Le elezioni di mid-term 2014: un referendum sull'operato di Obama

Written by Mario Del Pero Monday, 12 January 2015 17:10 Print

Le elezioni di metà mandato dello scorso novembre hanno fatto registrare una sconfitta del Partito democratico americano più grave di quanto si temesse. La mancata percezione da parte dell’elettorato dei benefici della ripresa economica, le controverse scelte di Obama in politica estera e la disaffezione degli americani verso la politica e i suoi rappresentanti, in primis il presidente, sono le principali ragioni dell’esito negativo di una tornata elettorale che gli avversari repubblicani hanno trasformato in una sorta di referendum sull’operato di Obama. Quali lezioni è possibile trarre da questo voto in vista delle presidenziali 2016?


Erano attese, la sconfitta e la conseguente perdita della maggioranza al Senato. Sorprendenti sono state, però, la sua ampiezza e dimensione. Nelle elezioni per il Congresso il 52% dei voti sono andati ai repubblicani e il 47% ai democratici. I repubblicani hanno sottratto ai democratici ben nove seggi al Senato, dove oggi dispongono di una maggioranza di 54 senatori a 44 (due sono gli indipendenti). Alla Camera lo squilibrio si è fatto ancora più marcato: 246 sono i rappresentanti repubblicani e 188 quelli democratici. In termini percentuali si tratta della maggioranza repubblicana al Congresso più ampia dal 1929. A ciò va aggiunto il consolidato dominio del Partito repubblicano a livello statale: repubblicani sono, infatti, 31 governatorati (contro i 17 dei democratici); in 24 Stati al controllo dell’esecutivo si aggiunge quello della maggioranza all’assemblea legislativa (in soli 7 Stati questo è vero anche per i democratici). Ed è negli Stati che spesso si giocano partite decisive, dalle modalità di applicazione di molti programmi federali, come ben si è visto con la riforma sanitaria di Obama, alla definizione dei confini dei collegi elettorali: quella famosa opera di redistricting che in tempi recenti le maggioranze repubblicane hanno spesso sfruttato con abilità e spregiudicatezza.

Una disaggregazione del voto, basata sugli exit polls di cui disponiamo oggi, offre dati significativi, anche in prospettiva 2016. Il voto ha confermato una netta partizione di genere, simile a quella delle elezioni del 2010 e del 2012: laddove gli uomini preferiscono i repubblicani con un margine di 16 punti percentuali (57% a 41%), i democratici continuano a mantenere una maggioranza del voto femminile (51% a 47%). Il cleavage generazionale è parimenti netto: tra gli under 30 il risultato è di 54% a 43% per i democratici; tra gli over 65 è di 57% a 41% per i repubblicani. Anche nelle due fasce intermedie all’aumentare dell’età cresce parallelamente il numero di elettori repubblicani (48% contro 50% nella fascia d’età 30-44 e 53% a 45% in quella 45-64). Si tratta di dati rilevanti se misurati attraverso la partecipazione al voto, che è stata estremamente bassa in questa tornata elettorale, appena il 36,4% degli aventi diritto, il dato peggiore dal 1942 a oggi. Replicando un pattern che fu già delle elezioni di mid-term del 2010, il voto è stato decisamente più “anziano” rispetto a quello del 2012: due anni fa gli elettori con più di 45 anni di età furono il 54% del totale; quest’anno ben il 65%, con quelli over 65 passati addirittura dal 16% al 22%. Infine – e qui chiudo questa lunga parentesi di cifre e percentuali – la partizione attraverso le categorie di razza e di “origine ispanica”, per come queste sono definite nei censimenti e nei sondaggi elettorali, offre anch’essa spunti di riflessione. Il voto dei bianchi è stato il 75% di quello totale (contro il 72% del 2012); di questo voto “bianco” il 39% è andato ai democratici e il 59% ai repubblicani. Il voto degli afroamericani ha costituito il 12% di quello complessivo ed è andato per il 90% ai democratici; quello ispanico, corrispondente all’8% di quello totale, è andato per il 62% ai democratici, con un calo di 6 punti percentuali rispetto al 2012.

