L'Italia e la cultura

Written by Giuliano Amato Wednesday, 13 February 2013 13:54 Print

Il patrimonio culturale che l’Italia possiede va ben oltre l’immenso tesoro di opere d’arte presenti sul nostro territorio. Di esso fanno parte anche tutti i prodotti della capacità di tanti professionisti e artigiani di fare le cose belle che piacciono al mondo e di cui nessun nuovo ciclo tecnologico può cancellare la riconoscibile qualità italiana. Dalla tutela e valorizzazione di questo patrimonio culturale inteso nel suo senso più ampio possono venire non solo un considerevole contributo alla crescita economica del paese, ma anche un vero e proprio nuovo Rinascimento italiano.

 

 

Leggiamo nelle enciclopedie che nel suo significato originario cultura è l’insieme delle cognizioni intellettuali acquisite da ciascuno attraverso lo studio, l’esperienza, il rapporto con l’ambiente e con gli altri e che solo in secoli recenti essa è passata altresì a significare la oggettiva sedimentazione del patrimonio culturale che un popolo eredita dalla sua storia e che ancora si esprime attraverso ciò che esso è e fa. I due significati convivono e interagiscono fra loro, ma la loro convivenza e la loro interazione non seguono nella storia i medesimi percorsi e, a volte, quelli che seguono si allontanano sorprendentemente dalle strade più battute. È questo il caso di noi italiani e dell’osmosi fra cultura individuale e cultura collettiva intervenuta nella nostra storia.

Chi questa storia la racconta ci dice che da noi, come del resto negli altri paesi europei, la cultura è stata a lungo riservata alle élite, tanto come formazione individuale quanto come fruizione di quella che si considera la parte alta dei patrimoni culturali, vale a dire le opere artistiche, si tratti di musica o di arti figurative, riservata essa stessa alle élite. Questo secondo assunto è vero sino a un certo punto, se pensiamo alla quantità d’arte che si è riversata storicamente nelle nostre cattedrali e nelle nostre chiese, risultando così esposta alla fruizione di chiunque le frequentasse. Ma è certo vero che per secoli la musica migliore la si faceva a corte e le collezioni d’arte le potevano vedere soltanto i pochi ammessi ai palazzi dei nobili che le avevano formate per sé. Per non parlare del rapporto, ovvio e innegabile, fra l’acculturamento individuale e la piena capacità di capire l’arte e di coglierne tutta la bellezza.

Perché il patrimonio culturale, almeno in questa sua parte, fosse esteso ai più si dovette arrivare al XVIII secolo, in Italia a difesa dalle spoliazioni straniere delle nostre opere d’arte e più tardi in Francia come estrinsecazione della libertà portata dalla Rivoluzione. È stato un libro recente di Salvatore Settis 1 a farmi conoscere la convenzione di famiglia che l’ultima dei Medici, Anna Maria Luisa, fece firmare nel 1737 ai Lorena, quando a loro fu assegnata la Toscana. La convenzione li impegnava a «conservare sempre nella città capitale di Firenze e nello Stato le suppellettili più preziose raccolte dai passati sovrani, per l’ornamento dello Stato, per l’utilità del pubblico e per attirare la curiosità dei forestieri». Con la medesima impostazione erano nati nel 1734 i Musei Capitolini a Roma, e si diffusero poi ovunque i musei. E sulla stessa scia – se mi è permesso un lungo salto storico – finirà per collocarsi l’interpretazione che inizialmente verrà data all’articolo 9 della nostra Costituzione, a norma del quale la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione.

L’idea che nei primi anni venne letta nell’articolo 9 era che l’attenzione pubblica alla cultura dovesse corrispondere all’emergere su larga scala del bisogno, appunto, di cultura, a seguito e in qualche modo a coronamento del soddisfacimento dei bisogni primari. Insomma, la cultura come abbellimento, prima riservato ai pochi, e ora da allargare anche ai più. Donde gli incentivi al teatro, al cinema, e alla musica e il sostegno finanziario dei musei. Ciò che mancava, in quella interpretazione, era la consapevolezza dell’osmosi che nel corso della nostra lunga storia era avvenuta fra la cultura riservata ai pochi e la cultura diffusasi tra i più, una osmosi che per un verso poggiava, per altro verso generava essa stessa, un patrimonio ben più largo di quello costituito dalle opere d’arte e tuttavia nutrito dallo stesso patrimonio genetico. Noi sappiamo dei Leonardo, dei Raffaello, dei Michelangelo e dei lavori da essi fatti per i loro altolocati committenti. Sappiamo molto meno dei tanti artigiani che lavoravano con loro o accanto a loro in quei complessi di botteghe artigiane, legate da una circolarità che non conosceva paratie. Che da quelle botteghe uscissero quadri, o suppellettili, o addirittura oggetti utili per la casa non fa alcuna differenza. Il DNA era lo stesso e tutti quegli oggetti, ciascuno a suo modo, ne portavano traccia.

