Come perdere un'elezione vinta

Written by Michele Boldrin e Aldo Rustichini Thursday, 09 October 2008 18:02 Print
Fino a sei mesi fa il partito repubblicano era il per­dente certo delle prossime elezioni presidenziali e congressuali; l’unico quesito sembrava riguardare chi, fra i due candidati democratici, sarebbe diven­tato il nuovo presidente degli Stati Uniti. Oggi il ri­sultato non è più così scontato: non è detto che Ba­rack Obama perda le elezioni presidenziali, ma non è più ovvio che le vincerà. La corsa alla presidenza è reale e, al momento, il suo risultato impossibile da prevedere. Ci chiediamo cosa sia cambiato in questi sei mesi, e perché. La risposta che qui viene propo­sta, secondo cui è Obama che rischia di perdere le elezioni, non McCain di vincerle, potrebbe contene­re anche alcuni non banali suggerimenti per la sini­stra italiana.

Gli Stati Uniti si avvicinano alle elezioni. La situazione non appare favorevole ai repubblicani. Il presidente ha un indice di gradimento del 29% e il 61% degli americani giudica la sua presidenza una delle peggiori della storia. La differenza fra la percentuale di americani che si dichiara favorevole ai democratici e quella che si dichiara favorevole ai repubblicani è di dieci punti: Congresso e Senato saranno democratici. Le ragioni sono note: la fallimentare, almeno fino ad ora, invasione dell’Iraq e il peggioramento della situazione economica, in corso da un anno a questa parte. A questi fattori generali se ne accompagnano altri più circoscritti: dall’orrenda gestione della situazione causata dall’uragano Katrina al pessimo trackrecord di questa amministrazione nel campo dei diritti costituzionali. Ma al centro, senza dubbio alcuno, stanno Iraq e situazione economica.

Insoddisfazione profonda, dunque, per una presidenza impopolare. A questo si era aggiunto un apparentemente pessimo candidato repubblicano. Nell’autunno 2007 la campagna per la nomination di McCain era in rovina. Ancora sei mesi dopo, nel marzo del 2008, si irrideva il suo viaggio in Iraq, fatto per dimostrare che le sorti della guerra stavano migliorando quando le immagini della stessa visita dimostravano l’opposto. Un simbolo perfetto della medesima ottusità e arroganza che aveva prodotto la disfatta in Vietnam. A inizio primavera 2008, tutti e due i candidati democratici battevano McCain nei sondaggi. La questione sembrava riguardare chi dei due sarebbe stato il prossimo presidente, da cui l’enorme attenzione per le primarie democratiche e la loro durata “innaturale”, con gli effetti non secondari che discuteremo più avanti.

A metà settembre, finite le due convenzioni, Obama è pari o sotto McCain. Perché, nonostante le aspettative di sei mesi fa, non si profila una clamorosa vittoria democratica? A determinare questa sorprendete situazione hanno contribuito gli sviluppi recenti della guerra, che un anno fa sembravano disastrosi e ora non lo sono più. Lo stesso Obama, che aveva aggredito la surge come «un errore aggiunto a un errore», è costretto ad ammettere che il suo esito ha superato le aspettative più rosee. Poiché la memoria degli elettori è corta, parlare di guerra rovinosa non è più ovvio: nell’estate 2008 il numero (125) dei morti per arma da fuoco nella più grande città dello Stato di cui Obama è senatore è stato il doppio dei morti fra i militari americani in Iraq (65). Se Chicago da sola è più rischiosa di un intero teatro bellico, la sindrome Vietnam non morde più. L’Iraq, come tema elettorale, è irrilevante. Ma c’è, ovviamente, molto di più.

Il blocco sociale della rucola

Nel luglio scorso, di fronte a una folla di agricoltori e nel cuore del Midwest (Adel, in Iowa, 3.435 abitanti) Obama esclamò indignato: «Ma avete visto che prezzi ti fanno a Whole Foods per la rucola?». La frase cadde nel silenzio: solo lui poteva dire una frase del genere. Whole Foods è una catena di supermercati che vendono prodotti biologici a prezzi alti, ingentilita da una (finta) forma di conduzione semi-cooperativa. Si trova solo nelle grandi città, nei quartieri a reddito medio-alto, tipicamente benpensanti e politicamente corretti, ossia di “sinistra”. La rucola è una moda recente ed esclusiva, di sapore europeo; qualcosa come l’aceto balsamico e la pasta De Cecco. Gli agricoltori di Adel non vanno a Whole Foods, e probabilmente non hanno idea di cosa sia la rucola. E se lo sanno, non è la prima cosa a cui pensano se si preoccupano per il loro bilancio familiare.

