La lotta alla povertà: proposte e questioni aperte

Written by Vito Peragine Thursday, 20 March 2014 15:23 Print

L’aumento della povertà causato dalla recessione e dalla crescita delle diseguaglianze è, nel nostro paese, aggravato dalla scarsa capacità redistributiva del sistema fiscale e dalla inadeguatezza delle politiche di contrasto all’indigenza. Il sistema di welfare italiano, che per dimensioni è prossimo alla media europea, è infatti fortemente sbilanciato a favore di vecchiaia e sanità e manca di strumenti di sostegno al reddito ispirati a un principio di universalismo selettivo. Per tentare di colmare questa lacuna è stata recentemente elaborata la proposta di istituire un Sostegno per l’inclusione attiva, che garantirebbe universalità della misura, condizionalità e dimensione individuale. Purtroppo, i vincoli di bilancio e i timori di indebolire tutele già esistenti hanno finora impedito di applicare quella che allo stato attuale rimane soltanto una proposta.

Due ragioni spiegano l’aumento della povertà registrato negli ultimi anni nel nostro paese: da un lato il rallentamento della crescita e la recessione, che hanno portato a un impoverimento generalizzato della popolazione; dall’altro l’aumento delle diseguaglianze, che ha prodotto una polarizza­zione nella distribuzione delle risorse e un peggioramento relativamente più accentuato delle condizioni dei soggetti economicamente più svan­taggiati. La recessione è stata regressiva: il reddito è diminuito per tutti, ma specialmente per i più poveri. Questi effetti distributivi, comuni alla generalità dei paesi europei, in Italia sono aggravati da due fattori: la scarsa capacità redistributiva dell’intervento fiscale, sia dal lato del pre­lievo sia da quello della spesa sociale; l’inadeguatezza delle politiche di contrasto alla povertà nel nostro paese, che sono a un tempo scarsamente finanziate, inique e inefficaci.

Le dimensioni del welfare, nel nostro paese, non sono molto diverse dal resto dell’Europa: nel 2013 la spesa sociale in percentuale del PIL nei paesi dell’UE a 27 è stata, in media, pari al 28,2% e quella italiana pari al 28,6%, quindi leggermente superiore. Tuttavia, il sistema di welfare ita­liano si distingue per due caratteristiche principali. La prima riguarda la composizione della spesa per prestazioni sociali: essa risulta partico­larmente sbilanciata a favore delle componenti “Vecchiaia e superstiti” (cui va il 60% del totale della spesa contro il 45% della media UE a 27) e “Sanità, malattia e disabilità” (cui va poco più del 30% della spe­sa contro il 37% della media europea), mentre appena l’8% della spesa è complessivamente dedicato alle componenti “Disoccupazione”, “Fa­miglia e bambini” e “Abitazione ed esclusione sociale” (a queste voci di spesa vanno, rispettivamente, il 2%, il 4,6% e lo 0,3% del totale della spesa in servizi sociali italiana contro una media dell’UE a 27 del 6%, 10% e 3,6%). La seconda peculiarità del welfare italiano riguarda l’assenza di una politica di soste­gno al reddito ispirata a un principio di universa­lismo selettivo, in cui, cioè, la fruizione del diritto dipenda non dall’appartenenza a una determinata categoria di individui (come, ad esempio, i disabili, i disoccupati, gli anziani) ma dal soddisfacimento di determinati requisiti identificativi di una situazione di bisogno. Il carattere categoriale e, in alcuni casi, territoriale delle poli­tiche di sostegno al reddito viola il principio di equità orizzontale e mina la capacità di individuare, quali beneficiari delle politiche, tutti (e solo) i soggetti portatori di bisogno. In generale (a meno di non perseguire ipotesi irrealizzabili di trasferimenti universali a tutti i cittadini indipen­dentemente dalle loro condizioni) quando si parla di misure di sostegno al reddito ci si riferisce a misure assistenziali di ultima istanza che conce­dano un trasferimento monetario ai nuclei familiari con reddito equiva­lente inferiore a una determinata soglia e il cui accesso sia indipendente da altre caratteristiche del nucleo. L’Italia, insieme a Grecia e Ungheria, è tra i pochi paesi dell’Unione europea in cui manca una misura di ultima istanza a favore dei nuclei più bisognosi. Al di là delle (poche e limitate) misure sperimentate localmente, a livello nazionale una misura di reddito minimo è prevista per i soli anziani (l’assegno sociale) e ciò spiega perché l’Italia sia tra i pochi paesi OCSE in cui il rischio di povertà sia maggiore tra i nuclei con figli che tra quelli anziani.