Il voto, in altre parole, è stato prevalentemente bianco e “anziano”, come sempre più spesso nelle elezioni di mid-term, che peraltro sono storicamente difficili per il partito del presidente in carica. Nelle elezioni per la Camera il Partito repubblicano dispone oggi di un vantaggio solido e per certi aspetti strutturale, rafforzato da una definizione dei collegi elettorali particolarmente sfavorevole per i democratici (che ottennero un milione e mezzo di voti più dei repubblicani nel 2012 e ciononostante persero 17 seggi). Nel caso specifico di queste elezioni, la mappa elettorale ha aggiunto un’ulteriore difficoltà per i democratici: tra i seggi senatoriali in palio molti di più, infatti, erano quelli controllati dai democratici, anche in Stati tradizionalmente conservatori.

La débâcle del Partito democratico non può, però, essere attribuita alla sola mappa elettorale. I democratici sono stati penalizzati da un voto fortemente polarizzato e identitario, come evidenziato dal successo di molti referendum su temi cari al presidente e al suo partito in Stati dove i repubblicani hanno nondimeno stravinto. È il caso, ad esempio, di Arkansas, Nebraska e South Dakota, che hanno eletto senatori e governatori repubblicani e approvato comunque aumenti del salario minimo. Diventa quindi fondamentale comprendere i motivi per i quali una parte sia riuscita a mobilitare con maggior efficacia questo voto identitario e, in una certa misura, schizofrenico (si vota allo stesso tempo per una policy precisa e per chi ci si oppone).

Le spiegazioni sono diverse. La prima è costituita dalla percezione che si ha del quadro economico, degli effetti della ripresa e dei meriti delle politiche dell’Amministrazione. Molteplici sono gli indicatori che ci rivelano il buono stato di salute dell’economia statunitense, dal tasso di disoccupazione (sceso sotto il 6%) alla crescita del PIL (attestatasi quest’anno al 2,5% su base annua), fino a conti pubblici che, in termini di rapporto deficit/PIL e di debito pubblico, sembrano avere smentito le fosche previsioni di appena qualche anno fa. Eppure, non è questa la percezione di una parte non marginale dell’opinione pubblica, che sente e vede poco questa ripresa e i benefici di cui essa si farebbe portatrice. Perché i redditi mediani sono largamente invariati; l’accesso al credito rimane complesso, a dispetto dei bassi tassi d’interesse; i consumi non sembrano decollare; i beneficiari della ripresa sono ancora una volta i percettori di redditi più alti e i guadagni da capitale. Soprattutto perché il termine di paragone – l’indicatore vissuto e sperimentato rispetto al quale si misura l’oggi – sono gli anni precedenti la crisi del 2007-08: anni, cioè, di esuberanti consumi a debito, facilitati dalla bolla immobiliare, e, per chi avesse delle minime qualifiche professionali, dalla facile mobilità nel mercato del lavoro, oltre che dal pieno sfruttamento delle possibilità offerte dalla sua estrema flessibilità. A ciò va aggiunta la persistenza di un discorso “antifiscale”, di opposizione alle tasse, che è stato egemone nel dibattito pubblico e politico statunitense dell’ultimo quarantennio e del quale si era prematuramente proclamata la crisi nel 2008. Alcune delle sconfitte più clamorose dei democratici in Stati tradizionalmente liberal – è il caso dei governatori di Massachusetts e Maryland – sono maturate nel contesto di campagne elettorali nelle quali la questione delle tasse ha dominato il confronto. Perfino nel Vermont progressista, il governatore democratico in carica, Peter Shumlin, ha rischiato la sconfitta, indebolito dalla controversia scatenata dalla sua proposta di alzare la tassazione sui beni immobili.

La campagna contro le tasse ci rimanda a una seconda variabile, che ha sicuramente pesato nel risultato elettorale: la disaffezione verso la politica, i suoi simboli e i suoi rappresentanti e la parallela, profonda sfiducia verso il governo. Che è politicamente trasversale e non risparmia certo i repubblicani (a dispetto di quanto asserito da alcuni commentatori nostrani, il tasso d’approvazione dell’operato di Obama non è particolarmente basso e risulta comunque di molto superiore a quello del Congresso). Ma che prende inevitabilmente di mira il rappresentante primo di quel governo, ossia il presidente, soprattutto in un voto a bassa partecipazione e alto “tasso identitario” come questo delle mid-term 2014. I repubblicani sono riusciti con grande efficacia a nazionalizzare il voto e a trasformarlo in una sorta di referendum su Obama, ovvero sul governo di Obama.