Insomma, la rucola per gli agricoltori di Adel è un po’ come le scarpe fatte a mano per i lavoratori italiani: una cosa che comprano “gli altri”. Questo piccolo aneddoto è indice di un problema profondo. Istintivamente, e non solo istintivamente, Obama appartiene all’élite professionale delle downtown democratiche, come Boston, Manhattan o Minneapolis. Un blocco sociale che mangia la rucola, che si preoccupa dell’Amazzonia e che ha sostenuto generosamente, nelle loro sconfitte, Carter, Mondale, Dukakis, Gore e Kerry. Un blocco saldamente collocato nel 25% più ricco del paese e che, da solo, non basta per vincere un’elezione. Per vincere, Obama deve convincere i lavoratori di reddito medio-basso, ossia gli elettori di Hillary. Quelli che lui apostrofò, poi scusandosi malamente, come frustrati che scaricano le proprie frustrazioni economico- sociali andando a caccia e facendo i duri con il resto del mondo. Osservazione corretta, ma non molto utile per convincerli a votare in proprio favore: quando al frustrato spieghi con disprezzo che tale è, tende a prendersela. Per questo Sarah Palin è un pericolo mortale per Obama: per puro contrasto, con la sua sola presenza e senza proferire una parola, rende ovvia l’appartenenza di Obama ad una élite. La signora, purtroppo per Obama, riesce anche a fare comizi non disdicevoli. È un problema che è bene considerare da vicino, perché è anche quello più direttamente interessante per i democratici italiani. Una fetta sostanziale della popolazione, spesso quella meno educata, vota per meccanismi “identitari”. Così facendo non compie un’azione necessariamente stupida: quando, al di là della retorica, entrambe le parti politiche non sono in grado di alterare la tua condizione materiale di vita (discuteremo dopo il perché), allora tanto vale votare per quella parte politica che ti appare, culturalmente ed esistenzialmente, più vicina. La maggioranza degli americani nemmeno sa cosa sia la rucola.

Il piano Obama: New o Old Democrats

Obama è visto oggi come un candidato di élite e alla sinistra dello spettro politico. Nonostante il suo messaggio di unità e rappacificazione na- zionale egli è percepito come estraneo da fette ampie dell’elettorato popolare, come un pericolo alla sicurezza nazionale, come un sostenitore dell’aumento di tasse e spesa pubblica. Come questo sia potuto succedere in soli sette-otto mesi merita di essere considerato. Obama è entrato di forza e con fascino nel dibattito politico attraverso un messaggio di cambiamento basato sul superamento delle divisioni razziali e ideologiche e sull’abbandono della psicosi del terrore instillata dal duo Cheney- Bush. Col passare dei mesi, la richiesta di dare corpo e sostanza alla visione si è fatta insistente, e i discorsi pieni di speranza si sono fatti triti. Questo è avvenuto in due momenti chiave. Il prolungarsi inusuale delle primarie democratiche ha portato, nella sua fase cruciale, ad una radicalizzazione del confronto. Come tutte le radicalizzazioni, anche questa ha operato per stereotipi. Lo stereotipo, in questo caso, era che da un lato c’era una donna e dall’altra un uomo di colore, proprio nel momento in cui le affermazioni demenziali del reverendo Jeremiah Wright venivano alla ribalta, sigillando nell’immaginario di tutti (grazie anche ad una subdola ma efficace operazione mediatica della campagna della Clinton) il fatto che Obama, alla fine, era di certo un uomo di colore molto arrabbiato e, solo forse, un profeta. La cosa è stata superata, almeno a parole: Obama ha vinto di misura le primarie e Hillary ha dichiarato che in nome dell’unità del partito lei e Bill appoggiano Obama. Ma nessuno ci crede e molte sostenitrici di Hillary parlano di lei come candidata nel 2012 nel caso in cui Obama perda nel 2008. Il problema per Obama, e per i democratici, è che le primarie hanno contrapposto, una all’altra, due delle loro constituencies storiche. Ha perso quella numericamente più grossa e ideologicamente meno incollata al partito, e questo è un grosso problema. «Too much of a good thing», come direbbero negli Stati Uniti, a volte è un problema: come candidati alle primarie meglio un nero o una donna che un nero e una donna.

