Viviamo una fase in cui i partiti fanno sempre più fatica a esercitare quel ruolo di intermediazione degli interessi e dei bisogni che la stessa Costituzione gli attribuisce. Eppure non possiamo pensare di farne a meno. Le difficoltà del momento attuale non possono essere una giustificazione per la rassegnazione e l’inazione. Serve che ai cittadini vengano di nuovo date voce e rappresentanza, sia all’interno dei partiti che nel sistema politico nel suo complesso. Servono una nuova disciplina in grado di garantire la democrazia interna ai partiti e una riforma del sistema elettorale che restituisca centralità alle scelte dei cittadini. Occorre agire, “Per ridare rappresentanza ai cittadini”.
Un sistema democratico è tale quando i governati possono riconoscere i propri interessi, i propri bisogni e le proprie aspettative negli indirizzi e nelle decisioni dei governanti. Ai partiti in primo luogo è stato attribuito questo compito dalla stessa Costituzione.
Ogni progetto di legge sulla democrazia interna ai partiti in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, per quanto auspicabile, non può prescindere da due ordini di considerazioni in merito, da un lato, a ciò che le è consentito fare secondo il diritto costituzionale; dall’altro, riguardo alle sue possibilità di incidere su una realtà politica frammentata come quella italiana di oggi. A ciò si aggiungono le incognite legate alla diffi coltà di raccogliere, nello scenario attuale, una maggioranza parlamentare simile a quella, larghissima, che ha portato all’approvazione di analoghe leggi in altri paesi europei. È opportuno però, anche in presenza di una tale complessità, rinviare oltre l’attuazione di riforme decisive per restituire i partiti alla loro autentica missione democratica?
Non possono esistere partiti senza democrazia né democrazia senza partiti. La crisi di identità in cui questi ultimi sembrano sprofondati è in gran parte frutto della loro scarsa capacità di rinnovamento, di cui l’incompiuta democratizzazione è un elemento determinante. Molto può essere fatto intervenendo sul fronte normativo per regolamentare la vita e il funzionamento interno dei partiti. Ma non basta. Occorre agire anche sul terreno elettorale, dove solo un sistema maggioritario basato su collegi uninominali potrebbe essere in grado di allargare la partecipazione e il confronto a tutti i cittadini, favorendo una effettiva democrazia di partito e di sistema.
Le recenti elezioni parlamentari hanno prodotto il terzo terremoto elettorale della storia repubblicana dopo quelli del 1975-76 e del 1994, cui è seguita la liquefazione del sistema politico-partitico che ha segnato la vita della cosiddetta “seconda Repubblica”. Il quadro che ne è scaturito, con tre forze più rilevanti di cui nessuna in grado di formare autonomamente un governo e dagli interessi inconciliabili ha generato una situazione di impasse rispetto a tutte le principali questioni dell’agenda politica nazionale, prima fra tutte la riforma elettorale. Quali prospettive e pericoli possono nascere dalla situazione attuale?
Il presupposto di ogni democrazia rappresentativa è che chi è governato possa riconoscersi in chi lo governa. Il successo del M5S, che ha come fondamento teorico proprio l’eliminazione della rappresentanza, è dovuto in parte alla sua capacità di intercettare alcune legittime richieste dell’elettorato che il PD ha trascurato e che la sinistra, affinando la sua capacità di ascolto della società, dovrebbe fare proprie. Per riaffermare il valore della politica occorre recuperare un forte senso della rappresentanza democratica e il coraggio di un’appartenenza di sinistra, che si incarna nel tenere fede ad alcuni valori irrinunciabili, come la vicinanza al proprio popolo e l’attenzione alle sue istanze, la lotta al neoliberismo e alle disuguaglianze, la tutela di disoccupati e precari e il rispetto dell’autodeterminazione degli individui.
L’idea della democrazia diretta, recentemente riproposta dal M5S quale rimedio ai vizi della classe politica e della partitocrazia, ha attraversato la storia dell’Italia postunitaria ed è emersa in vari momenti di crisi, come peraltro dimostrano le vicende editoriali del principale saggio teorico del direttismo italiano, “Gli anciens régimes e la democrazia diretta” di Giuseppe Rensi. Il discorso politico di Grillo e Casaleggio non differisce molto da quello di Rensi e di tutti i fautori della democrazia diretta, che collocano la sua effettiva realizzazione in un altrove sia temporale che spaziale, oggi rappresentato dal web. Il paradosso, non solo italiano, è che questo revival del direttismo riaffiori proprio quando la filosofi a e la storiografia politica stanno invece riflettendo sull’originalità e le potenzialità della democrazia rappresentativa.