Lo hanno fatto, e questo ci porta a un secondo punto, in una fase di popolarità decrescente del presidente, alla quale contribuiscono anche la politica estera e l’apparente incapacità di Obama di offrire risposte coerenti ed efficaci nei numerosi teatri di crisi dell’ultimo anno. Terreno sul quale i democratici hanno spesso dovuto pagare dazio, la politica estera e di sicurezza aveva invece rappresentato una risorsa per Obama in una fase storica nella quale il suo cauto pragmatismo e il discorso realista che lo accompagnava raccoglievano un ampio consenso in un paese logorato dagli errori e dalle guerre di Bush. La vicenda ucraina, la crisi riapertasi in Siria e in Iraq, le divisioni dentro l’Amministrazione e i messaggi spesso contraddittori provenienti dalla Casa Bianca hanno determinato un’inarrestabile erosione del capitale maturato negli anni precedenti. Nelle rilevazioni Gallup il tasso di approvazione della politica estera di Obama è sceso dal 50% al 30% in due anni. Una dinamica attentamente sfruttata dagli avversari politici del presidente durante una campagna elettorale nella quale i temi di politica internazionale hanno avuto un’inusuale rilevanza.

Per contrastare queste dinamiche, Obama e i democratici avrebbero dovuto mobilitare appieno quella coalizione che fu decisiva nel voto del 2008 e del 2012 e che, invece, disertò le urne alle elezioni di mid-term del 2010. I dati precedentemente menzionati ci mostrano come ciò non sia avvenuto. Certo, la differenza la fa anche il traino decisivo del voto per le presidenziali, che in questo caso mancava. Hanno, però, pesato precise scelte politiche e la delusione di una parte non marginale di chi aveva contribuito a portare Obama alla Casa Bianca nel 2008. Il voto dei giovani è lì a dimostrarlo: gli under 30 avevano costituito il 19% dell’elettorato complessivo nel 2012, ma si sono fermati al 13% in questa tornata; laddove il 60% aveva votato candidati democratici alla Camera nel 2012, la percentuale è scesa al 54% nel 2014. Il voto giovane, in altre parole, ha pesato molto di meno ed è stato meno democratico. Come del resto il voto dei Latinos, forse quello maggiormente vivisezionato, per la sua rilevanza in prospettiva del 2016 e, più in generale, per le tendenze demografiche di medio-lungo periodo del paese. Per quanto in forma meno eclatante, anche nel caso dei Latinos hanno agito le due tendenze – calo della partecipazione e diminuzione del sostegno ai democratici – già viste con i giovani. Stando ai dati di cui disponiamo al momento, il voto degli ispanici per il partito democratico è sceso dal 68% del 2012 al 62% del 2014. Esso avrebbe costituito l’8% del voto complessivo: una percentuale immutata nelle ultime tornate elettorali, a dispetto della crescita percentuale dell’elettorato ispanico (che oggi costituisce circa l’11% di quello totale). Equazioni semplicistiche non sono date, ma appare chiaro come sul voto ispanico abbia pesato la mancata approvazione di una riforma dell’immigrazione che sanasse, almeno in parte, la condizione dei circa undici milioni d’immigrati illegali presenti nel paese e l’aggressiva politica di deportazioni promossa dall’Amministrazione.

Sappiamo che nell’ultimo anno Obama ha in più occasioni sollecitato la maggioranza repubblicana alla Camera ad approvare la riforma già votata dal Senato nel luglio 2013. Venuta meno questa possibilità – soprattutto dopo la sconfitta del leader repubblicano alla Camera, Eric Cantor, in un’elezione primaria in cui centrale fu la questione dell’immigrazione –, Obama ha accettato di posporre un’iniziativa presidenziale nel timore che questa potesse danneggiare i democratici alle urne.

Uno dei primi atti di Obama dopo il voto è stato proprio quello di promulgare un executive order in materia, che dovrebbe regolarizzare la condizione di circa quattro milioni di immigrati irregolari. Un atto dovuto e necessario, perché, a dispetto delle fantasie di una parte della destra repubblicana, una deportazione di massa è semplicemente irrealistica e impraticabile (secondo alcune stime, i suoi costi starebbero tra i 200 e i 300 miliardi di dollari). Ma un atto motivato anche da evidenti ragioni politiche ed elettorali: spingere a destra, su un tema centrale, il Partito repubblicano, alimentando una delle principali linee di frattura al suo interno; riattivare una base democratica delusa e apatica; riconquistare quel voto ispanico in parte perduto e sempre più importante. Resta da vedere se su altri dossier cruciali Obama sceglierà la strada dello scontro, utilizzando appieno quei poteri presidenziali offertigli dalla storia e dai precedenti più che dalla Costituzione, o cercherà come in passato un compromesso che raramente è riuscito a ottenere.

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