L'America che cambia e le presidenziali del 2008

Written by Mario Del Pero Thursday, 09 October 2008 17:56 Print
Le elezioni presidenziali del prossimo novembre saranno caratterizzate da considerevoli elementi di novità e discon­tinuità e, molto probabilmente, da un profondo riallinea­mento elettorale. L’America che si prepara ad andare al voto è infatti un paese che, pur pervaso da una profonda sfiducia verso le istituzioni e i suoi rappresentanti, non prova diffidenza verso la politica, ma cerca anzi nuove for­me di mobilitazione politica. Sono stati per questo premia­ti quei candidati che, come Obama e McCain, hanno sa­puto proporsi come soggetti indipendenti e di rottura, ma anche come portato di moderazione e pragmatismo nella definizione delle proposte riguardanti i singoli temi del di­battito politico: politica estera e di sicurezza, politica energetica, economia.

Che si tratti di elezioni storiche lo si dice ogni quattro anni. E lo si fa a ragione, visto l’importanza che la scelta del presidente degli Stati Uniti riveste per il mondo intero. Vari fattori e anomalie rendono però queste presidenziali particolarmente significative: per la prima volta nella storia degli Stati Uniti il presidente o il vicepresidente saranno un afroamericano (Barack Obama) o una donna (Sarah Palin); dopo quasi mezzo secolo, tornerà alla Casa Bianca un senatore in carica; il prossimo presidente eletto sarà il più anziano di sempre (McCain) o uno tra i più giovani (Obama); gli elettori di entrambi i partiti hanno scelto nelle primarie i candidati di rottura e non quelli invece sostenuti dai rispettivi establishment (Hillary Clinton nel caso dei democratici, Rudy Giuliani o Mitt Romney nel caso dei repubblicani).

Novità e discontinuità segnano pertanto, nei fatti e nei simboli, queste elezioni. Si tratta di novità favorite da una congiuntura storica che vede per la prima volta dal 1952 assenti in un ticket presidenziale un presidente o un vicepresidente in carica. Ma sono novità stimolate anche dalla convinzione, percepita e reale, che quella in atto sia una frattura di equilibri politici consolidati, potenzial- mente in grado di catalizzare un profondo riallineamento elettorale. A tale rottura concorrono processi storici di medio e lungo periodo, come ha recentemente sottolineato lo storico Sean Wilentz, in un libro non a caso intitolato “L’età di Reagan, 1974- 2008”, a segnalare l’imminente chiusura di una lunga fase conservatrice della vita politica e culturale statunitense che avrebbe seguito la riformatrice «età di Roosevelt» del 1932-1968. Vi concorre, però, anche il giudizio molto negativo che una parte maggioritaria (quasi il 70%) dell’opinione pubblica statunitense dà dell’operato di Bush e il conseguente invito a voltare pagina, in modo rapido e possibilmente radicale.1

Il volto dell’America sta cambiando, come si vede con le presidenziali e si è visto con le primarie democratiche. E questa America in trasformazione ripudia con forza le scelte, se non l’intera filosofia, del conservatorismo bushiano. Quali sono le conseguenze di tutto ciò? La prima è che la critica verso l’istituzione più alta, che simboleggia e incarna l’unità della nazione, concorre ad alimentare, per reazione, una disillusione verso tutte le altre istituzioni, a partire dal Congresso. Se la popolarità dell’ufficio presidenziale è a livelli non raggiunti nemmeno con Nixon nel 1974 o con Truman nel 1951, quella dell’organo legislativo – incapace di fronteggiare e bloccare l’amministrazione tra il 2001 e il 2005 e poi paralizzato nella sua attività dall’aspra contrapposizione partisan – è ai suoi minimi storici. Secondo un recente sondaggio Los Angeles Times/ Bloomberg solo il 17% degli americani valuta positivamente l’operato del Congresso, mentre il 73% ne dà un giudizio critico e il 10% non si pronuncia.2 Ne deriva una seconda conseguenza, per certi aspetti inattesa e indubbiamente sorprendente. Questa sfiducia verso le istituzioni e i suoi rappresentanti non si trasforma automaticamente in diffidenza verso la politica tout court e, anzi, catalizza forme nuove e più intense di mobilitazione politica. Le primarie democratiche lo hanno evidenziato bene: i tassi di partecipazione elettorale sono stati altissimi, il coinvolgimento di nuovi elettori senza precedenti, non solo per quanto riguarda il voto e il volontariato, ma anche nella raccolta di finanziamenti dal basso, facilitati da internet. Dai 236 mila elettori che hanno partecipato ai primi caucus dell’Iowa ai 2 milioni e 300 mila che hanno votato in Pennsylvania, le primarie democratiche hanno battuto tutti i record di partecipazione elettorale, facilitando inoltre un significativo aumento degli elettori registrati come democratici (nei circa trenta stati dove i partiti mantengono un registro degli iscritti, gli elettori democratici sono aumentati di circa settecentomila unità rispetto al 2004, mentre quelli repubblicani sono diminuiti di quasi un milione di unità). Questo riguarda soprattutto l’elettorato più giovane (18-25 anni), che Barack Obama è riuscito a coinvolgere in forme senza precedenti e sul quale il partito democratico conta moltissimo per le elezioni di novembre.3