La crisi dello sviluppo che stiamo attraversando dipende, oltre che da evidenti dinamiche economiche e finanziarie, anche dagli squilibri che investono i rapporti tra generazioni, che ormai si contendono sempre di più gli spazi sociali e lavorativi. Come conseguenza, la mobilità professionale, specie nei settori di maggiore responsabilità, è bloccata e i giovani rimangono ai margini della vita attiva. Il paradosso di questo fenomeno, definito in maniera impropria “gerontocrazia”, è che gli anziani tendono a rifiutare la loro condizione e a rincorrere, in una sorta di mimetismo giovanile, un’immagine innaturale e falsificata che penalizza quanti di essi sono soli, non autosufficienti o poveri. Simili contraddizioni richiedono delle politiche di segmento, cioè personalizzate a seconda delle specifiche circostanze, in grado di promuovere una longevità attiva intesa come possibilità di vivere piacevolmente la terza età.
La riduzione della mortalità (invecchiamento dall’alto) e la riduzione della natalità (invecchiamento dal basso) hanno fatto dell’Italia uno dei paesi al mondo in cui la portata dell’invecchiamento è più forte. L’allungamento delle aspettative di vita e il conseguente aumento del numero degli anziani non costituiscono di per sé un fattore negativo, ma sono associati nel nostro paese a una riduzione delle classi di età più giovani e sollevano problemi quali l’età di uscita dall’occupazione e il pensionamento, il welfare e l’erogazione di servizi fondamentali. Questioni che si inseriscono in una situazione in cui il peso della spesa pensionistica diventa per lo Stato sempre più gravoso.
L’aumento della longevità e la diminuzione della natalità hanno reso l’Italia uno dei paesi più vecchi d’Europa e del mondo. I divari regionali, con un Mezzogiorno ancora caratterizzato da una minore presenza di anziani, si vanno attenuando sensibilmente, tanto che è prevista nel futuro una accelerata senilizzazione del Sud. Ancorché l’anzianità sia divenuta sempre più una condizione soggettiva, dipendente da molteplici fattori, individuali, culturali e di contesto, il nostro paese non sembra essersi attrezzato dal punto di vista sanitario e pensionistico ad affrontare i nuovi scenari che le analisi demografiche prospettano. Il futuro, con la riduzione delle possibilità finora centrali di autogestione familiare dei bisogni più gravi della terza età, si presenta quindi piuttosto problematico, e divengono sempre più urgenti un ripensamento strategico e reale della struttura di offerta sanitaria e socio-assistenziale e, soprattutto, il sostegno alla diffusione di azioni oggi residuali, come la prevenzione, in primo luogo quella basata sullo stile di vita e volta a mantenere buone condizioni di salute anche in età anziana.
Da un secolo e mezzo circa a questa parte l’aspettativa di vita delle nuove generazioni è superiore di alcuni anni rispetto a quella dei genitori, tanto che oltre la metà di quanti nascono oggi raggiungerà la soglia dei 100 anni. Le stagioni che hanno subito una maggiore dilatazione sono quelle della giovinezza e, più recentemente, dell’anzianità, che viene ormai suddivisa dai demografi in tre fasi. Quella dei 60 anni diventa così la parte della vita potenzialmente più soddisfacente. Occorre allora attrezzarsi per godere delle opportunità che essa offre e minimizzarne i rischi e, soprattutto, mantenersi attivi il più a lungo possibile.
La nostra società vive il paradosso di valorizzare la vecchiaia nel segno della sua capacità attiva e di svalutare al contempo i giovani,
che non riescono più ad accedere ai posti di lavoro e ai centri decisionali. Eppure questo tipo di approccio, evidentemente biopolitico
perché considera gli anziani solo dal punto di vista biologico, trascura le specificità di ogni individuo e nasconde una logica economica
di ottimizzazione e problem solving che penalizza chi non riesce a mantenersi dinamico e giovanile. L’invecchiamento attivo è
senz’altro positivo se serve a superare la passività propria del vecchio welfare burocratizzato, ma coglie nel segno solo laddove spinga l’anziano all’autodeterminazione e all’inventiva e non a corrispondere a un’immagine tanto stereotipata quanto fasulla di riuscita, salute ed efficienza a tutti i costi.
