Lotta alla povertà: una battaglia che non abbiamo mai combattuto

Written by Livia Turco Thursday, 09 October 2008 18:17 Print
Con l’eccezione dei due governi Prodi, ben poco è stato compiuto in Italia per sviluppare politiche che mirino espli­citamente a combattere la povertà. Eppure i dati sottoli­neano che l’Italia è un paese con un serio problema di po­vertà costante e che il rischio è in crescita fra i giovani più che fra gli anziani. Il reddito minimo di inserimento, speri­mentato negli anni 1999-2004, potrebbe costituire una valida opportunità per offrire servizi e assistenza a quanti vivono in stato di bisogno e devono essere reinseriti nel mondo del lavoro.

Ha senso parlare di politiche di contrasto della povertà e delle diseguaglianze più radicate nel momento in cui il problema del reddito, del potere d’acquisto delle famiglie, in particolare del lavoro dipendente e dei pensionati, è la questione cruciale di una politica di crescita, di sviluppo, oltreché redistributiva? La risposta è senza dubbio affermativa. L’Italia non può più consentire – sul piano dell’equità ma anche dell’innovazione delle politiche di welfare – che a fronte di uno zoccolo duro e consolidato nel tempo di persone povere non esistano politiche mirate e tra loro integrate di contrasto alla povertà. Ciò che è mancato fino ad ora è proprio la consapevolezza della necessità di politiche orientate all’obiettivo esplicito della lotta alla povertà. Quest’ultimo non è mai stato posto come obiettivo-valore a sé stante, ma è stato inteso come il risultato di una più generale politica di crescita e sviluppo finalizzata al contenimento delle diseguaglianze e alla valorizzazione del capitale umano. Il centrosinistra non ha mai costruito una politica e una mobilitazione attorno all’obiettivo specifico della lotta alla povertà, lo ha piuttosto collocato e perseguito attraverso politiche generali di sviluppo, di lavoro e welfare. L’unica eccezione fu il primo governo Prodi, nel corso del quale vennero sperimentati il reddito minimo di inserimento e l’assegno al terzo figlio, vennero introdotte la legge 285 sui diritti dell’infanzia – all’interno della quale vi era la lotta alla povertà minorile – e la legge quadro 328/2000 sulle politiche sociali. Mentre con il secondo governo Prodi si ebbero il bonus per gli incapienti (1.200 milioni di euro nel 2007), l’adeguamento delle pensioni minime (900 milioni a partire dal 2007) e l’adeguamento dell’assegno al nucleo familiare (un miliardo di euro a partire dal 2007).

Ciò che è oggi necessario è che il PD e la sinistra promuovano una politica e una mobilitazione mirata attorno all’obiettivo “lotta alla povertà”. Tanto più a fronte di un’azione del governo che, mentre riduce il welfare universalistico dei servizi sociali e sanitari, nomina esplicitamente la povertà attraverso la “carta sociale”, una proposta non condivisibile perché inadeguata, ma concreta, che non può essere archiviata con la critica del paternalismo e della beneficenza, ma che va contrastata mettendo in campo una proposta alternativa, come può essere il reddito minimo di inserimento.

Sono i dati e i fatti a suggerire questa necessità. L’Italia è un paese con gravi problemi di povertà costante negli anni. Secondo i dati ISTAT, nel 2006 7.537.000 di residenti, il 12,9% dell’intera popolazione, viveva in condizioni di povertà relativa, cioè, nel caso di una famiglia di due persone, con meno di 970,34 euro al mese. Si sono inoltre consolidate alcune figure della povertà: famiglie numerose con figli a carico, minori, anziani soli, cui si sono aggiunte negli ultimi anni alcune fasce di giovani. Questi dati sono confermati dall’indagine della Banca d’Italia che evidenzia un indice di povertà stabile attorno al 13% a partire dal 2000, e una crescita del rischio povertà tra i giovani superiore agli anziani. Nel 2006 il 19,3% dei minorenni è povero, mentre gli ultrasessantacinquenni poveri scendono all’8,6 con un rovesciamento della situazione avvenuta nell’arco di un trentennio. Il livello di povertà minorile presente in Italia non ha uguali in Europa. Secondo la Banca d’Italia gli indicatori di diseguaglianza e il disagio economico non sono aumentati in questi anni. Tuttavia il disagio esiste ed è spiegato dalla stagnazione dei redditi che fa essere gli italiani più poveri rispetto al resto dell’Europa, dove i redditi delle famiglie sono cresciuti a tassi superiori. Inoltre la redistribuzione dei redditi vede una stagnazione di quelli da lavoro dipendente, soprattutto privato, rispetto ai redditi da lavoro indipendente, che invece crescono. In Italia buona parte delle erogazioni per l’integrazione del reddito non va alle famiglie in condizioni economiche più svantaggiate. Ai tre decimi delle famiglie più povere va poco più del 50% del complesso delle erogazioni monetarie, mentre il resto si ridistribuisce tra le famiglie a reddito medio-alto.