Questa è solo parte della storia, ma una parte importante. La parte in cui Obama ha perso l’alone di intoccabilità messianica, ha visto scalfito il teflon che – attraverso il suo messaggio di unità, speranza e cambiamento – lo rendeva impermeabile a qualsiasi critica e gli permetteva di promettere tutto senza specificare niente. Da aprile di quest’anno Barack Obama non è più un quasi-messia ma solo un mortale intellettuale di sinistra che vuole diventare presidente. Ai mortali che vogliono diventare presidenti gli elettori americani tendono a fare tre domande: chi sei? quali valori rappresenti? cosa intendi fare? Davanti a queste domande, inaspettate solo sei mesi fa, Obama è dovuto scendere dalla montagna e, alla convenzione democratica, ha chiarito, con una lunga lista di affermazioni, il suo programma.

Ci sono elementi, in quella lista, che sembrano convincenti, quasi ammalianti, ma che a un esame più attento lasciano perplessi. Non ci riferiamo solo ai momenti profetici («Questo è il momento in cui gli oceani cominceranno ad abbassarsi, e il pianeta a guarire»), ma anche ad esempi più specifici. Ricordiamo, per esempio, un momento toccante: «Questo è il momento di mantenere la promessa di una paga uguale per uguale lavoro, perché io voglio che le mie figlie abbiano esattamente le stesse opportunità dei vostri figli». Come si può non essere d’accordo con questo elementare principio di giustizia? Eppure, non c’è nel discorso, o nei suoi scritti, o in quelli dei collaboratori, e tanto meno nel programma democratico (prolisso come tutti i programmi e quindi illeggibile per gli abitanti di Adel) una indicazione di come questo principio possa realizzarsi. Forse si potrebbe richiederlo per legge. Ma non funzionerebbe perché, naturalmente, la legge c’è già dal lontano 1963 (Equal Pay Act) e impone che: «Nessun datore di lavoro [possa] discriminare fra dipendenti sulla base del sesso pagando un dipendente meno di un altro del sesso opposto per un lavoro uguale». Se non ha funzionato sino ad ora, perché dovrebbe farlo adesso? Se allora le parole non sono bastate, perché dovrebbero farlo ora?

Un secondo esempio: «Giovani americani, se vi impegnate a servire la vostra comunità o il paese, vi metteremo di sicuro in condizione di pagarvi una formazione universitaria». Che vuol dire? Nel 1997, Bill Clinton approvò un piano che doveva facilitare l’accesso agli studi universitari dei giovani di famiglie meno abbienti. L’incentivo consisteva nel dare il primo anno 1.000 dollari di contributi alle spese universitarie, e 800 il secondo anno. Il contributo era un credito fiscale dedotto dalle tasse pagate dallo studente, o dalla famiglia, fino al massimo delle medesime. Ovviamente, se la famiglia o lo studente sono veramente bisognosi le tasse non le pagano (nemmeno a Princeton) e il credito della speranza non aiuta affatto. Il contributo è quindi perfettamente regressivo: più alte le tasse pagate sul reddito, più alto il contributo. Nella esperienza degli ultimi anni, il credito fiscale è servito a rendere l’accesso un po’ più facile a chi all’università ci sarebbe andato comunque, e non ha cambiato nulla per chi all’università non ci sarebbe andato, circa il 30% della popolazione. Obama suggerisce di raddoppiare la somma offerta (a 4.000 dollari) e aggiunge la condizione che chi se ne serve debba poi, alla fine degli studi, offrire cento ore di servizi civili per la comunità. Risultato: retorica per tutti, edificazione morale e contributi fiscali per la classe media. Niente per chi ora all’università non può veramente andarci. Molti, fra coloro che non vanno all’università, sanno nondimeno far di conto. Ma veniamo al cuore della proposta fiscale di Obama: una forte politica redistributiva, non dissimile (mutatis mutandis) da quella tentata dal recente governo Prodi. La versione più semplice è questa: ridurre le tasse per il 95% più povero delle famiglie; poi aumentare la spesa per sanità, ricerca di fonti energetiche alternative, istruzione. Nessun taglio di altre spese. Le implicazioni sono due: o un deficit di bilancio insostenibile, o il rimanente 5% della popolazione dovrà pagare il conto. Poco male, penseranno alcuni lettori: il 5% è molto meno del 95% per cento. Un ingrediente del piano di Obama è l’aumento della tassa sui guadagni da capitale. La tassa era, alla fine della presidenza Reagan, al 28%; durante le amministrazioni Clinton e Bush era scesa al 15% corrente. Obama propone di aumentarla; di quanto non si sa ancora di preciso. Nell’autunno scorso proponeva un aumento dal 15 al 28%. Col passare dei mesi la percentuale è scesa intorno al 20. Perché? Perché da un lato a ricevere redditi da capitale non è solo il 5% più ricco della popolazione e, dall’altro, Obama (o i suoi consiglieri) sanno che il reddito da capitale è tassato negli Stati Uniti a livelli più alti che in Europa e in molti paesi emergenti. Aumentarne ulteriormente la tassazione avrebbe il duplice effetto di far fuggire altrove il capitale e di non far crescere il gettito fiscale. Un secondo ingrediente è costituito dall’aumento dei contributi pensionistici sui redditi più alti (250 mila dollari). Un terzo ingrediente è l’aumento delle imposte sui medesimi redditi, riportando la tassazione federale marginale vicino al 40%, a cui vanno aggiunte le tasse statali e cittadine. Vedremo più avanti perché questi proponimenti siano irrealistici, ossia non credibili. Anche i meno abbienti sanno fare i conti.

