L’uomo dei boschi e il cannibale. Tempo, lavoro e libertà in Melville e Thoreau

Written by Emanuele Trevi Wednesday, 13 October 2010 16:28 Print
L’uomo dei boschi e il cannibale. Tempo, lavoro e libertà in Melville e Thoreau Disegno: Serena Viola

La lettura di “Typee” e “Walden ovvero Vita nei boschi”, due memorabili capolavori della letteratura americana dell’Ottocento, suscita più di un interrogativo intorno alla possibilità per l’uomo «civilizzato», pur capace di lasciarsi alle spalle il suo passato e intravedere forme di vita libere dalla tirannia del lavoro, di trasformare la sua libertà in una condizione permanente. Tuttavia né Melville né Thoreau hanno il tono di chi racconta una sconfitta, semmai la loro è una morale dell’esperienza e della trasformazione, totalmente aliena dalle tentazioni dell’utopia.

Nel 1847, a quarant’anni esatti, scrivendo a un vecchio amico dei tempi dell’università, Henry D. Thoreau elencava allegramente i suoi mestieri – «maestro di scuola, ripetitore, agrimensore, giardiniere, contadino, pittore (voglio dire di case), falegname, muratore, operaio pagato alla giornata, fabbricante di matite, fabbricante di carta vetrata, scrittore, talvolta poetastro». La lista suggerisce una totale assenza di gerarchie. Se i pregiudizi del mondo separano rigidamente le attività manuali e quelle intellettuali, l’individuo libero, colui che inventa da sé la sua strada nel mondo, afferma l’esatto contrario. Non si identifica completamente in nessuna funzione; non è il protagonista di un curriculum vitae, di una carriera che proceda dal basso verso l’alto, dall’indigenza al benessere, dal margine al vertice. Tutto ciò che sa fare, lo può fare sempre, a seconda della necessità e delle occasioni. Ogni lavoro lo impegna come un gioco: mobilita conoscenze e risorse interiori considerevoli, eppure non si cristallizza mai in un destino. Ogni impegno è transitorio, si tratti di dipingere una staccionata o di comporre un poema, perché nulla di esattamente definibile può esaurire l’essenza più intima e preziosa della vita: né un ruolo sociale, né una tra le molteplici idee di sé che si avvicendano e si smentiscono nel corso di una singola giornata. Il prezzo di questa libertà non è mai troppo alto. Il suo pagamento può essere affrontato a sua volta come un gioco. Questo gioco può essere definito riduzione del bisogno, e consiste in una progressiva e gioiosa semplificazione, tendente all’essenziale. Cosa è veramente necessario per vivere? E a cosa, invece, è possibile rinunciare? Condotto fino al limite delle possibilità, il gioco rivela una legge fondamentale: è sempre il superfluo a forgiare le nostre catene. La quantità di lavoro necessaria ad ottenere il superfluo sottrae all’individuo una vita propria, che sia degna d’essere vissuta.
“Walden ovvero Vita nei boschi”, il capolavoro di Thoreau pubblicato nel 1854, è tutto meno che un’opera di teoria politica. La potente energia psicologica che ancora oggi si sprigiona dalle sue pagine, come fossero dotate dell’eterna giovinezza di certe fiabe, dipende dal fatto che il loro autore deriva ciò che pensa direttamente e unicamente da ciò che, in concreto, è capace di realizzare. Il tipo di sapienza che “Walden” mostra ai suoi lettori ha ben poche affinità con il pensiero occidentale modernamente inteso. È così radicato in un modo di esistere, che sradicarne le idee da questo terreno equivarrebbe a distruggerne il senso. Come un saggio taoista, come uno dei «maestri di verità» della Grecia presocratica, come un mistico medievale forgiato dal quotidiano esercizio dell’estasi, Thoreau non elabora un’idea del mondo, ma una pratica di vita. Il suo pensiero, in altre parole, è niente di più e niente di meno che un esperimento su se stesso. L’esperimento comincia alla fine dell’inverno del 1845, quando Thoreau, fattasi prestare una buona ascia (il proprietario era Bronson Alcott, il padre dell’autrice di “Piccole donne”) inizia ad abitare una capanna di legno, costruita con le sue