Il Servizio sanitario nazionale, il bene più prezioso che abbiamo

Written by Giuseppe Remuzzi Wednesday, 24 February 2016 12:23 Print

Con la creazione, nel 1978, del Servizio sanitario nazionale, l’Italia ha compiuto un grande atto di civiltà, impegnandosi a garantire a tutti la possibilità di curarsi indipendentemente dalle condizioni economiche e dal ceto sociale. Si tratta di una importante conquista, che va difesa da chi oggi vorrebbe smantellarla favorendo l’intervento dei privati. Certo, molto resta ancora da fare perché il Servizio sanitario nazionale sia, non solo in teoria, davvero di tutti. Eppure basterebbero poche misure per mettere la nostra sanità in condizione di rispondere davvero ai bisogni degli utenti.

Il Servizio sanitario nazionale lo hanno inventato gli inglesi. Noi, con la legge 883 del 1978, l’abbiamo fatto nostro. Quella legge introduce nell’assistenza sanitaria il principio di “universalità e solidarietà”: il governo garantisce a tutti di potersi curare indipendentemente dal reddito, i soldi vengono dalle tasse, che ciascuno paga in base al reddito. Con quella legge l’Italia ha compiuto un atto di grande civiltà: ci siamo impegnati a garantire a tutti di potersi curare, indipendentemente dalle condizioni economiche e dal ceto sociale, così ci siamo portati ai vertici delle classifiche della buona sanità.

Il Servizio sanitario nazionale è la cosa più preziosa che abbiamo e non costa nemmeno tanto: per curarci spendiamo in media 2600 euro all’anno, meno della Francia, che ne spende quasi 3500, e della Germania, che arriva a 3700, per non parlare degli Stati Uniti. A noi sembra normale che una persona malata possa avere un trapianto di cuore o di fegato, oppure le cure più avanzate per il cancro, senza spendere nulla. Non è così, tutt’altro. In molte parti del mondo, anche nei paesi più ricchi, avere qualcuno di malato in famiglia significa indebitarsi e, se la malattia è grave, si rischia di perdere tutto. Ma oggi, dopo tanto tempo, si può dire che in Italia il Servizio sanitario sia davvero per tutti? Non sempre. Succede che chi può pagare abbia tutto e subito, gli altri il più delle volte aspettano. Per i piccoli disturbi i problemi sono ridotti, ma se qualcuno ha un tumore allora sono guai. Questa, di tutte le cose da sistemare (e dopo quasi quarant’anni è logico che ce ne siano), è forse la più importante, altrimenti di quale Servizio sanitario parliamo? Per mettere il nostro Servizio sanitario in condizione di rispondere davvero ai bisogni degli utenti bastano poche misure. Ecco quelle che si potrebbero prevedere subito senza far aumentare la spesa, ma ci vuole coraggio.

Individuare criteri diversi nella scelta dei direttori generali delle Aziende sanitarie locali e degli ospedali Il direttore generale, che nel 1995 ha sostituito il consiglio d’amministrazione, avrebbe dovuto dare dinamicità, rispondere in prima persona delle sue scelte (e del bilancio). Ma presto ci si è accorti che direttori generali si diventa solo se vicini a questo o quel partito. È necessario, invece, separare la politica dalla gestione e scegliere i direttori delle ASL e degli ospedali sulla base delle competenze. La questione dell’appartenenza a un partito non riguarda solo il direttore generale. A loro volta essi scelgono i primari e i direttori di dipartimento privilegiando il criterio di appartenenza politica piuttosto che le competenze. È, forse, il problema più grave della sanità italiana. Per limitare il potere del direttore generale, che oggi molti giudicano eccessivo, non c’è bisogno di tornare al consiglio di amministrazione, basta valorizzare il collegio di direzione, che c’è già per legge, e la direzione sanitaria. Vuol dire, per il direttore generale, progettare le attività e verificare i risultati insieme al direttore sanitario, ai direttori di dipartimento e ai direttori di unità operativa, cioè a chi, in definitiva, ha la responsabilità della cura degli ammalati.