Dopo la sperimentazione del “reddito minimo di inserimento” alla fine degli anni Novanta, nel decennio dei governi di centrodestra il tema è stato completamente derubricato. D’altro canto, estese e significative sono le esperienze internazionali su questo terreno, sia nei paesi svilup­pati sia in quelli in via di sviluppo: si tratta in generale di trasferimenti di reddito condizionali (Conditional Cash Transfers, CCTs), in cui cioè l’ammissione al programma di trasferimento è condizionata sia alla pro­va dei mezzi sia alla accettazione di un programma di inclusione attiva, che può riguardare il reinserimento nel mercato del lavoro, l’impegno a garantire la frequenza scolastica dei figli e altri comportamenti “virtuosi” che coinvolgono il nucleo famigliare. Esempi di questo genere includo­no il programma messicano Oportunidades, quello brasiliano di Bolsa Familia e, con riferimento ai paesi europei, possono ricordarsi il Revenu de Solidarité Active (RSA) francese, il Wet Werk en Bijstand olandese o l’ALG II tedesco.

La letteratura specialistica ha ampiamente studiato questi programmi, valutandone i risultati sotto il profilo dell’equità distributiva e degli ef­fetti di incentivo. Sulla scorta di queste esperienze e delle robuste con­clusioni della letteratura sul tema, e a fronte delle carenze del sistema di

welfare italiano ricordate in precedenza, sono state recentemente elabo­rate diverse proposte finalizzate a dotare il nostro paese di una misura universale di contrasto alla povertà.1 Si tratta di proposte che differisco­no tra loro per alcuni dettagli applicativi e anche per le ipotesi di coper­tura finanziaria, ma che convergono su un’impostazione abbastanza co­mune. Alcune di queste elaborazioni hanno trovato un punto di sintesi in una proposta recentemente elaborata da una Commissione di esperti nomi­nata dal ministero del Lavoro.2 La misura propo­sta, denominata “Sostegno per l’inclusione attiva” (SIA), è uno strumento di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, nel senso che prevede un tra­sferimento monetario e un percorso di attivazione economica e sociale; ha una base familiare, ma con elementi che consentono una maggiore attenzione nei confronti dei sin­goli individui; è una misura nazionale e universalistica; è, infine, rivolta a tutti gli individui residenti sul territorio nazionale, indipendentemente dalla nazionalità, sebbene sia richiesto un periodo minimo di residenza per l’accesso.

L’universalità della misura è garantita dal fatto che l’unica condizione per beneficiare del trasferimento è l’insufficienza delle risorse economi­che, valutata secondo criteri omogenei sul territorio nazionale. Il trasferimento è, inoltre, condizionato, oltre che alla verifica della condizione di bisogno, al rispetto di un patto di inserimento stipulato tra i servizi sociali e gli individui che compongono le famiglie beneficiarie. La condizionalità rispetto ai percorsi di attivazione risponde a un triplice obietti­vo: il primo è quello di utilizzare questo schema non solo come strumento assistenziale ed emergenziale, ma anche come meccanismo attraverso il quale gli individui possano raggiungere obiettivi di più lungo periodo, come l’inclusione sociale e l’inserimento lavorativo. Il secondo è quello di responsabilizzare sia le pubbliche amministrazioni incarica­te di offrire adeguati strumenti di accesso e sostegno sia i fruitori del trasferimento. Il terzo è quello di ridurre la possibilità dei falsi positivi: l’accettazione di un programma di attivazione dovrebbe sfavorire com­portamenti opportunistici, che sarebbero, invece, facilitati da meccani­smi automatici di trasferimento.

