La comunicazione senza partiti

Written by Mauro Calise Thursday, 20 March 2014 16:12 Print

Il regime mediatico in cui siamo immersi definisce nuove regole del gioco. Cui, ci piaccia o meno, occorre attenersi se si vuole essere in partita. Dopo gli autogol incassati pretendendo di comunicare la ditta quando invece la ditta arrancava, di organizzare primarie travolgenti anche a livello locale, dove invece siamo stati travolti, o bollare come populisti i leader che, nel bene o nel male, riuscivano a mantenere vivo il contatto con la gente: forse conviene rassegnarsi all’idea che il sistema in cui viviamo lascia pochissimo spazio alla comunicazione di partito. E punta tutto sulle capacità del leader. E su questa base lavorare per darci, finalmente, una chance di vittoria.

Si sa, preferisco giocare in contropiede. Correndo il rischio del fuorigio­co. Per uno scienziato sociale è – quasi – un obbligo morale. Chiedeva sempre Alessandro Pizzorno, quando gli esponevi un’idea, peggio se do­cumentata: “cosa c’è di controintuitivo?”. Ogni volta che si fa una sco­perta, si rischia di scoprire l’acqua calda. Soprattutto se ci si arriva, come c’è arrivato il PD postcomunista e postdemocristiano, con oltre vent’an­ni di ritardo. Quindi, prima di presentare queste analisi – finalmente – inoppugnabili sui trend della comunicazione politica nel passaggio dal reale al virtuale, affaccio alcune considerazione controvento. Pazienza se queste parole suoneranno come un’orazione funebre. Forse, proprio di questo si tratta. Poi, nel finale, proverò a riscattarmi con qualche slan­cio propositivo.

Dunque. Cosa è successo, e quando? A quale bivio ci siamo distratti? Come mai non ci siamo accorti che il sentiero si era interrotto? Le uni­che domande che oggi valga la pena di porsi sono queste. Non per pian­gere sul latte versato, ma per capire se ci siano ancora margini, e quali, per recuperare. Non sul fronte della comunicazione politica. Ma su quel­ lo della comunicazione di partito. Faccio subito una distinzione netta, in modo da isolare il problema. E da spazzare gli equivoci, e gli alibi. Perché discutere di comunicazione politica, al punto in cui siamo oggi, potreb­be apparire superfluo. Sì, d’accordo, ci sono ancora schiere di militanti che non hanno capito che il mondo – a un certo punto – si è messo a girare intorno al sole. E bisogna – bisognerebbe – che qualcuno glielo spiegasse. Ed è meritorio che ci provi la rivista che meglio rappresenta la cultura che siamo stati, cercando di tenere alta la testa anche per scorgere il futuro. Ma nel frattempo, mentre decidevamo come organizzare il se­minario e dove mettere il sillabario, il problema si è risolto da solo. Dopo vent’anni di sberle reali marcate Silvio Berlusconi, sono arrivate quelle virtuali sparate – addirittura più grosse – da Beppe Grillo. E finalmente, quando proprio sembrava che fossimo al tappeto e, anzi, sbalzati fuori dal ring, ecco lo scatto di reni. Anzi di Renzi. E siamo tornati in gioco anche noi. Cioè, quasi.

Chiariamoci. Non sto criticando i contributi di questa rubrica. Tutt’altro. Sono la riprova che non mancano, nella nostra area – come dire – geocul­turale, esperti bravi, mappature precise, bussole per orientare il cammi­no. Il punto è un altro. Il punto è capire se, una volta spiegato per bene quello che stiamo spiegando con incalcolabile ritardo, resti ancora uno spazio di manovra, uno spiraglio – il mio antico maestro Tronti direbbe: anche solo una cruna dell’ago perché la talpa ritorni a scavare. Oppure dobbiamo dire: game over. Almeno per coloro che hanno continuato a riporre la speranza nel vecchio verbo. Il logos dell’homo sapiens sul quale i partiti hanno fondato, per un secolo, il loro messaggio.

Partiamo dalla magistrale intervista a Roberto D’Agostino, che mette a nudo questo fascicolo. E tiriamone le conseguenze, i danni collaterali che investono il nostro discorso. Senza più giri di parole: la comunicazione postmoderna – che è an­che post-movimento operaio – ha messo i partiti in ginocchio. Anzi, peggio, li ha ammutoliti. Lette­ralmente: lasciati senza parole. Già, la verità è così semplice e banale. I partiti sono rimasti senza lin­guaggio. Peggio, senza lingua. A parte, ovviamente, i partiti personali, che sono anzi rivitalizzati dai soli­loqui – e dagli sproloqui – dei leader che li impersonano, perfetti esempla­ri viventi di media logic applicata a una specie in via di nobile estinzione.