Integrare medicina di base e medicina specialistica ospedaliera Ci sono modelli già collaudati, come i dipartimenti di cura primaria, gestiti da medici di medicina generale. Collegarli formalmente con i diparti- menti ospedalieri eviterebbe agli ammalati di peregrinare tra ambulatori e ospedali alla ricerca della diagnosi o della cura, e consentirebbe di realizzare percorsi ben definiti per determinate malattie o gruppi di malattie. Favorire il trasferimento di conoscenze fra medici di base e medici dell’ospedale dà uniformità alla richiesta di prestazioni, evita esami inutili (che si ripetono ogni volta che l’ammalato viene visto da un medico diverso) ed è occasione di formazione continua. Basterebbe realizzare accordi fra aziende sanitarie e aziende ospedaliere, cominciando con qualche iniziativa pilota che potrebbe, se funzionasse, essere estesa all’intera Regione. È necessario anche avviare programmi di ricerca cui possano accedere medici di base e specialisti ospedalieri e che abbiano l’obiettivo di integrare e valorizzare le rispettive competenze. La ricerca rappresenta la forma più efficace di educazione continua, aumenta lo spirito critico, contribuisce alla qualità delle prestazioni e consente grandi risparmi.

Eliminare gradualmente le liste d’attesa senza aumentare l’offerta di prestazioni Impegnare altri specialisti o aumentare le visite porterebbe a una riduzione delle liste nel breve periodo, ma in poco tempo il sistema si riorganizzerebbe su un nuovo livello di domanda. Molte Regioni l’hanno fatto, ed è servito, ma la strada giusta è un’altra: risparmiare su prestazioni e su terapie non efficaci e quindi non necessarie. “Efficace”, in un contesto di medicina basata sull’evidenza, coincide con “essenziale” e dovrebbe essere la base di quello che oggi si definisce LEA (Livelli essenziali di assistenza).

Riconoscere gli ospedali come “imprese”1 Impresa per il Codice civile è “attività economica diretta alla produzione di beni o servizi”. Inoltre l’articolo 43 della Costituzione sancisce indirettamente che possa configurarsi la natura di impresa per chi – sia pubblico o privato – eserciti “servizi pubblici essenziali”. Ne deriva che anche le imprese sanitarie pubbliche possono funzionare con le norme del diritto privato (Codice civile) che regolano le attività gestionali (personale, acquisizione dei beni e servizi, lavori di manutenzione, di ristrutturazione e di nuove costruzioni). Questo servirebbe a sottrarre le amministrazioni degli ospedali ai vincoli e alle procedure di oggi e consentirebbe di organizzare l’attività degli ospedali pubblici ispirandosi ai principi di efficienza, tempestività e flessibilità che caratterizzano le organizzazioni private.

Riorganizzare il lavoro di medici e infermieri L’organizzazione del lavoro dei medici e degli infermieri negli ospedali va ripensata in modo che sia più aderente alle esigenze degli ammalati, con l’obiettivo, ad esempio, che lo stesso ammalato non sia affidato a personale sempre diverso. E tenga conto del fatto che gli ammalati dai medici vogliono soprattutto informazioni sulle malattie e sulle vere possibilità di cura. E sui progressi della scienza. Le soluzioni pratiche andrebbero individuate nell’ambito di ciascuna azienda, coinvolgendo personale medico e infermieristico in progetti che comportino percorsi e obiettivi comuni.

Ripensare l’attività privata intra moenia L’attività privata intra moenia che i medici svolgono negli ospedali pubblici va ripensata in accordo con le organizzazioni dei medici, con l’obiettivo di trovare soluzioni più eque per il cittadino. Non deve succedere che, all’interno della stessa struttura, chi ha possibilità economiche possa essere curato prima e meglio di chi non ne ha. Questa situazione è vissuta come ingiusta da parte degli ammalati ed è difficile da sostenere per un’attività che si configura come servizio pubblico. Le esigenze di chi desidera una degenza più confortevole e se lo può permettere possono essere rispettate, ma non devono realizzarsi sottraendo energie al sistema e a scapito di chi non ha possibilità economiche.