Sono in questo fenomeno le radici di quella qualità italiana che Carlo Maria Cipolla avrebbe definito come la nostra capacità di fare le cose belle che piacciono al mondo. Le cose belle, con una bellezza che investe le opere pittoriche come gli edifici, gli arredi come gli abiti, le rubinetterie come gli utensili. E ciò accade non per doti trascendenti che di sicuro noi non possediamo, ma per due fondamentali ragioni: la prima è quella appena messa in luce, la circolarità ad ampio raggio della nostra cultura, che certo non ha mai investito tutta la popolazione italiana, ma ha sempre coinvolto una fascia ben più larga delle fasce elitarie, raggiungendo tanti piccoli artigiani, manutentori, capimastri, sarti, giardinieri, falegnami, che delle élite non sono mai entrati a far parte e per le élite non hanno mai lavorato. La seconda ragione è quella che spiega questa stessa circolarità allargata, al di là della contiguità delle botteghe, che ci ha permesso di coglierla in atto. La scintilla della rinomata creatività italiana e quindi della capacità di creare le cose belle che piacciono al mondo è l’incontro fra culture e tradizioni diverse, che nelle nostre città come nei nostri villaggi si è reiterato per secoli e secoli, grazie ai continui afflussi di popolazioni provenienti da altri paesi e al conseguente mescolarsi delle lingue, degli stili di vita, dei metodi e degli stili di lavoro e di produzione. Lo testimoniano le diversificate provenienze di tante parole della nostra lingua, di tanti piatti della nostra cucina, e lo testimonia ancor più la meravigliosa fusione tra stili architettonici nazionali e stili ora nordici ora orientali in tante chiese e in tanti edifici. È chiarissimo qui come il nuovo, e anche il bello, emergano proprio da questo incontro di stili diversi e trovino anzi in esso la propria matrice.

Se è così e se ancora oggi è questo che caratterizza l’Italia, la sua cultura e quindi il suo patrimonio culturale, il significato dell’impegno assegnato alla Repubblica dall’articolo 9 della Costituzione va davvero ben al di là di quello che in esso fu colto nei primi anni della Repubblica. Nel primo, citatissimo Commentario alla Costituzione, a cura di Gastone Baschieri, Luigi Bianchi d’Espinosa e Carlo Giannattasio, uscito nel 1949, dell’articolo 9, e in particolare del suo secondo comma sulla tutela del patrimonio artistico e storico, si diceva che questa era una “disposizione di dettaglio” e quindi una “stonatura” fra i principi fondamentali. E invece no, non c’era alcun errore nell’aver collocato una disposizione del genere fra i principi fondamentali. C’era la lucida presa d’atto di una storia e di un futuro non separabili, di un patrimonio artistico e storico che non è soltanto archeologia, ma è alimento per lo sviluppo della cultura e della ricerca e ne deve essere esso stesso continuamente alimentato. Sono tante le implicazioni di una visione come questa e oggi siamo noi, in realtà, a non dimostrarcene consapevoli quanto dovremmo. La prima è che nello scrutare le strade per il nostro futuro, dobbiamo certo guardare anche fuori di noi, ma è sbagliato che cerchiamo di continuo modelli stranieri da imitare. Badiamo piuttosto a innestare ciò che cogliamo altrove nella nostra, originale capacità di rielaborazione, che è quella a cui dobbiamo, storicamente, la qualità e la bellezza delle nostre creazioni. Abbiamo insomma l’orgoglio di essere ciò che siamo stati nei nostri momenti migliori, l’orgoglio non di imitare gli altri, ma di fare ciò che agli altri possiamo insegnare. Un esempio che già altre volte mi è capitato di fare? Per valorizzare l’area di Pompei, alla quale stanno andando finalmente attenzione e risorse, non pensiamo a un grande McDonald’s in cui i visitatori si possano rifocillare. Pensiamo, noi che abbiamo i migliori e più ricercati restauratori, a collocarci la prima scuola di restauri del mondo.

La seconda implicazione investe il raggio che dobbiamo saper assegnare alla cultura e alla ricerca che intendiamo promuovere. Non è nella nostra storia lunga, è dovuta a un collo di bottiglia formatosi in secoli recenti la marginalizzazione delle culture scientifiche a beneficio di quelle umanistiche. Ma l’Italia non è solo Dante, Petrarca e Michelangelo, è anche Galileo, è Evangelista Torricelli, è Alessandro Volta, è Antonio Meucci, è Enrico Fermi, è Leonardo da Vinci, formidabile sintesi della scienza e dell’arte. Né la nostra cultura scientifica è solo in queste grandi figure, giacché anch’essa è stata interessata dalla circolarità di cui parlavo poc’anzi e anch’essa ha conseguentemente contribuito al successo nel mondo di tanti prodotti italiani.

La terza implicazione, sul fondamento delle due precedenti, è che il motore della nostra crescita può ben essere, in tutte le sue accezioni, la nostra cultura, ed è questo che fa acquistare all’articolo 9, in tutte le sue parti, la centralità alla quale per troppo tempo non abbiamo pensato.