Dunque, prima di occuparmi dei temi affacciati negli altri saggi scom­mettendo che possa esserci un nuovo inizio, che si possano ancora af­frontare e superare quelle colonne d’Ercole – basta metterci un poco di pazienza, di tenacia, di organizzazione –, preferisco partire dall’idea che, ormai, sia troppo tardi. Che, cito da D’Agostino, «il punto è che tutto questo dibattito interessa solo voi. Alla gente non gliene frega as­solutamente niente. Interessa l’insulto, il particolare osceno» (o, che è poi la stessa cosa, l’elogio e il generale buonista). È troppo tardi. Però, attenzione, non per recuperare voti. Per quelli, come ho detto all’inizio, sembrerebbe che sia arrivato il nostro turno. Sempre che non si proceda secondo schemi ben collaudati, ammazzando il leader di turno come lo scorpione con la rana, questa, forse, è la volta buona.1 Quella in cui senza averlo voluto, anzi avendolo in tutti i modi osteggiato, saliamo anche noi sul carro – il treno, il razzo – vincente. Provando quella inconfessabile ebbrezza di quando ci si ritrova in mano il biglietto della lotteria, dopo avere passato una vita a lavorare sodo, anzi sodissimo, insegnando che era l’unico modo per guadagnarci da vivere conservando il rispetto di noi stessi, e invece – un capriccio della sorte – ci ritroviamo a godere di una rendita di posizione. E non sappiamo se e come rallegrarcene, perché in fondo – diciamocela tutta – quel premio non ci appartiene.

Dunque, non è tardi per vincere. Anzi, abbiamo vinto. Ma non è la vittoria che avevamo desiderato, preparato. Non è il partito che ha vinto, è il leader. Ed è il leader, diventato premier, che oggi ha diritto di parola. Al partito – ci mancherebbe – è concesso di stilare bollettini di corrente, preparare in Commissione emendamen­ti, perfino – una novità a sinistra – adombrare minacce di scissioni. Ma alla gente – direbbe D’Agostino – non gliene frega assolutamente nien­te. Alla gente parlerà il leader, anche e finalmente a sinistra, come nei vent’anni passati ha fatto, a destra, Berlusconi, e Grillo ha cominciato a fare sia a destra che a sinistra. E con questa chiusura del cerchio, del cer­chio magico tra leader e gente, finiscono in soffitta anche i due equivoci sui quali abbiamo scavato le ultime, fallimentari trincee.

Il primo è quel raffinato distinguo tra gente e popolo, anzi “il nostro popolo” come ancora taluni amano dire (dimenticando che, secondo le statistiche, il nostro voto sarebbe composto in grande preponderanza da anziani, dipendenti pubblici e – of course – professori di ogni ordine e grado, mentre mancano al nostro appello sociale operai, giovani e disoccupati). Una distinzione ideologica molto, per noi, autogratificante, ma che l’inglese – l’America (ancora!) mostra al mondo il suo futuro – aveva in origine abolito, mettendo tutti nel melting pot di people.

Il secondo equivoco è l’alibi per liquidare chi parlava al popolo al posto nostro: i populisti. Tutta questa letteratura, d’un colpo, verrà messa in soffitta. O, almeno, messa in difficoltà. Sì, lo so cosa state pensando. Che sono ormai tutti, e solo, populisti. Ma, nel momento in cui lo pensate, vi sentirete – inevitabilmente – a disagio. Se tutto il popolo si è popu­listizzato, chi è rimasto a farci compagnia? Forse conviene rivedere il vocabolario, abbandonando gli opposti estremismi. Sempre a proposito di America, è appena il caso di ricordare che – a dispetto delle numerose e pericolose capriole della storia – populist significa ancora “liberal di sinistra” negli articoli del “New York Times” e del “Washington Post” e identifica illustri senatrici, nonché potenziali candidate democratiche alla presidenza.

Allora. Il punto in cui siamo è questo: comunica il leader, con la gente, con contenuti e modalità populisti. In questo scenario, cosa resta della comunicazione di partito? Dopo la micidiale tripletta di autoreti, un re­cord negativo che ci ha lasciati basiti? Uno: con la sconfitta di Bersani è – nobilmente ma clamorosamente – naufragata l’idea di comunicare la ditta. L’estremo tentativo di incarnare – peraltro in un simbolo molto emiliano ma poco italiano – quel principio di identità collettiva che era stato, per oltre un secolo, il naturale appannaggio dei partiti. E che da tempo era rimasto abbarbicato solo alle nostre nostalgie. Due: nei mesi successivi alla caduta – la storia si prende le sue vendette – quel poco che rimaneva della dignità del partito è stato messo alla berlina dalle cronache impietose delle elezioni nei circoli, da cui è apparso evidente anche agli ultimi trinariciuti che, in periferia, la ditta ha fatto da tempo bancarotta. Deflagrando nelle diciannove correnti con cui Wikipedia ha sancito la disfatta di quello che era stato il partito di Secchia e Pecchioli. Fino ad arrivare – tre – al flop delle primarie regionali, a conferma che una volta che manchi il catalizzatore della competizione nazionale per una carica monocratica – segretario e/o premier – anche l’ultimo accrocco con il quale pensavamo di aggirare il problema si trasforma in un autodafé.