Eliminare il rimborso per prestazione (DRG) Il rimborso per prestazione, che ha portato a un aumento dei costi senza aver contribuito a migliorare la qualità delle prestazioni mediche, andrebbe eliminato e sostituito con un budget globale dell’ospedale, non solo economico ma di obiettivi (indirizzo tecnico), che, tenendo conto dei costi, indichi le attività che si intendono svolgere in base ai bisogni di salute del territorio. Il budget andrebbe stabilito dalle Regioni d’intesa con gli ospedali all’inizio di ciascun esercizio finanziario (indirizzo politico).

Eliminare i controlli attuali che verificano solo la corrispondenza dell’atto medico alle norme di legge e mai i risultati I controlli dovrebbero essere veri e propri “controlli di gestione”, che verifichino non solo l’uso delle risorse, ma soprattutto attività e risultati (è appropriato un determinato intervento per curare una certa malattia? Si può fare meglio spendendo meno? E come si comparano i risultati con quelli degli altri, in Italia e all’estero?). Questi controlli dovrebbero prendere in considerazione indicatori clinici (quanti ammalati abbiamo guarito rispetto a quanti se ne possono guarire in rapporto ai dati di letteratura internazionale?) e dovrebbero scaturire dalla consapevolezza di medici e amministratori sul fatto che è venuto il momento di lavorare insieme.

Prevedere per ogni provincia un piano di riorganizzazione che metta in rete le strutture ospedaliere pubbliche e private di quel territorio, in una attività integrata che eviti sovrapposizioni e spreco di risorse e che tenga conto anche delle esigenze degli ammalati di malattie rare Le strutture inefficienti o ridondanti – o anche solo troppo piccole per svolgere bene attività essenziali – vanno chiuse. Si potrà considerare, a seconda delle situazioni locali, di convertirle in strutture di lunga degenza, di cui c’è e ci sarà sempre più bisogno, e che hanno costi inferiori a quelli degli ospedali. Un numero maggiore di strutture di lunga degenza consente agli ospedali ricoveri più brevi, a costi inferiori, e una migliore organizzazione.

Intensificare i programmi di informazione e di educazione sanitaria La domanda di prestazioni mediche aumenta di anno in anno, perché aumentano le possibilità di cura, ma anche a causa di richieste improprie o ridondanti. Per questo occorre intensificare programmi di informazione e di educazione sanitaria. I medici e il pubblico devono avere le idee chiare su quello che in medicina è utile davvero e per chi. Per i medici si tratta di aumentare le occasioni di formazione, elaborando con loro strategie che li aiutino a distinguere ciò che serve da ciò che serve poco o nulla. Anche l’opinione pubblica deve essere aiutata a capire che il Servizio sanitario, per poter dare a tutti quello che è davvero utile, non può più pagare per prestazioni per cui non ci sia, nella letteratura medica, dimostrazione di efficacia. E a parità di efficacia, si dovrebbero scegliere, tra le cure e gli esami diagnostici, quelli che costano meno. Più in generale, medicina di base e ospedali vanno organizzati tenendo conto, in primo luogo, delle esigenze di benessere della popolazione e delle necessità degli ammalati. Sono queste, prima di qualunque altra considerazione, che devono far da guida alle scelte. È un principio che dovrebbe valere per tutti: dai politici a chi è chiamato ad amministrare le risorse, a chi opera per la salute (medici, infermieri e tutti quelli che contribuiscono, con il loro lavoro, alla prevenzione e alla cura delle malattie).