mani, sulle rive del lago di Walden, non lontano da Concord, nel Massachusetts, la sua città natale. Vivrà lì per due anni, inverni compresi, leggendo e scrivendo, osservando ogni dettaglio della flora e della fauna circostante, coltivando fagioli, pescando, misurando lo spessore del ghiaccio e scandagliando la profondità del lago. Dagli appunti del diario e dalle memorie di quel periodo nascerà “Walden”, un libro ardito e inclassificabile, emanazione diretta di un’esperienza che è l’unico possibile criterio di verità al quale sottoporre i contenuti del pensiero. «Al giorno d’oggi», scrive Thoreau formulando una diagnosi tuttora incontestabile, «vi sono professori di filosofia ma non filosofi». Tipico prodotto di una civiltà mercantile e industriale basata sulla specializzazione delle prestazioni e la frantumazione dell’esperienza, il professore di filosofia vive in un mondo puramente fittizio, nel quale le parole usurpano i diritti della realtà. L’«essere filosofi» di Thoreau, al contrario, «non significa soltanto avere pensieri acuti, o fondare una scuola, ma amare la saggezza tanto da vivere secondo i suoi dettami: cioè condurre una vita semplice, indipendente, magnanima e fiduciosa. Significa risolvere i problemi della vita non solo teoricamente ma praticamente». Ecco perché, a differenza di quanto ci si potrebbe aspettare da un’opera dedicata alla vita nei boschi e scritta in piena età romantica, il primo capitolo di “Walden” può intitolarsi “Economia”, e diffondersi sui minimi particolari pratici (compresi i conti delle spese, minuziosamente dettagliati) dell’esperimento di libertà che viene raccontato. La prospettiva particolarissima dalla quale Thoreau guarda al mondo è quella di chi sottopone ogni valore al vaglio del possibile. L’aspirazione a voltare le spalle alla società e alle sue costrizioni, per tornare nel seno accogliente della natura, percorre la poesia di tutti i tempi, ma è una figura retorica del tutto innocua, fino a che si arresta all’àmbito del desiderio e della petizione di principio. Vista da vicino, la questione appare sotto una luce ben diversa. Perché chi compie davvero quel passo, dovrà pure costruirsi un rifugio, dove provvedere alle necessità fondamentali alla propria conservazione. Dovrà insomma disporre non di ideali bucolici, ma di cibo e di calore sufficienti, oltre che di un certo numero di abilità manuali e di utensili indispensabili. Quanto agli aspetti finanziari dell’impresa, Thoreau non considera triviale nessuna informazione, in accordo con un metodo di pensiero basato sulla verificabilità empirica dei principi. La questione del lavoro ovviamente non può essere aggirata in questo resoconto della conquista di un’autosufficienza pressoché perfetta. Se la costruzione della capanna nel bosco significa la conquista di uno spazio adatto alle proprie aspirazioni, la questione di come guadagnarsi da vivere è ancora più delicata, poiché implica la salvaguardia della maggior quantità possibile di tempo da sottrarre al vincolo della necessità, e salvaguardare da ogni intrusione del mondo esterno. «La mia maggiore abilità», dichiara Thoreau con malcelata fierezza, «è sempre stata aver bisogno di poco». Più di ogni qualifica e competenza professionale, è questo talento della privazione che decide la sorte di un individuo. «Lavorando circa sei settimane all’anno potevo affrontare tutte le spese». Tralasciati alcuni progetti per i quali si scopre poco tagliato, come l’insegnamento o il commercio di mirtilli, ecco che Thoreau individua rapidamente nella condizione di «operaio a giornata» la più adeguata a un sistema di vita nel quale il tempo è una materia infinitamente più preziosa del denaro. «Trenta o quaranta giorni di lavoro», infatti, «bastano per mantenere una persona tutto l’anno» – solo a patto, ovviamente, che questa persona sia avanzata nel suo percorso di riforma interiore abbastanza da aver fatto piazza pulita dalle potenti illusioni del possesso, della sicurezza economica, del lusso.