Altra peculiarità del SIA è che, pur prendendo a riferimento la fami­glia, presta attenzione anche alla dimensione individuale. Le misure di attivazione, infatti, sono rivolte a tutti i componenti il nucleo familiare, indipendentemente dall’intestatario formale del trasferimento.

Vi sono alcuni punti legati al disegno e alla implementazione che vale la pena discutere in un certo dettaglio. Il primo attiene al criterio di accesso e cioè alla definizione della misura del benessere/bisogno di una famiglia e quindi, implicitamente, dell’ammontare del trasferimento (uguale alla differenza tra livello di benessere posseduto e la soglia minima di acces­so). Questo problema è legato principalmente alla definizione delle ri­sorse economiche e dei fattori che influenzano la trasformazione delle ri­sorse economiche in capacità di spesa e, quindi, di benessere individuale.

Una ipotesi avanzata nel documento fa riferimento alle soglie di povertà assoluta elaborate dall’Istat. L’Istat, come è noto, calcola delle soglie di povertà assoluta che dipendono, oltre che dal reddito monetario, da altri tre fattori: la composizione e numerosità del nucleo familiare, l’a­rea di residenza (si distinguono le tre macrocircoscrizioni del Nord, del Centro e del Sud) e l’ampiezza del Comune di residenza. Il fattore terri­toriale è considerato al fine di tener conto del diverso costo della vita. Un risultato rilevante di tale procedura è la definizione di soglie di povertà assoluta sensibilmente inferiori al Sud, ove si misurano livelli di prezzi tendenzialmente più bassi che al Nord. Le differenze di costo utilizzate dall’Istat risultano molto ampie: ad esempio, la soglia di povertà assoluta per una famiglia di un componente in una città metropolitana risulta pari a 785 euro nel Nord e a 580 euro nel Sud. Si tratta di una differenza dell’ordine del 34%.

Al di là dell’ampiezza di tali differenze, e della indubbia necessità di an­dare oltre ripartizioni territoriali così ampie al fine di tener conto di dif-ferenze tra Regioni e Province che possono anche essere significative, le soglie di povertà assoluta definite dell’Istat non considerano un ulterio­re fattore che potrebbe incidere in maniera determinante sulla trasfor­mazione del reddito monetario in benessere o disagio: la disponibilità di servizi pubblici. Dato un reddito monetario, la maggiore o minore disponibilità di servizi pubbli­ci incide sulla quantità di beni e servizi che l’in­dividuo ha necessità di acquistare sul mercato, ai prezzi di mercato, per ottenere un certo livello di benessere. Se in un territorio ci sono meno treni e meno sanità pubblica, i residenti avranno biso­gno di consumare maggiore quantità di trasporto privato e sanità privata per raggiungere uno stesso livello di benessere dei residenti in territori dotati di più servizi. Ovvero, a parità di spesa privata, raggiungeranno un livello di benessere inferiore. In definitiva, come riconosciuto nel Rapporto, le soglie di accesso andrebbero integrate sulla base di indicatori territoriali di offerta dei servizi pubblici.

Ora, tutti i dati disponibili3 mostrano ampiamente l’esistenza di grossi divari territoriali nella disponibilità di servizi pubblici. Anche solo limi­tandosi a un dato grezzo e puramente quantitativo come la spesa pubbli­ca pro capite, emerge un livello sistematicamente più basso nelle Regioni del Sud rispetto al resto del paese in ambiti essenziali come la sanità, il trasporto, l’istruzione, la giustizia: dal 1996 al 2010 un cittadino resi­dente al Nord ha ricevuto una spesa pubblica maggiore del 21,5% della corrispondente spesa ricevuta da un residente al Sud. In altri termini, l’eventuale minore costo di alcuni beni e servizi privati al Sud potrebbe trovare compensazione nella minore disponibilità di servizi pubblici of­ferti a cittadini in quelle stesse aree.