C’è intanto la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico e artistico che abbiamo ereditato. Lascio ad altri, qui come altrove, gli approfondimenti che servono. Mi limito a constatare che far degradare i beni storico-artistici non significa solo farli cadere nell’abbandono, ma anche esporli a fruizioni di massa che li possono devastare. E non penso soltanto all’eccesso di calpestio o di respirazione e sudore in talune cappelle. Penso ai mille e mille pullman turistici che hanno accesso a ogni parte di Roma, ne sconnettono i sanpietrini, ne sconvolgono il traffico e ne imbruttiscono la vista per gli stessi visitatori che vengono a conoscerla. Questo davvero non accade in nessuna città d’arte d’Europa che abbia rispetto di sé. E non accadde a Roma neppure per il Giubileo, quando i pellegrini poterono usare anche le loro gambe per vedere una città, che fu per ciò stesso più bella.

C’è poi lo spazio che dobbiamo saper dare alla ricerca nelle scienze e nelle tecnologie dalle quali più dipende il futuro delle società avanzate. Qui è davvero sconvolgente la distanza che separa le affermazioni di principio dalle decisioni che si adottano, tanto a proposito della priorità da riconoscere alla ricerca, quanto a proposito dei giovani che per primi dovrebbero beneficiarne. Colpire gli sprechi è sacrosanto, ma bloccare il turn over con gli stessi criteri e le stesse strettoie in qualsivoglia settore, con l’effetto di disperdere i team di ricercatori che si erano formati, è davvero controproducente. Così come lo è tagliare la spesa di beni e servizi in rapporto alla quantità del personale che se ne avvale, senza distinguere fra le normali suppellettili di ufficio e le apparecchiature, spesso costose, con cui piccoli nuclei di scienziati conducono le loro preziose ricerche. Si parla di “terza rivoluzione industriale” – lo ha fatto di recente l’“Economist” –, prefigurando una ondata di nuovi prodotti e servizi, dovuta alla innovazione radicale della manifattura e dei suoi fondamentali tecnologici ed economici. Mentre gli studi recenti, sui quali largamente si fonda il Manifesto meritoriamente promosso da “Il Sole 24 Ore”, ci dicono che può essere di tutto rispetto il contributo alla crescita economica della cultura, dell’industria culturale come della valorizzazione e dell’accrescimento del patrimonio storico-artistico. Sono tutti fronti sui quali l’Italia ha formidabili carte da giocare. E potrà farlo se sapremo noi liberarci dai vincoli e dalle strettoie che ce lo impediscono. Sono vincoli e strettoie di indole anzitutto finanziaria, ma c’è anche troppo spesso la ristrettezza della nostra visione, la nostra inadeguatezza nel gestire le eredità che abbiamo e le risorse di cui disponiamo tuttora. È proprio a questo che dobbiamo in primo luogo rimediare e, se lo faremo, le stesse prospettive finanziarie finiranno per essere migliori.

Abbiamo un patrimonio storico-artistico che non ha eguali e che le moderne tecnologie ci permettono di far conoscere, addirittura di far assaporare in ogni parte del mondo, promuovendo così flussi di visitatori, che noi dobbiamo solo saper bene organizzare e gestire. Non tutti lo sanno, ma al di là dei monumenti, abbiamo beni librari e archivistici custoditi da benemeriti e in genere misconosciuti istituti culturali, che già li hanno largamente digitalizzati e messi così a disposizione degli studiosi di tutto il mondo. Insomma, non c’è ciclo tecnologico che possa cancellare la riconoscibile qualità italiana di ciò che facciamo e dei nostri stessi prodotti e non è un caso che siamo sempre noi, nelle sedi europee e internazionali, a batterci per la loro tracciabilità, affinché il made in Italy non perda il valore aggiunto che riceve da questa sua provenienza. Non facciamoci perciò atterrire dalla prospettiva di un mercato globale, nel quale tutto ciò che ciascuno offre, produce e vende può essere rimpiazzato da ciò che altri offrono, producono e vendono. Sarà vero per diverse produzioni, anche nostre, ma c’è una parte, una buonissima parte di ciò che l’Italia offre e produce, che non è rimpiazzabile da nessun altro. È l’unico tesoretto di cui davvero possiamo disporre ed è un delitto che siamo noi stessi a dilapidarlo.

Qualcuno troverà troppo enfatico che si parli di un nuovo Rinascimento italiano, ovvero di una ricostruzione come quella del dopoguerra, fondata oggi sulla cultura. Può darsi. Ma se troviamo parole e visioni che ci spingono verso un futuro migliore, non c’è proprio nulla di male. Sono meglio, e hanno più fondamento, della rassegnazione, o peggio ancora dell’auto-denigrazione, che non ci aiutano neppure a correggere le nostre mancanze.2

 



[1] S. Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, Torino 2012.

 

[2] Pubblichiamo qui il testo dell’intervento di Giuliano Amato agli Stati Generali della Cultura, Roma, Teatro Eliseo, 15 novembre 2012.

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