La riforma di dicembre 2011 ha omogeneizzato di fatto l’età di ritiro di tutti i lavoratori senza tenere adeguatamente conto dell’eterogeneità degli individui rispetto alla possibilità di proseguire l’attività lavorativa e alla loro aspettativa di vita. Le ricadute negative di questo nuovo assetto, che accresce il rischio di disoccupazione in età avanzata e avvantaggia chi già ha goduto di uno status socioeconomico più agiato, rischiano di essere considerevoli sia dal punto di vista dell’efficienza del sistema che della sua equità. Andrebbero perciò introdotte riforme complementari nel settore del welfare, nel mercato del lavoro e nel sistema produttivo tali da offrire ai lavoratori più maturi effettive garanzie di occupabilità.
Il progressivo invecchiamento della popolazione richiede il superamento di un modello di welfare che non sembra più adeguato alla realtà e, in tempo di crisi, rischia di essere insostenibile sul lungo periodo. Diviene quindi doveroso investire sugli anziani sin dagli anni più verdi perché possano mantenersi attivi e rappresentare una risorsa per le famiglie e la società. Sono necessari interventi concreti e politiche mirate, anche che vadano oltre la sfera socio-sanitaria, come il potenziamento dell’assistenza domiciliare agli anziani non autosufficienti, il miglioramento dell’offerta dei servizi residenziali, la promozione di progetti di coabitazione intergenerazionale.
Il continuo invecchiamento del nostro paese produrrà nel tempo scompensi economici importanti, che potrebbero innescare conflitti sulle risorse pubbliche. È pertanto necessario ripensare il modello di welfare e questo compito è ormai nelle mani delle Regioni e degli enti locali. La Toscana, in particolare, ha riorganizzato il suo sistema sanitario collegando tra di loro ospedali specializzati, piccoli presidi e volontariato. Anche grazie a percorsi integrati di “presa in carico”, il sistema toscano garantisce una personalizzazione e un monitoraggio costanti dei bisogni degli anziani, diversificando l’offerta dei servizi e rafforzando le reti territoriali.
Il sensibile aumento della popolazione in età avanzata, dovuto ai bassi tassi di natalità da una parte e all’allungamento dell’aspettativa di vita dall’altra, prefigura un cambiamento importante del ruolo sociale riservato agli anziani, che divengono sempre più una risorsa, come dimostra la loro crescente presenza nelle attività del Terzo settore. Anche la prospettiva clinica è mutata: si sta infatti imponendo un modello multidimensionale che tiene conto di tutte le variabili che incidono sulla condizione di salute dell’anziano e che suggerisce interventi multiformi. Si delinea così una medicina personalizzata e partecipativa, che supera il pessimismo dei numeri e rispetta la centralità della persona e la sua dignità.
L’aumento dell’aspettativa di vita degli italiani comporta una inevitabile e crescente ospedalizzazione degli anziani, nei quali si riscontrano sempre più multimorbilità, mancanza di autosufficienza e fragilità. E, poiché ogni anziano presenta un fabbisogno assistenziale estremamente variabile, l’unico approccio medico efficace per garantirgli una buona qualità di vita è quello multidimensionale e multidisciplinare, rivolto al paziente e non alla malattia, come purtroppo continua ancora ad avvenire. I benefici riguarderebbero non solo il paziente, ma il sistema sanitario nel suo complesso, che risparmierebbe in modo sostanziale sulla spesa.
Il secolo XI fu un periodo di profonda trasformazione del papato medievale. Infatti, nei medesimi anni in cui il divieto di traslazione di un vescovo dalla sua diocesi a un’altra, che di fatto impediva ai vescovi di salire al soglio pontificio, veniva a cadere, il cardinale Pier Damiani compiva una fondamentale scoperta cronostorica, e cioè che il mandato di nessuno dei pontefici succedutisi sino ad allora aveva superato quello di S. Pietro, tradizionalmente fissato in venticinque anni. Descriveva inoltre alcuni riti di umiliazione tipici della cerimonia d’incoronazione imperiale bizantina che servivano a ricordare ai pontefici l’inevitabilità della fine del loro mandato e la caducità della loro persona fisica e che si sono mantenuti intatti sino agli inizi del secolo scorso..