In Italia il complesso dei trasferimenti di protezione sociale (pensioni comprese) abbatte del 56% la popolazione a rischio di povertà contro una media dell’UE a 25 di quasi il 63%. Se si prende in considerazione l’efficacia dei soli trasferimenti assistenziali, escluse le pensioni, vediamo che in Italia essi abbattono la popolazione a rischio povertà del 20% contro una media dei paesi dell’Unione prossima al 40%.

Le politiche nazionali di contrasto alla povertà in atto sono datate, non universalistiche, basate su criteri di selezione tali da lasciare un’ampia fascia di persone e di famiglie povere senza la possibilità di contare su alcun sostegno economico. Intervengono a favore di chi si trova in condizioni di povertà ed emarginazione gli enti locali, ma con consistenza, estensione e tipi di intervento molto differenziati e discrezionali che non offrono quindi nessuna garanzia a chi si trova in condizioni di povertà. Le misure assistenziali di integrazione al reddito assorbono infatti la metà della spesa socioassistenziale (19.341 milioni di euro su un totale di 38.916 milioni di euro). Le statistiche europee non classificano tali misure e le relative spese nella voce che ingloba le azioni di contrasto alla povertà (housing and social exclusion) perché queste misure non hanno un carattere universalistico, non sono destinate a chiunque si trovi in condizione di povertà e vengono classificate sotto altre politiche, ad esempio quelle per gli anziani. Infatti quei 19.341 milioni di euro sono la somma dell’assegno sociale e dell’integrazione al minimo, dunque, trattamenti pensionistici seppur assistenziali, a cui vanno aggiunti i 2.800 milioni del bonus per gli incapienti e l’aumento dell’integrazione al minimo della legge finanziaria del governo Prodi del 2007. Così nella voce housing and social exclusion per l’Italia troviamo una spesa pari solo ad un quindicesimo della spesa sopra indicata: lo 0,1% del PIL contro una media dell’UE a 25 dello 0,9%; 11,5 euro pro capite contro i 109,3 della Francia, i 116,9 della Germania e i ben 354,9 dell’Olanda.

Quali politiche per prevenire e combattere la povertà

Punto di riferimento in un programma di lotta alla povertà è l’Agenda sociale europea, i cui obiettivi sono: creare una strategia integrata che garantisca un’interazione positiva delle politiche economiche, sociali e dell’occupazione; promuovere la qualità dell’occupazione, della politica sociale e delle relazioni industriali, consentendo quindi il miglioramento del capitale umano e sociale; adeguare i sistemi di protezione sociale alle esigenze attuali, basandosi sulla solidarietà e potenziandone il ruolo di fattore produttivo; tenere conto del “costo dell’assenza di politiche sociali”. La piena occupazione, un mercato europeo del lavoro, una società più solidale attraverso pari opportunità per tutti, la promozione della diversità e della non discriminazione, la lotta alla povertà e la promozione dell’inclusione sociale ne sono i capitoli concreti. Nell’ambito della lotta alla povertà, l’iniziativa comunitaria indica agli Stati membri di adottare misure di reddito minimo di inserimento e indica il 2010 come l’anno europeo della lotta alla povertà. D’altra parte l’analisi comparativa fra i paesi europei ha evidenziato che proprio la presenza di misure specifiche come il reddito minimo di inserimento costituisce un discrimine tra paesi le cui politiche agiscono con maggiore efficacia nell’abbattere la povertà e paesi in cui l’efficacia delle misure antipovertà è inferiore.