Il secondo tema attiene alla governance della politica e, in particolare, alla individuazione di uno o più soggetti istituzionali più adatti ad ac­cogliere la domanda, a definire la condizionalità per l’accesso, a offrire i servizi di inclusione e inserimento e a erogare le prestazioni monetarie. È necessaria una governance chiara dello strumento al fine di evitare sovrapposizioni strutturali di competenze – che rendono poco chiari i meccanismi di fruizione del trasferimento ostacolandone il suo utilizzo – e mas­simizzare le economie di scala relative ai processi di inserimento.

Le proposte avanzate suggeriscono che le Regioni svolgano una funzione di raccordo tra il livello di governo centrale e quello locale. Al primo spettereb­bero le decisioni relative ai requisiti di ammissibilità al programma e l’erogazione del trasferimento mo­netario, funzione che dovrebbe in particolare essere espletata dall’INPS. Agli enti locali, invece, sarebbe­ro affidate le funzioni di accoglimento delle domande e la definizione dei percorsi di inserimento attivi necessari per la fruizione del SIA. Si tratta di un’articolazione razionale delle funzioni. E, tuttavia, vi è il timore che questa articolazione possa in principio determinare effetti di azzardo morale da parte degli enti locali, essenzialmente i Comuni, con partico­lare riferimento al rispetto della condizionalità. Non avendo un proprio vincolo di bilancio sulla misura in atto, nella verifica del rispetto dei percorsi di inclusione attiva da parte dei beneficiari il Comune potrebbe avere un incentivo ad “ammorbidire” i controlli al fine di massimizzare l’ammontare di trasferimenti ricevuti dai propri residenti. Forme di co­finanziamento potrebbero ridurre questi rischi. Infine, un monitoraggio costante e la valutazione puntuale del programma, soprattutto nelle fasi di avvio, potrebbero dimostrarsi cruciali per l’adozione di cambiamenti “in corso d’opera” per rimuovere o modificare eventuali aspetti proble­matici.

Fino ad ora la proposta descritta, così come proposte analoghe formulate nel recente passato, non ha trovato spazio di applicazione, a causa da un lato dei vincoli di bilancio, dall’altro dei timori, anche legittimi, di un indebolimento delle tutele categoriali esistenti: è, infatti, evidente che il finanziamento di una misura universale di sostegno al reddito deb­ba passare da una revisione, in chiave redistributiva, dell’intero sistema dei trasferimenti monetari. Oggi, dopo quasi sei anni di recessione, una revisione del welfare secondo le linee qui delineate fronteggia una contraddizione: da un lato, il peggioramento delle condizioni delle fasce povere della popolazione determina l’urgenza di intervenire; dall’altro, la riduzione del reddito medio registrato anche dalla famiglie non pove­re riduce la disponibilità ad accettare una revisione delle tutele esistenti.


[1] Ci si riferisce, in particolare, al reddito di inclusione attiva (REIS) proposto dalle ACLI, al reddito minimo di inserimento proposto da IRS e CAPP, al reddito minimo garantito proposto da SEL. Di diversa natura è il reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle, trattandosi di un reddito garantito a tutti i cittadini a prescindere dal reddito disponibile.

[2] Chi scrive ha fatto parte del gruppo di lavoro che ha elaborato la proposta. Il rap­porto finale è disponibile su www.lavoro.gov.it/Priorita/Documents/Relazione_po-vert%C3%A0_18settembre2013.pdf

[3] Si vedano, ad esempio, i dati dei conti pubblici territoriali sulle differenze territoriali nel-la spesa pubblica (disponibili su www.dps.tesoro.it) e, sulle differenze territoriali nella disponibilità e qualità dei servizi pubblici, si veda, tra gli altri, L. Cannari, D. Franco (a cura di), Il Mezzogiorno e la politica economica dell’Italia, Banca d’Italia, Roma 2010.

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