Nel giro di poco più di dieci anni, in Svizzera, in tema di cure e accompagnamento delle persone anziane non autosufficienti si è registrato un formidabile salto di qualità. La casa di riposo ha perso quell’immagine, in qualche modo sordida, di luogo in cui coesisterebbero negligenza e maltrattamenti, trasformandosi in un luogo di lavoro attrattivo, in cui vengono valorizzate la dimensione interdisciplinare dell’attività, la componente relazionale e le sfide connesse alla crescente complessità delle cure. Questa situazione, positiva sotto diversi aspetti, ha anche i suoi paradossi: se la casa di riposo sembrava aver perso l’immagine di anticamera della morte, la ritrova attraverso il suo statuto di Istituto medico-sociale di fine vita, in quanto ultimo anello di una catena di prestazioni
La crisi della sinistra e la fortuna dell’ideologia liberalista si riflettono nel trasferimento dell’universalismo dalla società politica alla società civile e nell’attuale situazione di vantaggio della libertà individuale sulla libertà politica. Ma è proprio nel solco di quello che è stato il suo nemico naturale che la sinistra deve cercare un rilancio e provare a vincere la sua battaglia, impostando una lettura del liberalismo diversa da quella egemone, per la quale lo Stato e le leggi costituiscono degli ostacoli al dispiegarsi delle libertà individuali, anche quando essi sono manifestazioni di un sistema democratico. Questa revisione liberista deve essere più attenta alle circostanze, interpretando la libertà come capacitazione degli individui di vivere il tipo di vita a cui danno valore, e dunque come occasione di sviluppo, e considerando le varie libertà non distintamente, ma come un tutto solidale.
La crisi finanziaria e reale che stiamo attraversando si è rivelata più lunga e profonda in Europa che negli Stati Uniti, mentre non è stata pressoché avvertita in gran parte delle economie emergenti, a cominciare dal gigante cinese. L’Unione europea si presenta quindi come il grande malato dell’economia mondiale e il “modello” di economia sociale di mercato che la caratterizza viene additato come il principale responsabile di ogni difficoltà. A guardar bene, però, vi sono molti elementi che non solo invitano a non abbandonarsi al pessimismo, ma che testimoniano come, tutto sommato, il modello economico europeo non meriti di essere considerato sconfitto dalla crisi e, per questo, definitivamente accantonato.
Alla crisi finanziaria, che scoppiata in America nel 2007 ha poi contagiato l’Europa, quest’ultima ha risposto con interventi caso per caso, con i quali ogni paese ha cercato di tutelare le proprie banche e i propri risparmiatori. In tal modo, però, anziché risolvere il problema, lo ha acuito. L’unica strada da percorrere per uscire dalla crisi è quella di procedere sulla strada dell’unione bancaria, ossia dell’unificazione della vigilanza, della costruzione di regole uniformi per la sua realizzazione e della creazione di strumenti per la gestione dei fenomeni destabilizzanti.
“Beni comuni” è una formula che, pur vantando una nobile tradizione nella cultura giuridica occidentale, sembrava sino a poco tempo fa caduta nell’oblio o, comunque, destinata a una sostanziale irrilevanza pratica. Pochi ricordano, ad esempio, che il Code Napoléon del 1804 dedica alla categoria delle choses communes un’apposita disposizione, l’articolo 714, la quale sancisce l’esistenza di «cose che non appartengono ad alcuno e il cui uso è comune a tutti», rimettendo alle lois de police il compito di regolamentarne le modalità di fruizione. Tale norma è rimasta a lungo avvolta in un cono d’ombra, tanto da meritare non più di qualche cenno fugace da parte di commentatori e trattatisti. Ciò, ovviamente, non è il frutto di mera disattenzione, ma è il rifl esso puntuale e coerente di un preciso assetto istituzionale, figlio della modernità giuridica, incentrato sulla riduzione dei modelli di appartenenza a due schemi fondamentali,
simmetrici e contrapposti: la proprietà pubblica e la proprietà privata.
Secondo un’affermazione di Max Weber ripresa dall’antropologo Clifford Geertz, l’uomo è un animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto e dei quali fa egli stesso parte. Quelle ragnatele sono la cultura, che può essere interpretata solo se l’interprete è consapevole di essere coinvolto in ciò che vuole conoscere. La cultura politica, come viene pensata dagli scienziati politici – soprattutto nell’ambito della scuola di Gabriel A. Almond –, è l’insieme degli atteggiamenti e dei sentimenti diffusi dei soggetti verso il sistema politico, inclusa appunto la percezione che essi hanno di se stessi. In quanto cognitiva (implica conoscenze e ideologie), emotiva (è orientata da sentimenti e passioni) e valutativa (elabora giudizi e criteri di giudizio), la cultura politica non è un
dato, ma è un discorso che si fa da se stesso e che si interpreta da se stesso. Dalla cultura politica sono filtrate le richieste sociali verso il sistema politico, nascono i giudizi di consenso o di dissenso dei cittadini rispetto al suo operato e si generano anche le modalità di funzionamento del sistema stesso.