Lo svantaggio potenziale di più lungo periodo – in termini di minore istruzione, difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro, rischi di esclusione sociale – deriva dall’essere poveri nella fase iniziale del ciclo della vita. È innanzitutto la mancanza di lavoro a provocare la povertà delle famiglie e degli individui con esiti lungo tutto il ciclo della vita. Si è poveri da bambini come figli di disoccupati e di sottoccupati; si rimane poveri da giovani e da adulti perché la povertà dei genitori, unita ad una politica della formazione poco attenta a comprendere le situazioni di svantaggio famigliare, non consente l’accesso a una formazione adeguatamente spendibile sul mercato del lavoro; si è poveri da giovani perché troppe volte l’unico lavoro che si trova è al di sotto della soglia di decenza, in quanto privo di diritti e di tutele. L’accesso al lavoro è dunque essenziale per contrastare la povertà e l’esclusione sociale. Un lavoratore deve avere diritti, deve poter accedere alla formazione permanente, ad un circuito informativo adeguato, al sostegno delle attività di cura. Il lavoro da solo, però, non produce integrazione sociale. Un reddito da solo non libera dalla povertà. Perché la povertà, come afferma Amartya Sen, è «l’espressione di un fallimento delle capacità. E costituisce una limitazione dell’esistenza umana».

È utile impostare le politiche di lotta alla povertà alla luce del concetto di capacità elaborato da Sen. La capacità è l’esercizio delle libertà sostanziali; mette l’accento sui risultati che si ottengono con il buon utilizzo delle risorse e non si limita a riconoscere in modo formale un diritto ma si preoccupa di come renderlo pratico ed effettivo. Concentra la sua attenzione sui processi di trasformazione dei diversi beni a disposizione dei singoli, giacché i beni, in questa prospettiva, hanno valore non solo in quanto sono posseduti ma in quanto generano risultati. Il concetto di capacità sposta l’attenzione sul rapporto tra reddito e star bene nella consapevolezza che non basta guadagnare risorse ma bisogna saperle usare. È sulle strategie e sui fattori che convertono e trasformano i redditi, le risorse, i beni in stati di benessere e di libertà che si gioca la possibilità e l’efficacia di una politica di uguaglianza. È come dire: non basta prevedere il reddito minimo di inserimento, bisogna preoccuparsi che sia usato dalle persone come strumento per attivare un progetto di vita di uscita dalla povertà. Adottare la prospettiva delle capacità significa, per quanto riguarda l’Italia, superare definitivamente la visione di un sistema di protezione sociale che mette le persone al riparo dai rischi fornendo loro dei risarcimenti, per costruire un sistema che mette i soggetti nelle condizioni di affrontare meglio i rischi accrescendo la loro dotazione di mezzi, risorse, opportunità facendo leva sui propri talenti. Pertanto un percorso di integrazione sociale non deve mirare solo a fornire una garanzia minima di risorse, ma deve sviluppare o reintegrare le capacità lavorative, professionali e di relazione sociale, senza le quali non c’è identità personale, né inclusione sociale, né cittadinanza.

Le figure della povertà ormai consolidate in Italia suggeriscono che le politiche per prevenire e combattere la povertà devono incidere su alcuni aspetti strutturali dell’Italia: la buona e piena occupazione femminile; misure fiscali e monetarie a sostegno dei figli; politiche di conciliazione tra lavoro nel mercato e responsabilità di cura per donne e uomini; l’accesso ai servizi socioeducativi per la prima infanzia (0-3 anni); misure per prevenire, rallentare, prendere in carico la non autosufficienza attraverso un fondo dedicato; una politica della casa che parta dagli affitti. In proposito non si parte da zero perché esistono provvedimenti già adottati dai governi di centrosinistra e proposte nuove già elaborate o in via di elaborazione. Ci sono tre questioni sulle quali bisogna essere decisamente coraggiosi e innovatori: l’inclusione nel welfare delle persone immigrate, al di fuori di pregiudizi ideologici che comportano discriminazioni inaccettabili e che sono anche poco convenienti sul piano sociale; la promozione di politiche sociosanitarie differenziate per coinvolgere i gruppi più marginali e superare il paradosso del welfare più utilizzato dai ceti medi che dai poveri; la previsione di una misura universalistica di integrazione al reddito per chi è al di sotto della soglia di povertà; un intervento monetario transitorio accompagnato da programmi di reinserimento sociale con l’obiettivo di promuovere l’uscita dalla povertà attraverso il reinserimento lavorativo e sociale.