Il professor Howard Brody nell’articolo dal titolo “From an Ethics of Rationing to an Ethics of Waste Avoidance”,2 sostiene che, se si evitassero i test diagnostici e gli interventi che non portano alcun beneficio agli ammalati, si potrebbe dare a tutti ciò di cui hanno bisogno. Se, viceversa, per dare tutto a tutti dovessimo esaurire le risorse, non ci sarebbe più niente per nessuno. Certo, andrebbero coinvolti anche gli ammalati. Fra noi c’è ancora qualcuno che pensa che l’attenzione a quanto si spende sia in contrasto con l’etica professionale. Non è così, come scrive Gregg Bloche in “Medicine’s New Frugality”.3 L’articolo, sin dal titolo evocativo, invita a essere parsimoniosi con esami, radiografie e tutto quanto è costoso ma che non serve. Da qualche tempo per alcune malattie abbiamo farmaci efficaci ma costosissimi. Vorremmo poterli dare a tutti ma potremo farlo solo se sapremo risparmiare da qualche altra parte. Come è possibile che l’ospedale Careggi di Firenze spenda di energia elettrica dieci volte di più del Niguarda?4 E a Napoli il doppio che a Bologna per le pulizie? E come mai a Catanzaro si spende di telefono tre volte di più che in qualunque altro ospedale? Nessuno è in grado di rispondere, ma se chi governa la sanità si sforzasse di capirlo, si potrebbero avere cure migliori per tutti, si realizzerebbero grandi risparmi e si potrebbe persino fare a meno dei ticket. Se a Parma far funzionare l’ospedale costa, a parità di prestazioni, il 20% in meno della media nazionale e a Udine il 20% in più, dovremmo cominciare a chiederci perché.

Negli anni passati si è provato a correre ai ripari con un rimedio peggiore del male. Che senso ha sostituire il 50% dei medici e degli infermieri che vanno in pensione, e farlo ovunque, come se gli ospedali fossero tutti uguali? Una simile domanda deve essersela posta anche l’allora ministro Renato Balduzzi, che, ai tempi della spending review di Monti, si affrettò ad aggiungere: «niente tagli automatici, dobbiamo intervenire con equilibrio». Giustissimo, poi, però, non se ne è fatto nulla.

Secondo alcuni «per finanziare questo ciclopico sistema di dissipazione » – spese eccessive per mense e pasti, lenzuola d’oro per la lavanderia, spese telefoniche – bisogna dare «più spazio alla sanità privata e rivedere le norme che affidano alle Regioni la gestione della sanità».5 È vero tutto il contrario. Da noi, da qualche tempo, si sostiene che il Servizio sanitario pubblico non è “sostenibile” e si auspicano soluzioni che prevedono sempre più sanità privata.

Negli Stati Uniti, una scelta in questa direzione è stata fatta oltre sessanta anni fa dal presidente Eisenhower, il quale ha aperto davvero il libero mercato a salute e assicurazioni private con l’idea che in sanità il pubblico spreca e il privato equivale, invece, a efficienza e buone cure. Cosa è successo negli Stati Uniti in tutti questi anni? La spesa sanitaria è continuata ad aumentare e nel 2014 è arrivata a 2500 miliardi di dollari, pari al 16,4% del PIL (l’Italia spende l’8,8%). Vi sono catene di ospedali privati che promettono efficienza e qualità, ma se si vanno a vedere i risultati è un disastro. Se si fa dialisi nei centri “for profit” si muore di più (2500 morti in più all’anno) che nei centri no profit. E oggi c’è chi quel sistema lo critica con molti buoni argomenti. È l’ammalato che deve prendere le decisioni sulla propria cura, insieme al suo medico. Non le assicurazioni o l’industria del farmaco, che decidono le terapie a seconda di quello che conviene loro.