Nel gennaio del 1846, proprio mentre Thoreau affrontava lietamente i rigori dell’inverno nella sua capanna in riva al lago di Walden, spiando le tracce lasciate nella neve dagli animali in cerca di cibo, veniva stampato a New York un libro intitolato “Typee”. Il suo contenuto non era meno singolare del titolo. Il giovane autore, al suo esordio letterario, si chiamava Herman Melville. Più o meno deformati dalla fantasia e dalla ricerca di un massimo di efficacia narrativa, i fatti raccontati in “Typee”, risalenti a pochi anni prima, erano sostanzialmente veri. Nel gergo della critica odierna, si potrebbe parlare di un esempio di autofiction. All’inizio del racconto Tom (questo è il nome del protagonista) è imbarcato su una baleniera, che ormai da più di un anno percorre infruttuosamente le rotte del Pacifico. Il capitano della nave, un dispotico e collerico Achab privo di grandezza, rende insopportabile la vita all’equipaggio, ormai ridotto alla fame. Quando la baleniera è costretta ad approdare a Nuku Hiwi, l’isola maggiore dell’arcipelago polinesiano delle Marchesi, l’opportunità di disertare diventa una tentazione irresistibile. Nell’estate del 1842, la flotta francese ha appena iniziato a impadronirsi dell’arcipelago, abitato da tribù di cui si sa pochissimo – a parte la sinistra fama del cannibalismo. Tra queste popolazioni, godono di una particolare reputazione di ferocia soprattutto i Typee, che abitano in una valle remota dell’isola, difesa da scoscese catene montuose. È proprio lì che inconsapevolmente si dirigono Tom e il suo compagno di fuga una volta abbandonata senza rimpianti la baleniera. Con loro hanno solo pochissimi viveri, del tabacco, e qualche metro di stoffa nel caso si presentasse l’occasione di qualche baratto con gli indigeni. Durante la fuga, Tom si ferisce a una gamba, e mentre il compagno torna sui suoi passi per procurarsi un aiuto, rimane solo, alla completa mercé dei suoi imperscrutabili ospiti. Viene curato e nutrito con grande generosità, ma si rende ben presto conto di essere un prigioniero trattato con ogni riguardo, da gente che non intende per nessuna ragione lasciarlo andar via. Solo nell’ultimo capitolo Tom, che non ha mai rinunciato all’idea di fuggire, riuscirà a rischio della vita a riguadagnare la sua libertà e a tornare fra i suoi simili. È questo il semplice schema della straordinaria avventura antropologica raccontata in “Typee”. Tornato a casa, Melville completerà le sue osservazioni con i resoconti di altri esploratori della Polinesia, dilatando i tempi della sua permanenza fra gli indigeni allo scopo di rendere credibile la ricchezza delle informazioni raccolte. Ma l’autentica sostanza dell’opera è nell’acutezza delle impressioni dirette. Superiore a ogni forma di meccanico esotismo, lo sguardo di Melville sui Typee è scevro di pregiudizi, curioso, disposto ad arrendersi al fascino di un’alterità assoluta, da accettare in quanto tale. Pur soffrendo della sua condizione di prigioniero, Tom si rende conto di essere a contatto con una forma di vita che ha molti tratti in comune con l’Età dell’Oro evocata dai poeti antichi. A dispetto della loro fama di feroci guerrieri, e nonostante l’intricato sistema dei tabù che regola le loro vite, incomprensibile allo straniero, i Typee sono uomini e donne fondamentalmente allegri e sereni, e dotati delle tecniche e dei saperi necessari a trascorrere i loro giorni in una specie di trasognata infanzia – se non del tutto innocente (quale infanzia lo è davvero?) almeno sollevata dalle miserie e dalle preoccupazioni che ci accompagnano fino alla tomba. I frutti dell’albero del pane e della palma da cocco forniscono agli indigeni la base del loro sostentamento, e quando desiderano arricchire la loro dieta, praticano la caccia e la pesca con la mentalità di chi si dedica a un gioco. Ciò che più stupisce Melville, tra le tante caratteristiche dell’esistenza dei Typee degne di stupore, è la quantità minima di tempo che gli indigeni dedicano ad attività in qualche modo assimilabili a un lavoro. Anche se non è assente nella valle una gerarchia sociale, la cui sommità è occupata da guerrieri e sacerdoti, tutte le nefaste conseguenze dell’attività economica sono bandite da questo Eden tribale, dove nessuno è escluso dal godimento dei beni comuni, e non esiste nessuna delle forme di asservimento generate dalla ricchezza. «L’angoscia, i dolori, la noia», scrive Melville trascinato da un’incontenibile ammirazione, «sembravano cose sconosciute ai Typee.