La disaffezione verso le istituzioni e la crescita della partecipazione politica, soprattutto tra i giovani, ha finito per premiare chi, come Obama e McCain, è riuscito a presentarsi come candidato di rottura nei rispettivi campi. E la capacità di McCain di preservare, a dispetto di tutto, un’immagine di maverick indipendente e non condizionabile spiega anche perché il candidato repubblicano sia riuscito finora nei sondaggi a separare la sorte sua da quella di Bush e del partito repubblicano. Sia McCain sia Obama si presentano come figure indipendenti e aliene a schemi di partito tradizionali e consolidati. Per farlo, hanno offerto nelle primarie un messaggio populista nei toni, ma spesso moderato nei contenuti, centrato sulla necessità di rimarcare questa loro supposta alterità rispetto ai programmi dei rispettivi partiti. Una volta terminate le primarie e iniziata la campagna presidenziale tutto ciò è andato attenuandosi, soprattutto nel caso di Obama, che si è dovuto impegnare in una difficile azione di ricucitura con i clintoniani e con una parte rilevante dell’elettorato democratico.

Rottura e discontinuità non significano necessariamente radicalità e dogmatismo. È vero invece il contrario. Sia Obama sia McCain hanno cercato di presentarsi come candidati post partisan, capaci di travalicare nelle loro proposte e nella loro retorica gli steccati di partito, e di non farsi condizionare da paralizzanti divisioni ideologiche. McCain lo ha fatto ricordando la sua storia politica, caratterizzata da frequenti collaborazioni con senatori democratici, che lo hanno portato non di rado in rotta di collisione con il suo stesso partito (ad esempio, quando nel 2002 sostenne, insieme al democratico Russell Feingold, il disegno di legge che regolamentava in forma più stringente il finanziamento alle campagne elettorali). Obama ha punta- to su un messaggio inclusivo più generale, mettendo al centro della scena la sua biografia di afroamericano cresciuto da una ragazza madre bianca e capace, per i suoi meriti, di avere accesso alle migliori università del paese (Columbia e Harvard). Debitamente magnificata e, va detto, assai bene raccontata, la biografia di Obama è diventata così la biografia potenziale della nazione, capace nel suo ininterrotto moto progressivo di superare e portare a sintesi le divisioni del passato.4

Come si è concretizzato tutto ciò in termini di contenuti e di retorica? I temi, strettamente intrecciati, che hanno finora dominato il dibattito presidenziale sono quelli dell’economia e della politica estera. Rispetto alle primarie si è invece discusso molto poco della questione dell’immigrazione illegale, sulla quale i repubblicani sembravano avere individuato una issue forte, con cui mettere i democratici in estrema difficoltà.