L’equità nella salute

La povertà limita severamente la possibilità di una vita sana ed è ancora in alcuni paesi europei una causa importante di scarsa salute e in particolare di ingiustizie nell’accesso ai servizi sanitari. La salute può anche essere una causa importante di impoverimento poiché può portare ad una voce di spesa ingente, spingendo famiglie e individui in ulteriore povertà. Per contro, il miglioramento della salute può essere un requisito preliminare per poter migliorare l’educazione e il livello lavorativo. Sono principalmente tre i rapporti esistenti tra povertà e salute: povertà come causa di scarsa salute, salute scadente come cau- sa di povertà e miglioramento della salute come riscatto dalla povertà.

Le organizzazioni internazionali, a partire dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), sono impegnate da tempo nel promuovere e sostenere gli sforzi per ridurre le ingiustizie sociali nella salute. L’OMS definisce la povertà estrema come la causa principale di malattia e morte. Va detto che si tratta di una causa sottovalutata che non riceve la giusta attenzione da parte dei sistemi informativi. È molto difficile che un decesso venga attribuito alla povertà, mentre è più probabile che venga ricondotto ad arresto cardiaco, ipertermia, o ad altre cause; in realtà la povertà è “la causa delle cause”. Ridurre l’impatto della povertà sulla salute e migliorare lo stato di salute dei gruppi più vulnerabili non è impresa facile. Negli ultimi anni le disuguaglianze sociali nella salute sono diventate un tema importante nella sanità pubblica europea. Si è costituito un network europeo per valutare l’impatto delle diseguaglianze sulla salute e l’efficacia delle politiche mirate che sono state attivate. Il 18 dicembre 2007 si è svolta a Roma la Conferenza dei ministri della Salute dell’Unione europea che ha approvato la Carta di Roma per promuovere la salute in tutte le politiche, intervenendo sui determinanti economici e sociali della salute. Da segnalare inoltre l’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e il contrasto delle malattie della povertà istituito dalla legge finanziaria 296/2006, che ha sede a Roma presso l’Istituto San Gallicano. Il più importante indicatore dello stato delle diseguaglianze è l’aspettativa di vita alla nascita. In taluni paesi europei essa è addirittura diminuita. L’Italia vanta uno dei livelli migliori per quanto riguarda questo indicatore. Eppure nei paesi ad alto reddito – come l’Italia, la Svezia e il Regno Unito – possono esserci differenze che vanno dagli otto ai dieci anni nella aspettativa di vita tra gruppi sociali o aree geografiche diverse.

Anche in Italia il quadro delle diseguaglianze evidenzia come questo tema costituisca una priorità assoluta per le politiche della salute. Nessun singolo fattore di rischio è in grado di spiegare una quota così alta di mortalità e di morbosità nella popolazione. Tutti gli indicatori socioeconomici utilizzati – classe, educazione, casa, risorse economiche, contesto – misurano variazioni sociali dello stesso segno, seppure di intensità variabile, su tutti gli in- dicatori di salute e di accesso all’assistenza analizzati.

L’indagine speciale dell’ISTAT sulla salute condotta nel 1999-2000, in collaborazione con il ministero della Salute e le Regioni, e presentata nel 2007, fornisce immagini aggiornate su come si distribuiscono la salute, gli stili di vita e l’uso dell’assistenza sanitaria in Italia, proprio nel periodo in cui il sistema sanitario italiano si è trasformato in senso federalista.

L’invecchiamento è il principale determinante della morbosità. Ma a parità di età, le diseguaglianze sociali ne sono il principale determinante non biologico (come l’età). Tra le diverse dimensioni dello svantaggio sociale hanno maggiore importanza quelle relative all’istruzione – che nascono da lontano, nella famiglia di origine e nel modo con cui da giovani si sono costruite competenze educative – e quelle che rappresentano le risorse materiali ed economiche disponibili per far fronte ai casi della vita di oggi. Titolo di studio e reddito inadeguato sono i due indicatori che maggiormente influenzano la morbosità. Le diseguaglianze sociali inoltre spiegano quelle geografiche. Gran parte del differenziale Nord-Sud negli indicatori di salute è attribuibile alla diversa distribuzione delle caratteristiche sociodemografiche che descrivono lo svantaggio culturale e di reddito delle Regioni meridionali. Gli effetti della bassa posizione sociale sulla salute sono però molto più intensi al Sud che non al Nord. Su questo dato incide sicuramente la diversa qualità che è possibile riscontrare nei sistemi sanitari regionali. Le diseguaglianze nella salute sono leggibili nell’uso improprio dei servizi sanitari; nell’uso tardivo dei medesimi con lo sviluppo di quadri clinici complicati e spese sanitarie conseguentemente più alte; nello scarso utilizzo di screening, di accertamenti diagnostici tempestivi; negli stili di vita scorretti; nelle difficoltà di accesso all’assistenza specialistica, all’assistenza per i non autosufficienti e alle cure odontoiatriche, dato il loro costo elevato. Per quanto riguarda l’utilizzo dell’assistenza sanitaria, il sistema sanitario pubblico italiano si conferma sostanzialmente equo, capace di rispondere ai bisogni di salute prescindendo dal reddito e dalla posizione sociale. I servizi sanitari sono infatti utilizzati secondo indicatori diretti di bisogno di salute, come la morbosità cronica o l’età.

