Tutela del lavoro e regole nel Jobs Act. Effetti e limiti della riforma appena approvata

Written by Andrea Ciarini Monday, 02 March 2015 17:47 Print
Tutela del lavoro e regole nel Jobs Act. Effetti e limiti della riforma appena approvata Foto: Stefano Corso

La riforma del mercato del lavoro appena approvata si inserisce in un quadro di debolezze strutturali del sistema produttivo. Al di là delle diverse criticità che potrebbero emergere dall’applicazione della nuova normativa, è lecito chiedersi dunque se il rilancio dell’occupazione possa dipendere dalla sola revisione delle tipologie contrattuali senza un parallelo rilancio degli investimenti.


Se e quanto la nuova riforma del mercato del lavoro contribuirà a creare nuova occupazione e anche a ridurre il ricorso improprio a certe fattispecie contrattuali – utilizzate in passato in maniera strumentale tanto dalle imprese quanto dalla pubblica amministrazione – lo vedremo già nei prossimi mesi. Certo è che le dosi di flessibilità sono considerevolmente aumentate, tenuto conto del fatto che il contratto a tutele crescenti è anche ad ampia facoltà di licenziamento, seppure dietro indennizzo. Se a questo aggiungiamo il provvedimento sui licenziamenti collettivi e il mancato intervento sui contratti a tempo determinato (rimasti immutati nella durata massima), siamo di fronte a un mercato del lavoro pienamente concorrenziale, senza troppi vincoli di sorta all’entrata e all’uscita.

Naturalmente la questione dell’articolo 18, di fatto ulteriormente limitato, benché già depotenziato nel 2012, costituisce parte essenziale di questo discorso. Il problema è che la nuova normativa, pur allargando la platea dei beneficiari, prevede un ridisegno completo delle tutele passive e attive a risorse scarse, non all’altezza dello scambio tra flessibilità, in entrata e in uscita, e tutela del reddito nelle fasi di transizione che era stato prospettato. Tanto più considerando che questo avviene contemporaneamente all’esaurimento della cassa in deroga.

Non è tuttavia solo sul piano della spesa che emergono criticità. L’Agenzia nazionale del lavoro, l’infrastruttura amministrativa fondamentale della nuova rete dei servizi all’impiego, corre il rischio di rimanere ancora per molto tempo solo sulla carta, essendo collegata alla riforma costituzionale in discussione e al superamento del Titolo V della Costituzione. Rimane inoltre tutta da sciogliere la questione del rapporto con i centri per l’impiego, soprattutto alla luce del processo di riordino delle province.

Ma cerchiamo di capire come queste misure si inseriscono nel disegno più ampio di riforme che viene prospettato. Sono in grado queste riforme di invertire una rotta pluriennale fatta soprattutto di flessibilità e di incentivi fiscali e contributivi alle assunzioni e molto meno di investimenti pubblici e privati e politica industriale? Sono in grado soprattutto di invertire il circuito di bassa crescita e bassa occupazione in cui l’Italia è invischiata da anni? Flessibilità e politiche per l’occupabilità occupano da tempo il centro del dibattito sul mercato del lavoro e con loro le questioni riguardanti le agevolazioni, le semplificazioni del quadro normativo e amministrativo, non ultimo il costo del lavoro. Ma quanto tutto questo ha a che fare con i nodi irrisolti del mercato del lavoro italiano nella crisi?

L’Italia come molti altri paesi europei ha perso grandi quote di occupazione, soprattutto giovanile, dall’inizio della crisi nel 2008. Certo l’Italia oggi non è più il paese europeo con il più alto tasso di disoccupazione giovanile, benché esso abbia raggiunto dimensioni molto preoccupanti. Resta però quello con il più basso tasso di occupazione nell’area euro. Tutto questo ovviamente senza considerare i divari territoriali, in Italia come in nessun altro contesto europeo così forti e in aumento. Ora, se la crisi ha determinato un netto deterioramento del mercato del lavoro, ciò non di meno il problema della bassa occupazione viene da lontano, legandosi a quello, tutt’ora irrisolto, della sua scarsa qualità.

Ancora prima della crisi il mercato del lavoro italiano si caratterizzava per la debolezza di una struttura produttiva fortemente schiacciata su professioni e impieghi poco qualificati. È in questa combinazione di debolezze strutturali tanto dal lato della domanda che da quello dell’offerta di lavoro che va colto il carattere specifico della transizione italiana negli anni della crisi, e a ben vedere anche prima, ovvero la presenza di un terziario avanzato, a più alte qualifiche e più alti redditi, non solo di ridotte dimensioni rispetto al resto dei paesi europei ma addirittura in decrescita. Questo è il segno di criticità che investono in pieno la qualità del sistema produttivo, in particolare per quello che riguarda la transizione all’economia dei servizi.