A pensarla così sono tanti medici, 8000 a essere precisi. Fra loro c’è Marcia Angell, che è stata anche editor del “New England Journal of Medicine” ed è una delle personalità più note e influenti della medicina degli Stati Uniti. Questi dottori hanno chiesto al governo di fare piazza pulita del sistema sanitario “irrazionale, sprecone, iniquo”, e la riforma Obamacare è un po’ la conseguenza di un movimento di opinione che si è via via ampliato, anche se siamo ancora molto lontani da quello auspicato da quei medici che sostengono: «basta ospedali privati e assicurazioni. Ci vuole un sistema unico, basato interamente su fondi del governo e che sia per tutti. Potrebbe chiamarsi NHI (National Health Insurance), un’assicurazione del governo insomma pagata con la fiscalità collettiva», proprio come da noi. I medici americani vogliono un prontuario farmaceutico (in Italia c’è già) da aggiornare continuamente «per non far spendere al governo soldi per farmaci e procedure la cui efficacia non è dimostrata, e che stabilisca che per farmaci uguali con prezzo diverso si rimborsi solo quello che costa meno». Se fosse davvero sola a pagare per tutte le cure, l’NHI potrebbe negoziare con l’industria del farmaco da una posizione di forza. Questo fatto, da solo, porterebbe enormi risparmi. E si potrebbero avviare programmi di prevenzione che alle assicurazioni e ai proprietari dei grandi ospedali adesso non interes-sano. L’assistenza agli ammalati tornerebbe a essere un’attività dominata dalle conoscenze scientifiche. Insomma anche negli Stati Uniti ci sarebbe il diritto alla salute che oggi non c’è ancora, nonostante gli sforzi di Hillary Clinton prima e di Barack Obama adesso. Chissà se i dottori americani ce la faranno. Probabilmente no, la posta in gioco è troppo alta, gli interessi da capogiro. Noi, il Servizio sanitario nazionale, proprio come lo vorrebbero oggi certi medici americani, l’abbiamo da quarant’anni. Certo, ha delle pecche, ma cambiare per ripercorrere la strada che adesso tanti negli Stati Uniti cercano di abbandonare forse non conviene. Di fronte a un contesto così drammatico per chi vive nell’economia più liberale del mondo, noi, che abbiamo la fortuna di avere il Servizio sanitario nazionale, dobbiamo difenderci da quelli che stanno provando a smantellarlo, che lo considerano “retaggio di vecchie e superate ideologie”6 e che vorrebbero un sistema pubblico-privato affidato alle assicurazioni capace di organizzare la domanda di sanità.7 Davvero l’intervento delle assicurazioni potrà risolvere il problema della sostenibilità del nostro Servizio sanitario nazionale? Forse, ma solo per le cose da poco. Ad affrontare i problemi veri le assicurazioni non ci pensano nemmeno.

Qualche tempo fa nel mio ospedale è stato fatto un piccolo miracolo: un uomo non più giovane col diabete e tanto altro ha ricevuto un trapianto di fegato, rene e pancreas. Prima dell’intervento ha passato molti mesi in rianimazione. Adesso sta bene. Quanto è costato guarirlo? Due milioni di euro, forse di più. Perché non lo si deve sapere? Da poco abbiamo un farmaco nuovo per curare una malattia rara dei bambini (la sindrome emolitico uremica). Prima sei su dieci di questi bambini morivano, gli altri continuavano a vivere, ma solo un po’, legati a una macchina di dialisi. Con la nuova cura non muore più nessun bambino e nessuno deve più fare la dialisi. Ma il farmaco costa 300.000 euro l’anno. Ogni volta che arriva un nuovo bambino affetto dalla sindrome siamo tutti in difficoltà, noi, l’ospedale, la Regione, ma alla fine i soldi si trovano. In Svezia, Austria e Australia – solo per fare qualche esempio – no.

Chi crede che l’intervento dei privati possa risolvere i problemi della sanità pensa che ai cittadini non interessa chi eroga le prestazioni, l’importante è poter avere un livello di eccellenza. Niente affatto, l’impresa di salute non è come tutte le altre. Quella pubblica lavora per migliorare la qualità delle cure e l’aspettativa di vita. Ciò vuol dire anche maggiore prevenzione, che porta, però, meno fatturato, meno esami radiologici, meno interventi chirurgici. Tante volte, dopo una indagine sulle coronarie o dopo un intervento chirurgico la malattia prende una brutta piega (embolia polmonare, insufficienza renale, gravi infezioni). Succede in ospedale e succede nelle cliniche private. Quante volte, se succede in ospedale, l’ammalato viene trasferito in una clinica privata perché là sono più bravi a curarlo? E quante volte capita il contrario? Sapere come stanno le cose sarebbe importante, ecco perché ai cittadini dovrebbe interessare moltissimo conoscere chi eroga le prestazioni, e se lo fa per migliorare la qualità delle cure e prevenire le malattie oppure per aumentare il fatturato. Finendo, prima o poi, per incoraggiare la domanda di prestazioni.