Le ore saltellavano via liete come ridenti coppie di una danza campestre». In quel mondo incorrotto, non esiste nessuno degli ingegnosi strumenti escogitati dall’uomo civilizzato per «mutilare» la sua felicità. «Espropriazioni e ipoteche, cambiali protestate, assegni a vista, debiti d’onore sono tutte cose  sconosciute tra i Typee; non ci sono sarti e calzolai irragionevoli quando si tratta di pagarli, creditori che assediano, citazioni per percosse, avvocati che fomentano discordie per loro tornaconto, parenti poveri che ti occupano in pianta stabile la camera da letto degli ospiti e che infilano i loro gomiti al tuo desco, vedove diseredate con bimbi che muoiono di fame grazie alla carità del mondo, mendicanti, prigioni per debitori, nababbi duri di cuore e soverchiatori ». Le conseguenze di questa benefica libertà dalla tirannia della sfera economica vanno ben oltre ciò che si potrebbe supporre a prima vista. Sottraete all’esistenza il potere del lavoro e del denaro, suggerisce genialmente Melville, e spariranno d’incanto molti tipi d’infelicità, e innumerevoli maschere della commedia umana che il mondo «civile» non si stanca di mettere in scena. «In questa appartata dimora della felicità non c’erano vecchie perverse, matrigne crudeli, zitelle appassite, vergini malate d’amore, scapoli climaterici, mariti apatici, giovani ipocondriaci, bimbi piagnucolosi, mocciosi imperversanti. Tutto era allegria, divertimento e buon umore. Allucinazioni, depressioni, distonie, angosce, erano tutte fuggite dentro i profondi recessi delle rocce».
“Typee” e “Walden” sono, oltre che due eccelsi esemplari di un periodo d’oro della prosa americana, due scommesse molto ardite. Al centro di entrambi i capolavori, sta un’idea di libertà, generata da un disagio. Entrambi, inoltre, prendono le mosse da un’esperienza vissuta, che si configura come una fuga dalla società e dalle sue leggi economiche. Infine, sia il libro di Melville che quello di Thoreau raccontano di esperienze limitate nel tempo. Tom, il protagonista di “Typee”, come un nuovo Ulisse si strugge di nostalgia per il suo mondo, tanto più infelice di quello degli indigeni. Quanto a Thoreau, nel  1847 abbandona la capanna di Walden, per tornare a vivere a Concord («Lasciai i boschi», scrive alla fine di “Walden”, «per una ragione altrettanto buona di quella per cui mi ci ero stabilito. Forse mi pareva di avere altre vite da vivere, e di non poter dedicare altro tempo a quella sola»). L’uomo «civilizzato », dunque, pur capace di lasciarsi alle spalle il suo passato, e intravedere forme di vita libere dalla tirannia del lavoro, non sarebbe in grado di trasformare la sua libertà in una condizione permanente? Può essere una chiave di lettura legittima. Ma né Melville né Thoreau hanno il tono di chi racconta una sconfitta. Semmai, andrà osservato che la loro è una morale dell’esperienza e della trasformazione, totalmente aliena dalle tentazioni dell’utopia. Dai nobili e remoti prototipi rinascimentali ai sogni più azzardati dei moderni, il discorso utopico è una specie di serpente che si morde la coda, una narrazione che finisce per consumare la sua spinta iniziale, divorando se stessa. Una volta raggiunto e descritto minuziosamente uno stato di perfezione, infatti, non c’è più nulla da raccontare. Il narratore di un’utopia è un soggetto che rimane, prima o poi, congelato all’interno del suo stesso sogno. I protagonisti dei racconti di Melville e Thoreau, al contrario, sono testimoni del carattere fondamentalmente discontinuo e reversibile che ogni bene riveste nell’esperienza umana. Anche se raccontano fatti realmente accaduti, il loro modello di conoscenza fondamentale è il romanzo, col suo irrimediabile impasto di contingenza e fallibilità. È una concezione morale e filosofica che fa del bene l’oggetto di un’aspirazione costante, e mai e poi mai un risultato stabilmente ottenuto. Spremuto  dall’avventura il suo succo più prezioso, allora, l’eroe torna a casa, e questo movimento è in accordo con la sua natura profonda tanto quanto il desiderio di allontanarsi, di arricchire la sua vita spingendosi oltre tutti i limiti stabiliti. Come il vento si rende visibile solo sulla superficie dell’acqua, o tra le fronde degli alberi, così ogni idea di riscatto, ogni occasione di libertà si rendono credibili solo sullo sfondo della nostra imperfezione. Ed è proprio percorrendo tutta intera l’oscillazione tra ciò che siamo e ciò che potremmo essere che libri come “Typee” e “Walden” non hanno ancora smesso di insegnarci qualcosa.