Come da più parti è stato messo in evidenza, da ultimo dall’Istat nel Rapporto annuale 2014, la riduzione dell’occupazione tende da diversi anni ad accompagnarsi a una polarizzazione a sfavore delle professioni più qualificate – dei giovani e dei lavoratori delle classi di età centrali. Di contro crescono le professioni esecutive e meno professionalizzate nelle attività commerciali o dei servizi. In piena crisi produttiva e nella sostanza senza avere affrontato per anni il problema della riqualificazione del sistema produttivo, il mercato del lavoro italiano continua a creare lavoro poco qualificato, anche a fronte di un aumento nei livelli di istruzione, in particolare tra i titoli di studio elevati.

Non dovrebbe stupire più di tanto in questo quadro la grande diffusione del lavoro parasubordinato e delle partite IVA monocommittenti, soprattutto considerando la loro grande diffusione all’interno delle professioni tecniche e intellettuali e nelle mansioni impiegatizie del terziario avanzato, insieme naturalmente a settori meno qualificati come i call center, i servizi di pulizia, la sicurezza.

In particolare nelle fasce più qualificate questo ampio bacino di lavoro a bassi salari e basse tutele è in realtà diretta espressione di una struttura produttiva incapace di assorbire lavoro qualificato se non al prezzo di uno scadimento delle condizioni contrattuali. È in questi circuiti e convenienze nascoste che si ripercuotono i condizionamenti negativi di quella via bassa alla competitività entro cui è tutt’ora incagliata la struttura produttiva italiana. In questo poco sembra essere cambiato rispetto ai primi anni Novanta.

In un quadro di questo genere possiamo dubitare che il rilancio dell’occupazione e del lavoro possa passare dalla sola revisione dei contratti e del sistema di politiche attive, compreso il cosiddetto contratto di ricollocazione inserito nella riforma. Con questo non si intende dire che un buon sistema di politiche attive del lavoro sia ininfluente, tanto più in un paese come l’Italia che su questo terreno sconta un ritardo enorme con gli altri paesi europei. Anche qui però i finanziamenti sono esigui (appena 50 milioni per la sperimentazione del contratto di ricollocazione) e nel quadro di una non ancora chiara articolazione di rapporti tra agenzie private e pubbliche di ricollocamento.

Su questo e sull’Agenzia nazionale occorre trovare soluzioni in grado di attivare un circuito virtuoso, evitando il prodursi di quegli effetti di selezione avversa nei confronti dei soggetti meno ricollocabili, che l’apertura al mercato potrebbe alimentare. Naturalmente su questo influirà in maniera determinate il modello di voucher che si andrà implementando.

Resta sullo sfondo un tema su cui sarebbe ingiusto chiamare in causa solo il Jobs Act. Politiche attive e nuovi ammortizzatori – non certo a risorse invariate o peggio decrescenti – sono parte importante delle riforme. Rimangono tuttavia una parte delle soluzioni da attivare di fronte alla crisi. Come oramai avvertito da diverse parti, più che sulle regole è piuttosto sul rilancio degli investimenti, a maggior ragione di quelli pubblici (data la loro capacità di stimolare e moltiplicare quelli privati come ci ha mostrato di recente Mariana Mazzucato), che andrebbe rafforzata l’agenda per la crescita.

Nel dogmatismo del pensiero conservatore che anni di austerity senza ripresa non hanno ancora fiaccato, la spesa per investimenti pubblici è vista essenzialmente come spesa cattiva, destinata sola ad alimentare la spirale del debito. È su questo terreno invece che si misura oggi l’alternativa a una sola politica di tagli e svalutazione del lavoro, soprattutto di quello giovanile. Molto più che con strumenti di incontro tra domanda e offerta, come è stato nella sperimentazione della Garanzia giovani, andrebbero introdotte politiche in grado di mobilitare tutte le leve finanziarie e organizzative per una strategia di investimento di lungo temine, anche di creazione diretta di lavoro, ben sapendo che per il nostro paese si tratta di recuperare un forte gap rispetto a molti dei principali paesi europei.

D’altra parte, lo ricordiamo ancora, l’Italia è uno dei contesti nazionali in cui più pesa la mancanza del lavoro qualificato e di imprese (grandi) in grado di trainare l’innovazione sui mercati più avanzati. È questo il sintomo di una lunga crisi le cui radici vanno ricercate prima degli anni più recenti, quando interi comparti e aziende strategiche sono stati via via dismessi con il risultato di un tessuto produttivo progressivamente marginalizzato in settori meno al riparo delle tensioni competitive che la crisi ha ulteriormente rinfocolato, non certo attenuato. Perseverare su questa strada oltre che dannoso rischia di essere quanto di più lontano da una agenda di riforme per la crescita.

 

 


Foto: Stefano Corso

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