abbia questa ambizione e non si accontenti dei poteri di nomina e di sottogoverno di cui ancora può disporre con abbondanza (mentre invece non è in grado di spostare neppure di mezzo punto il deficit di bilancio).

Tanto si è discusso nelle scorse settimane di “partito della nazione”. È evidente che ne circolano due interpretazioni, tra loro contrapposte. Il partito della nazione per Alfredo Reichlin è un attore capace di contare in un sistema di poteri diventato ormai sovranazionale. È l’infrastruttura di una rivoluzione democratica che deve riguardare la società, la comunità, gli interessi reali non meno che le rappresentanze istituzionali. È un partito che resta parte anche se lancia una sfida nazionale ed europea ai suoi competitori, e dunque auspica altri partiti della nazione. Per i più pigri tifosi del renzismo, invece, questa formula serve a smantellare il confine tra destra e sinistra, a bypassare l’articolazione degli interessi sociali e del potere per porsi di fronte a una platea indistinta di elettori, dove è lasciato al leader il compito di occupare il centro, pigiando di volta in volta i tasti più sensibili dell’opinione pubblica.

Questo confronto sulla progettazione di un partito nuovo non può essere eluso. Tanto più dopo lo scontro aperto nel weekend della manifestazione CGIL e della Leopolda. Il PD non è un ripiegamento della sinistra italiana. E neppure un partito che contiene la sinistra come un suo segmento (minoritario). La soggettività politica e sociale del PD passa da un ripensamento della sinistra e da un rilancio di idealità riformatrici. Un’impresa che riguarda tutto il Partito Democratico perché implica un radicamento sociale. Ricordo la relazione di Pietro Scoppola, al convegno di Orvieto, atto politico fondativo del PD: oggi un partito deve aiutare i cittadini a uscire dal «senso di dipendenza e di frustrazione prodotto da un determinismo frutto del sistema economico», deve coltivare «l’amicizia contro la solitudine», deve favorire «la liberazione dalla paura e la riscoperta della speranza come spazio vitale necessario alle nuove generazioni». Il governo guarda il presente e combatte con i limiti della situazione data, il partito cerca il futuro e progetta come superare i limiti attuali.

Ma per contrastare derive elitarie e leaderistiche, che renderebbero il PD meno libero e più subalterno, mi pare oggi necessario che al carisma del segretario-premier si affianchi una soggettività interna non timida, non difensiva, ma capace di esprimere un pensiero critico e una visione del paese. Parlo della soggettività di una sinistra moderna che abbia la convinzione di essere indispensabile al PD e alla sua missione, non di ritagliarsi uno spazio marginale. Non c’è nulla di male in un partito articolato, che in qualche passaggio appaia persino confederale. In questa stagione è la centralità del PD, unita alla debolezza degli altri attori del tripolarismo italiano, a fornire condizioni speciali alla dialettica interna. Peraltro, le correnti di idee non sono un male in sé, come ha sostenuto per anni la propaganda antipartito. Sono un male le filiere di potere personale, il partito degli eletti, le cordate di potere senza idee, che guarda caso sono sempre funzionali a partiti leaderistici. Per garantire uno svolgimento del confronto in un clima di libertà e di rispetto, non bisognerebbe però rimettersi a una concessione del leader. Bisognerebbe finalmente applicare l’articolo 49 della Costituzione sulla trasparenza dei partiti. L’attuazione dell’articolo 49 restituirebbe dignità al partito, e potrebbe riaprire in termini nuovi la questione del finanziamento, e dunque della libertà, della politica. Chi non vuole attuare l’articolo 49, non vuole dare autonomia ai partiti. Ed è grave che il progetto di riforme istituzionali abbia tuttora questa lacuna.

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