La politica estera e di sicurezza ha avuto negli ultimi anni un’assoluta centralità nel dibattito politico statunitense. A dispetto delle sue limitate competenze, durante le primarie Obama è riuscito a sfruttare l’insoddisfazione dell’elettorato democratico nei confronti dell’atteggiamento, ritenuto da molti debole e compromissorio, adottato dai leader del partito (a partire da Hillary Clinton) verso le modalità e le pratiche della campagna contro il terrorismo promossa dall’amministrazione Bush. Capitalizzata elettoralmente questa insoddisfazione, Obama ha però adottato posizioni vieppiù moderate, condizionato da vincoli e costrizioni alla quale nessuna futura amministrazione potrà sottrarsi. Come già nel 2004, la fiera retorica protezionistica che ha segnato le primarie democratiche e alla quale nessun candidato, nemmeno Hillary Clinton o Joe Biden, si era potuto sottrarre, è andata affievolendosi nel corso dei mesi. Di NAFTA e della sua revisione, ad esempio, si parla sempre meno, anche se, per intercettare il cruciale voto dei ceti medi, bianchi e impoveriti della Rust Belt (e di Ohio e Pennsylvania in particolare), Obama e Biden saranno costretti a invocare una maggiore tutela delle imprese statunitensi e una più ferma protezione contro forme di concorrenza estera sleale, permesse da bassi costi di produzione e inesistenti garanzie sociali. Il tutto avverrà però entro un messaggio meno isolazionista o di chiusura, che riecheggerà quello, debitamente rimodulato, dell’interventismo liberal degli anni Novanta, di cui si cercherà di rimuovere gli elementi di potenziale convergenza con l’interventismo neoconservatore. Il team di consiglieri di politica estera assemblato da Obama lo evidenzia bene. Si tratta di figure rilevanti delle amministrazioni degli anni Novanta, come il primo consigliere per la sicurezza nazionale di Clinton, Anthony Lake e il segretario della Marina Richard Danzig, e, scendendo di grado, di esperti e studiosi che gravitano in alcune dei più importanti think tank liberal-moderati, come la Brookings Institution di Washington.5

Le proposte sono conseguenti e presentate come funzionali al rinnovato esercizio della leadership globale degli Stati Uniti. Una leadership, questa, che per essere davvero tale necessita di forme negoziate, consensuali e multilaterali di gestione delle crisi internazionali. Il linguaggio di Obama è ormai quello del multilateralismo assertivo e liberale, come la scelta di Biden ha ben evidenziato. S’invoca quindi la necessità di una diplomazia più aggressiva in Medio Oriente, aprendo un confronto con gli stessi Iran e Siria, e si chiede un rafforzamento degli apparati militari del paese, pesantemente provati dalle operazioni in Iraq e in Afghanistan. Ma si rimane assai vaghi sul futuro delle relazioni con Cina e Russia, come la confusa reazione di Obama alla crisi georgiana ha ben evidenziato, e, ancor più, su quali debbano essere i nuovi meccanismi di governance globale che vengono costantemente invocati, ma raramente definiti con precisione.6

A questo McCain ha finora contrapposto una sorta di neoconservatorismo senza neoconservatori. Fece scalpore, durante le primarie repubblicane, l’uscita del manifesto elettorale di politica estera di McCain sulla rivista “Foreign Affairs”, nel quale si riproponevano logiche, categorie e finanche retorica dell’armamentario neocon.7 Nei mesi successivi, il registro della proposta di politica estera di McCain non è sostanzialmente mutato. A dispetto dell’impopolarità di Bush e del rigetto delle sue scelte di politica estera, McCain sembra continuare a riscuotere successo tra una parte maggioritaria dell’opinione pubblica del paese, che sulle tematiche di politica estera e di sicurezza lo ritiene più credibile di Obama (52% a 40% secondo alcune ultime rilevazioni). McCain è stato certamente facilitato dai risultati ottenuti dalla surge in Iraq, dei quali fu uno dei primi sponsor, oltre che dalla crisi apertasi con la Russia in Georgia e dalla persistenza delle tensioni con l’Iran. Molti commentatori, a partire da Fareed Zakaria, hanno denunciato la deriva ideologica del candidato McCain, noto un tempo per le sue posizioni caute e realiste. McCain risponde con un refrain che già fu di Bush e di Condoleezza Rice: l’11 settembre e la sfida dell’islamismo radicale – afferma il candidato repubblicano – hanno modificato profondamente i termini della questione e reso obsolete vecchie categorie e formule. Lo fa rimarcando, con forza (e ritorno elettorale) crescenti, la differenza con Bush, del cui disegno politico e della cui filosofia, quella della National Security Strategy del 2002 e dell’intervento in Iraq, egli critica non gli assiomi e le prescrizioni, ma la scellerata attuazione.8