Dunque, ricapitolando, la comunicazione di partito registra il seguente bollettino di guerra: sconfitta della ditta in campo aperto, suicidio orga­nizzativo nei circoli, primarie regionali off limits. Uniche sopravvissute le primarie nazionali, in cui, come era già avvenuto con Prodi, Veltroni e perfino – malgré soi – Bersani, il vincitore conquista il podio mediatico generale. Detto senza giri di parole: il partito riesce a farsi sentire solo quando elegge il suo leader.

Mi fermo qui. Nella speranza che altri abbiano argomenti migliori per salvare – se c’è ancora – il salvabile. Ma rispettando le regole del gioco. Che non vengono decise da noi. Ma dal regime mediatico in cui siamo – ci piaccia o meno – tutti precipitati. E del quale ho cercato di isolare una caratteristica esiziale per il mondo da cui veniamo: il fatto che sia un sistema che lascia pochissimo, if any, spazio ai partiti. E – temo – ne la­scerà sempre meno. E qui vengo, brevissimamente, ad alcuni degli spun­ti nei densi saggi che compongono il Focus e che ci danno le coordinate principali dell’universo in cui la politica oggi si trova a comunicare.

Cominciando da una constatazione di Massimo Scaglioni, sulla con­vergenza dei media. Perfino il prorompente esordio della rete, che ha sbaragliato le previsioni portando Grillo e il suo alter ego informatico a conquistare un quarto dei votanti, ha visto come protagonista la TV. È grazie alla – programmatissima – assenza dei suoi fedeli dal teleschermo che il comico genovese è diventato l’oggetto del desiderio di tutte le tra­smissioni preelettorali. Governando, da quel palcoscenico, il consenso del pubblico di massa. Di converso, e paradossalmente, proprio quando Grillo si è chiuso nel recinto del web son venute le performance peggiori e più criticate. Con il popolo di internet convocato solo per decretare espulsioni, peraltro su una piattaforma le cui chiavi restano proprietà insindacabile di Casaleggio. E i cui numeri si confermano risibili. Se la promessa della e-democracy era stata quella di dare voce, direttamente e individualmente, a quella “saggezza delle folle” di cui scrive Rosanna De Rosa, il risultato è uno striminzito manipolo di fedelissimi militarizzati, poche decine di migliaia di persone che si auto-attribuiscono il ruolo di rappresentare la rete. Con una usurpazione plateale che solo la reverenza codina di molti giornalisti nostrani – anche a causa di una diffusa igno­ranza dei meccanismi di funzionamento del web – ha faticato e tardato a smascherare. Col risultato sempre più probabile che Grillo stesso finirà col soccombere alla macchina che lo ha reso potente, quella “organizza­zione della sfiducia” che, come nota De Rosa, è stata il tratto distintivo della sua ascesa.

Ciò non toglie che la partita più interessante della rete resti la radicale modifica delle forme della partecipazione. Il clicktivism individua un ter­ritorio ancora in gran parte sconosciuto. È fuor di dubbio, come ricorda Michele Sorice, che «le potenzialità offerte dal web 2.0 obbligano a un ripensamento dell’idea di partecipazione politica». E che ciò prende in contropiede i partiti tradizionali, visto che «anziché un uso “discorsivo” della comunicazione, la politica ha accettato passivamente un modello “trasmissivo” molto semplificato». Però, detto e ac­quisito questo, non è facile immaginare quale sarà – se ci sarà – il futuro della democrazia nel nuo­vo mondo della convergenza mediatica trilaterale: TV, rete e carta stampata. La sensazione prevalente è che, più crescono le spinte partecipative dal bas­so, più diventano politicamente incontrollabili se non attraverso il vecchio – ma per niente obsole-to – canale televisivo. Costretto, però, ad accentuare le proprie tendenze orwelliane, con i grandi leader nei panni di grandi fratelli. Mentre alla carta stampata resterebbe il compito di presidiare e interpretare le stanze – sempre più barcollanti – del potere. Gli arcana imperii assediati dall’in­terno non meno che dall’esterno.

Di fronte a questo quadro alquanto scoraggiante, sarebbe però un grave errore pensare che siamo già nell’angolo. Sappiamo ancora troppo poco sul mix tra homo videns e homo digitalis che sta ribollendo nel caldero­ne della comunicazione globale. Un mix – o mutazione genetica – su cui aprono uno squarcio le pagine di Derrick de Kerckhove. Come ho scritto di recente, «da vent’anni che mi occupo di rete, l’unica previsione infallibile è che veniamo presi in contropiede dagli sviluppi successivi. Con l’eccezione dell’eccezionale – nel senso di irripetibile – decalogo con cui McLuhan preconizzò, cinquant’anni fa, tutto quello che sta ac­cadendo oggi».2 In sintesi: non ci sono le certezze teoriche, e tanto meno i riscontri empirici, per decretare game over. Se è vero, che the media is the message, il medium che sta guidando la nostra odissea nel cyberspazio ancora attende di essere decifrato.


[1] Uno schema che ho analizzato – ma certo non esorcizzato – in Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader, Laterza, Roma-Bari 2013.

[2] M. Calise, Sartori 2.0: la cyber-repubblica, in G. Pasquino (a cura di), La repubblica di Sartori, numero speciale della rivista “Paradoxa”, 1/2014.

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