Mario (non è il suo vero nome) è ammalato di diabete da quando aveva 48 anni. Adesso, che non ne ha ancora 60, ci vede poco e ha bisogno di dialisi: la malattia ha danneggiato anche i reni. Quattro ore di dialisi due volte la settimana a Mario bastano, i suoi reni sono molto malati ma c’è ancora una funzione residua, che per lui è importante. Mario dirige una piccola azienda e se dovesse andare in ospedale tre volte la settimana – come tutti quelli (o quasi) che fanno dialisi – sarebbe ancora più dura. Un giorno si accorge che vicino casa sua c’è un centro dialisi privato e per lui recarsi lì sarebbe ancora più comodo. Ne parla con i dottori dell’ospedale: «potrei continuare là il mio programma di dialisi?». «Certamente», gli dicono. Detto fatto. Per un po’ Mario in ospedale non si vede più, ma un bel giorno: «posso tornare, mi riprendete?». «Certo – gli dicono i dottori dell’ospedale – ma cosa è successo?». «Là nel centro privato – ribatte Mario – di dialisi me ne fanno tre alla settimana». «Ma a lei ne bastano due, otto ore in tutto, i medici della clinica lo sanno, lo abbiamo spiegato loro» e Mario risponde «sì, lo sanno bene ma non vogliono perdere il rimborso della terza dialisi. Me l’hanno detto senza mezzi termini: a lei la terza dialisi non serve ma alla clinica sì, in un anno sono cinquanta dialisi».

La differenza fra pubblico e privato è tutta qua, in queste poche battute semplici e sconcertanti. E dire che Mario non vive in Campania – dove otto centri di dialisi su dieci sono privati – ma in una delle grandi Regioni del Nord. Il punto è che la logica del mercato non si applica all’im presa di salute tant’è che i malati che “non rendono”– grandi traumi della strada, infezioni gravi e gravissime, anziani con tante malattie tutte insieme, malati di AIDS – vengono curati tutti negli ospedali pubblici. Perché? Perché medici e infermieri dell’ospedale sono tenuti a dare un servizio sempre e comunque, le strutture private invece scelgono ciò di cui si vogliono occupare e con l’ammalato stabiliscono un contratto che si può sciogliere in qualunque momento. Il privato però esiste e bisogna farci i conti. E allora? Si potrebbe lanciare un grande progetto che integri le competenze che ci sono, pubbliche e private (private per modo di dire in quanto si reggono su soldi pubblici), in un sistema che sia sì efficiente ma soprattutto efficace. Rispondendo a queste domande: quanti malati abbiamo guarito? Quanto hanno vissuto rispetto a quanto ci si poteva aspettare? Per quanti abbiamo migliorato la qualità della vita? Se lo si facesse davvero, i soldi che ci sono basterebbero per dare a tutti i cittadini le cure migliori. Ma affinché pubblico e privato possano lavorare insieme e costruire un sistema migliore serve condividere le finalità alla base di qualunque sistema sanitario che si regge su fondi pubblici. Una su tutte: che la preoccupazione principale sia il bene dell’ammalato. Per sapere cosa potrebbe succedere da noi fra qualche tempo, facciamo un esercizio teorico: ripartiamo dall’Inghilterra. «Se le cose vanno avanti così, nel 2030 spenderemo per la salute il doppio di quanto spendiamo oggi, cioè arriveremo a 230 miliardi di sterline. Tutti questi soldi non li abbiamo e certamente non li avremo mai», ha dichiarato in una recente intervista al “Daily Telegraph” il responsabile della sanità Andrew Lansley. Lansley però non convince gli economisti, non tutti per lo meno. John Appleby ad esempio domanda: «chi l’ha detto che questi soldi non li avremo e che le spese, se si continuerà con questi ritmi, saranno unaffordable?». Certo, 7000 sterline al secondo sono tante, ma Appleby fa un po’ di conti ed è quello che dovremmo fare anche noi, dato che i problemi del Servizio sanitario inglese sono anche i nostri, né più né meno. Se oggi gli inglesi spendessero per la salute 230 miliardi di sterline ciò equivarrebbe al 18% del PIL. E se si confrontasse questa cifra con quello che si spende attualmente, cioè l’8,5%, si tratta certamente di un aumento enorme. Ma 230 miliardi non è quello che si spende adesso, è quello che si prevede verrà speso fra venti anni. E dunque corrisponde a un aumento reale di spesa per la salute pari al 4% l’anno, che non è molto di più di quello che è successo dal 1948 a oggi. Non solo, perché nei prossimi venti anni il paese crescerà: il PIL, secondo i calcoli più affidabili, passerà da 1,5 trilioni di sterline oggi a 2,5 trilioni nel 2030. Allora 230 milioni saranno pari al 10,9% del PIL. È davvero unaffordable? Infine, se si aggiunge la spesa privata si arriva al 12% (oggi fra pubblico e privato siamo al 10). Nel 2009, sette paesi dell’Europa a 15 spendevano già oltre il 10%, mentre l’Olanda oggi supera il 12%. Così, secondo Appleby, il problema va spostato: non è una questione di affordability ma di scelte.