Questa sottolineatura della differenza con Bush – la cui percezione pubblica è fondamentale per le sorti di McCain – è evidenziata in un altro ambito, che collega strettamente la politica estera a quella interna: la questione energetica. Anche qui le differenze tra il programma di Obama e quello di McCain sono assai profonde. Entrambi, ovviamente, sollecitano una riduzione della dipendenza dalle fonti energetiche mediorientali, sottolineando l’impatto di tale dipendenza sulla sicurezza nazionale e sull’autonomia di scelta degli stessi Stati Uniti. Le ricette proposte sono però molto differenti. McCain favorisce il potenziamento e il rilancio dell’energia nucleare, chiede di aiutare i consumatori con una sospensione temporanea dell’imposizione fiscale su benzina e diesel e ha progressivamente ammorbidito la sua contrarietà a nuove trivellazioni off-shore e nella riserva artica in Alaska (alle quali è apertamente favorevole la sua vice, Sarah Palin). Obama è favorevole a una politica di sostegno alla produzione di bioetanolo, appoggia una politica di tassazione ad hoc dei profitti straordinari delle compagnie petrolifere e sollecita maggiori investimenti e ricerca nelle fonti rinnovabili; si è inoltre pronunciato contro nuove trivellazioni offshore e in Alaska, sottolineandone lo scarso impatto sul fabbisogno energetico del paese e i danni ambientali, anche se ha poi assunto posizioni più possibiliste al riguardo. Questo indietreggiamento, non l’unico del candidato Obama, è dovuto anche alla consapevolezza che la discussione sui temi dell’energia e dei suoi costi ha maturato rapidamente connotati più complessi e profondi di quelli originari. Quando si parla di dipendenza energetica e di nuove fonti, alternative a quella petrolifera, finiscono inevitabilmente per confrontarsi due visioni e due discorsi: quello delle possibilità di McCain e quello della responsabilità e dei limiti di Obama. A un’America impaurita e preoccupata, l’invito di Obama ad assumersi le proprie responsabilità e ad accettare dei limiti – ai consumi, agli sprechi, alla cilindrata della propria auto – può risultare convincente, ma non certo seducente; razionale ma non mobilitante. Invitare a ridurre il consumo energetico, modificando se necessario i propri stili di vita, può avere costi elettorali assai alti, come scoprirono in passato sia Carter sia Gore. Con i suoi toni quasi neoreaganiani, il discorso delle possibilità di McCain risulta invece più accattivante. È un discorso ammantato di patriottismo, quello di McCain, nel quale le possibilità derivano, e continueranno a derivare, dall’imperitura grandezza dell’America, delle sue risorse e della propria inventiva. Ed è un discorso che ha finora dimostrato di saper offrire una risposta efficacemente populista alla crisi, percepita e reale, che il paese sta vivendo.

E questo ci porta infine alle questioni dell’economia che, diversamente da tutte le previsioni, non stanno avvantaggiano quanto previsto Obama e i democratici. Anche sul terreno economico McCain ha riproposto in larga misura il programma di Bush, chiedendo di rendere permanenti i tagli fiscali, di ridurre significativamente la corporate tax, di tagliare la spesa pubblica, ad eccezione di quella destinata alla difesa, e di estendere una serie di benefici e vantaggi fiscali per il ceto medio. Consapevole che qualsiasi proposta di aumento delle tasse è impopolare e perdente, Obama chiede di limitare la rimozione dei tagli di Bush ai redditi più alti e di offrire vari crediti fiscali ai redditi più bassi. Visto il giudizio severo dell’opinione pubblica sulle scelte di Bush e sulle sue responsabilità rispetto alla difficile situazione economica odierna, sarebbe stato lecito immaginare che le proposte di McCain suscitassero maggiore perplessità tra l’elettorato. Così non è stato. I sondaggi rivelano una preferenza per Obama (il 64% degli intervistati giudica positivamente le sue proposte, contro il 55% nel caso di McCain), ma non così marcato da decidere le elezioni. Il populismo di McCain e la retorica delle possibilità sono finora riusciti a contenere il possibile effetto elettorale delle difficoltà economiche, che in altre elezioni si sarebbe fatto sentire maggiormente.9