La soluzione McCain

Il piano di McCain prevede una riduzione generalizzata e più sostanziale dell’imposizione. Alcune riduzioni sono specificamente a vantaggio dei più ricchi. Una è la riduzione del tasso massimo sul reddito d’impresa dal 35 al 25% (negli Stati Uniti esiste ancora la doppia tassazione sul reddito da capitale). L’altra è la riduzione della tassa di successione, aumentando la quota esente a 5 milioni di dollari e riducendo il tasso dal 45 al 15%. I repubblicani usano argomenti supply-side per sostenere che la riduzione delle entrate da loro proposta non si tradurrà in ulteriore deficit: anche negli Stati Uniti tagliare la spesa pubblica è tabù per tutti. Ovviamente pochi credono nei miracoli della supply-side, ma per le persone di basso reddito il debito pubblico non è mai stato un problema e la riduzione d’imposte promessa da McCain è uguale o superiore a quella promessa da Obama.

Il sogno americano

Come è possibile che la maggioranza degli americani preferisca il secondo piano fiscale al primo? La risposta sta nel fatto che entrambe riducono le tasse della grande maggioranza degli americani di un uguale (e microscopico) ammontare, ma il primo aumenta sostanzialmente le tasse pagate da una minoranza: quella che, istintivamente, dovrebbe identificarsi con Obama e a raggiungere la quale tutti aspirano.

Dati relativi al 2006, diffusi il mese scorso dall’ente federale per le imposte (IRS), risultano utili. L’1% della popolazione che percepisce i redditi più alti paga il 40% delle tasse federali. Il 20% più alto paga l’86% e il 50% più alto paga il 97%. L’altra metà paga il 3%. Morale a sorpresa di tutto ciò è che negli Stati Uniti le imposte sul reddito sono già altamente redistributive, enormemente di più di quanto lo siano, per esempio, in Italia. Infatti, secondo il Congressional Budget Office, il contributo netto del 40% della popolazione con i redditi più bassi è negativo, ossia essi ricevono sussidi attraverso lo income tax credit o meccanismi similari. Obama sostiene che la classe media è stata la vittima dei tagli di Bush. La classe media sa di non aver ricevuto vantaggi da Bush, ma anche di non di esserne stata, fiscalmente parlando, la vittima: se per classe media si prende, come pare sensato, il quinto della popolazione con redditi intorno a quello medio (60 mila dollari), allora nel 2005 la frazione di tasse pagata dalla classe media era il 4%. La classe media sa che poco può ricevere da sgravi fiscali, quella più povera sa che niente può ricevere attraverso questo canale. Il 25% più ricco, che mangia la rucola, si trova di fronte ad un serio problema: a quanta rucola dovrò rinunciare se eleggo colui che abbassa gli oceani? Insomma, quelli che non sanno cosa sia la rucola non vedono nessun vantaggio fiscale in Obama, mentre quelli che mangiano la rucola vedono chiarissime e sostanziali perdite.