È una riflessione che si applica benissimo a noi. Può l’Italia permettersi una sanità pubblica incondizionatamente gratuita? La riposta è no. Ma la domanda si potrebbe formulare anche così: quello che decidiamo di spendere per una sanità pubblica gratuita è giustificato in rapporto ai vantaggi che ne avremo? E allora dobbiamo chiederci quali sono i vantaggi. Vediamo: nei paesi che fanno parte dell’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo c’è un rapporto diretto fra spesa per la salute e aspettativa di vita alla nascita: si va da 74 anni per chi spende di meno a 82 anni per chi spende di più. L’Inghilterra, se le previsioni economiche e di spesa di Appleby si dovessero avverare, andrebbe dagli 80 anni o poco più del 2009 a una aspettativa di vita di 82 anni nel 2030. Vale la pena spendere quei soldi per vivere due anni di più, piuttosto che spenderli per una migliore formazione dei giovani o per garantire migliori condizioni di vita a chi, ancora oggi, anche nei paesi più avanzati non ha il minimo indispensabile per una vita dignitosa? O per stare tutti un po’ meglio? Quando si parla di spese per la salute, tagli, tasse, ticket, le regole non sono quelle del mercato, il problema è più complesso. Le variabili da considerare sono tantissime e non si può discutere di nulla senza sapere qual è il progetto e cosa ci proponiamo di ottenere in termini di salute e benessere con quello che decidiamo di spendere. E anche cosa potremmo fare d’altro con quei soldi lì.


[1] Articolo 2082 del Codice civile e articolo 41 della norma costituzionale.

[2] H. Brody, From an Ethics of Rationing to an Ethics of Waste Avoidance, in “The New England Journal of Medicine”, 2 maggio 2012, disponibile su www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp1203365

[3] G. Bloche, Beyond the “R Word”? Medicine’s New Frugality, in “The New England Journal of Medicine”, 2 maggio 2012, disponibile su www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMp1203521#t=article.

[4] S. Ravizza, La sanità degli sprechi, ecco gli ospedali che spendono di più, in “Corriere della Sera”, 6 ottobre 2014.

[5] Il sistema sanitario italiano ha solo 1.000 giorni di vita, in “Libero.it”, 14 maggio 2013, disponibile su www.liberoquotidiano.it/news/italia/1242148/Il-sistema-sanitario-italiano-ha-solo-1-000-giorni-di-vita.html.

[6] C. Buora, Un’alleanza con le aziende per una sanità migliore, in “Corriere della sera”, 25 ottobre 2015.

[7] C. Cimbri, Sanità, più collaborazione tra pubblico e privato, in “Corriere della sera”, 17 ottobre 2015.