Sull’economia i due candidati sono rimasti spesso nel vago, oscillando alla ricerca di formule che permettessero di soddisfare l’elettorato (o, meglio, gli elettorati), ma assai elusive e difficili da individuare. E questo ci porta all’ultimo punto: la mappa elettorale e gli Stati che decideranno le elezioni di novembre. Si tratta infatti di realtà molto diverse, che obbligano sia Obama sia McCain a modulare in forme diverse la propria proposta e, anche, la propria retorica elettorale. A dispetto di tutto, i teatri decisivi rimangono pochi: la Rust Belt industriale, post industriale e deindustrializzata (Michigan, Ohio e Pennsylvania); un primo Sud (North Carolina e Virginia) dove la coalizione di Obama (bianchi, con istruzione universitaria e redditi alti e medio-alti, e afroamericani) è più forte; una parte dell’Ovest, dove si è consolidato il voto democratico degli ispanici (New Mexico, Nevada e Colorado). A queste tre aree è possibile aggiungere alcuni altri Stati: Iowa, Missouri, New Hampshire e, il più importante in termini di peso relativo, Florida. Si tratta di realtà sociali, economiche e culturali tra loro molto diverse. Semplificando all’estremo, possiamo dire che Obama e McCain dovranno saper parlare al lavoratore ispanico di un hotel di Las Vegas, come all’operaio bianco e cattolico dell’Ohio, come al giovane di una qualche impresa high tech tra le tante che hanno trasferito la propria produzione in North Carolina negli ultimi anni. E dovranno tarare di volta in volta un messaggio inevitabilmente mutevole, oscillante tra populismo protezionista e sostegno all’innovazione, appoggio a politiche liberali e aperte in materia d’immigrazione e consueti richiami alla necessità di tutelare la sicurezza del paese, preservando legge e ordine nelle aree di frontiera.

Nei rispettivi partiti, Obama e McCain hanno dimostrato di essere i candidati più abili nell’incarnare e offrire quella sintesi e quella mediazione politica e culturale che l’America – sempre più diversa, complessa e, anche diseguale – chiede. In novembre questo messaggio inclusivo, ecumenico e moderato dovrà essere pareggiato dalla mobilitazione piena e totale dei rispettivi elettorati. È questa la banale equazione che, come nel 2000 e nel 2004, definirà il risultato delle elezioni.

[1] S. Wilentz, The Age of Reagan, HarperCollins, New York 2008.

[2] www.latimes.com/media/acrobat/ 2008-08/41731410.pdf.

[3] www.iop.harvard.edu/Research- Publications/Polling/Spring-2008-Survey/ Executive-Summary; J. Steinhauer, G.O.P. Drops in Voting Rolls in Many States, in “The New York Times”, 5 agosto 2008; R. Cook, A New Electoral in the Making? Center for Politics, University of Virginia, 17 giugno 2008, disponibile su www.centerforpolitics. org/crystalball/article.php?id=FR C2008071701.

[4] B. Obama, The Audacity of Hope. Thoughts on Reclaiming the American Dream, Crown Publishers, New York 2006; M. Tomasky, The Phenomenon, in “The New York Review of Books”, 30 novembre 2006; J. Raban, I’m for Obama, in “The London Review of Books”, 20 marzo 2008.

[5] J. Klonsky, Obama’s Brain Trust, in “Newsweek”, 3 giugno 2008, disponibile su www.newsweek.com/- id/139894; E. Bumiller, A Cast of 300 Advises Obama on Foreign Policy, in “The New York Times”, 18 luglio 2008.

[6] E. Alessandra, M. Del Pero, La politica estera di Obama: un’opportunità per l’Europa?, in “Affari Internazionali”, 13 giugno 2008, disponibile se www.affarinternazionali.it/articolo. asp?ID=855.

[7] J. McCain, An Enduring Peace Built on Freedom, in “Foreign Affairs, 6/2007, pp. 19-35.

[8] F. Zakaria, McCain’s Radical Foreign Policy, in “Newsweek”, 28 aprile 2008, disponibile su www.newsweek. washingtonpost.com/postglobal/ fareed_zakaria/2008/04/mccains_ radical_foreign_policy.html.

[9] D. Sussman, M. Cooper, Voters in Poll Want Priority to Be Economy, Their Top Issue, in “The New York Times”, 21 agosto 2008; L. H. Summers, The Economic Agenda. Challenges Facing the Next President, in “Harvard Magazine”, 1/2008, disponibile su www.harvardmagazine.com/2008/09/ the-economic-agenda.html.