Fuor di metafora, entrambi i piani fiscali sono sia incredibili sia irrilevanti per le condizioni materiali di una percentuale consistente dei cittadini, quelli meno abbienti. Uno di essi danneggia sostanzialmente una forte minoranza, che viene invece avvantaggiata dall’altro piano. Questa minoranza è, sul piano identitario, favorevole a colui che la danneggerebbe economicamente: da qui tutte le contraddizioni. Per quanto riguarda invece la maggioranza degli elettori, a fronte dell’equivalente irrilevanza dei piani fiscali, il voto si decide sulla base di altri temi, quelli che abbiamo chiamato identitari. È qui che McCain e Palin hanno gioco facile: nel bene e nel male, comprese le forme diverse d’essere ipocriti, le loro identità sono molto più vicine a quelle dell’elettore medio di quanto non lo siano quelle di Obama e Biden.

Guardiamo la questione da una prospettiva storica, tornando al 1980, inizio dell’era Reagan. Da allora il reddito medio del quinto più povero (in dollari 2005) della popolazione americana è passato da 15 a 16 mila dollari. Quello del quinto più ricco da 132 mila è giunto a 231 mila. La prima conclusione che se ne trae è che la diseguaglianza aumenta. Ma nello stesso periodo la frazione delle tasse effettive nette è passata dallo 0 al -3% per il quinto più povero, che quindi riceve trasferimenti. La frazione pagata dal quinto più ricco è passa- ta dal 65% all’86%. La seconda conclusione è che la politica redistributiva c’è stata. C’è stata come effetto di riduzione generale dell’imposizione, che però ha favorito in particolare i redditi più poveri. Mettendo insieme la prima e la seconda, otteniamo una terza conclusione: ci sono severi limiti a quello che una politica redistributiva può fare per ridurre la diseguaglianza. Ci sono ragioni strutturali profonde che spiegano perché il reddito dei più ricchi sale più rapidamente, ragioni strutturali che le politiche redistributive classiche non sono proprio in grado di toccare. Anche i meno abbienti, e meno educati, conoscono la storia recente del loro paese.

Conclusioni

Ai mortali aspiranti alla presidenza gli elettori americani fanno tre domande: chi sei? Quali valori rappresenti? Cosa intendi fare? Le idi di marzo, per bocca di Jeremiah Wright e manina di Hillary, hanno provato che Barack Obama è mortale. Hanno anche fornito, assieme alla rucola e ai lapsus recenti, una risposta (riportata sopra) alla prima domanda. Alla seconda domanda Obama aveva inizialmente risposto in modo convincente, offrendo speranza. Ma la guerra in Iraq sta sparendo dall’orizzonte, mentre ai valori tradizionali (forse poco gradevoli e probabilmente ipocriti, ma certamente americani) che il duo McCain-Palin ha messo sul piatto, Obama e Biden non hanno al momento contrapposto nulla. Non è impossibile che riescano ad offrire altri e superiori valori, mancano ancora alcune settimane, ma la palla è ora nel loro campo e il tiro è difficile. In attesa, quindi, di uno scontro sui valori – perché su questo si eleggerà il prossimo presidente e fra i valori che qui contano la sicurezza nazionale, vera o presunta, è in cima alla lista assieme al problema, che gli italiani dovrebbero intendere, dell’identità nazionale – rimane sul terreno la terza domanda. La disuguaglianza è un problema rilevante che, se ricevesse una risposta convincente, potrebbe far “tiltare” il tavolo dal lato del ticket Obama-Biden.

Ma la diseguaglianza, abbiamo visto, non si risolve attraverso la redistribuzione fiscale. Essa ha cause strutturali molto profonde, comuni tanto agli Stati Uniti quanto all’Europa, e all’Italia. Per modi- ficare queste ragioni strutturali profonde ci vorrebbero nuove idee. La disuguaglianza di reddito non si elimina per legge promettendo al 95% più povero un trasferimento di 500 dollari presi dalle tasche del 5% più ricco. L’accesso all’istruzione dei più poveri non si realizza trasferendo fondi alla classe media. Non basta una assistenza sanitaria generalizzata – anche se fosse fiscalmente possibile: negli Stati Uniti la sanità pubblica rappresenta già più del 7% del reddito nazionale – per eliminare le differenze strutturali nelle condizioni di vita. L’uscita dal ghetto della minoranza nera non si realizza a colpi di affirmative action. Per ognuno di questi problemi – e altri altrettanto impellenti come, per esempio, una nuova regolazione del settore finanziario e bancario – occorrono idee drammaticamente nuove che diano l’impressione di poter funzionare. Queste idee nuove, nel programma di Obama, non le abbiamo viste e, forse, non le hanno viste neanche gli elettori meno abbienti. Per questo egli sta ora rischiando di perdere un’elezione già vinta.