A ogni posizione sociale gradualmente più sfavorevole corrisponde un lieve aumento nell’utilizzo di servizi. Questo è riconducibile all’inferiore capacità di utilizzo dei servizi e all’uso inappropriato dei medesimi. La distribuzione del fabbisogno di assistenza sanitaria nella popolazione avviene, in ordine di importanza, in base alla morbosità cronica, all’età e alla bassa posizione sociale. Un’assistenza sanitaria che distribuisce dove più alto è il bisogno in termini di morbosità, che si presta ad una maggiore accessibilità per le persone anziane e povere configura un sistema equo non solo dal punto di vista normativo. Per questo è prioritario il mantenimento e il miglioramento in Italia del sistema sanitario pubblico universalistico e solidale, che deve essere ammodernato in primo luogo per meglio prevenire e combattere le disuguaglianze nella salute. Queste ultime, come si è già detto, si contrastano anche agendo sui determinanti socioeconomici, e dunque rendendo operativo l’indirizzo de “la salute in tutte le politiche”. Si tratta allora di introdurre un’innovazione nella programmazione sanitaria. Occorre promuovere sul piano nazionale e regionale una programmazione sanitaria e intersettoriale, prevedendo un programma interministeriale che definisca le strategie e le azioni volte ad orientare le politiche non sanitarie delle istituzioni pubbliche e private e le condotte individuali, per conseguire obiettivi di salute, nonché il monitoraggio per valutare l’impatto sulla salute dell’insieme delle politiche economiche e sociali.

L’universalismo fino ad ora praticato si basa sul concetto e la pratica di servizi che sono aperti ai cittadini, ma che i cittadini devono andare a cercare: sono loro che devono rivolgersi all’operatore sanitario e ai servizi. È noto però che tante persone, soprattutto quelle più fragili, non conoscono, non sanno rivolgersi e non sanno utilizzare i servizi. Bisogna che operatori e servizi si attivino per incontrare i cittadini più deboli e vulnerabili. È quella che viene chiamata la medicina di iniziativa.

Un reddito minimo di inserimento

L’Italia deve colmare il deficit che la separa dagli altri paesi europei dotandosi, come indicò la commissione Onofri del 1997, di un vero e proprio diritto soggettivo di cittadinanza, tutelato e disciplinato dalla legge, definito su criteri universalistici e standardizzati, sottratto alla discrezionalità del l’amministrazione erogante, affiancato da articolate misure di accompagnamento volte a reintegrare i beneficiari nel tessuto sociale ed economico circostante. Il reddito minimo di inserimento (RMI), nei termini indicati dalla commissione Onofri fu sperimentato negli anni 1999-2004 in due fasi, prima in 39 comuni e poi in 306, coinvolgendo complessivamente l’8,6% della popolazione italiana. Beneficiarono dell’RMI, nelle due fasi, rispettivamente 25.000 e 40.000 nuclei familiari, e 37.000 e 28.000 sono state le persone coinvolte in programmi di inserimento sociale. Il governo Berlusconi con il “Patto per l’Italia” del 2002 e con il Libro bianco sul welfare del 2003 abbandonò questa misura, che avrebbe dovuto essere sostituita con il reddito di ultima istanza. Ma si trattò solo di un annuncio. L’allora ministro del welfare Maroni non trasmise neppure al Parlamento la valutazione della sperimentazione dell’reddito minimo di inserimento, ai sensi dell’articolo 13 del decreto legislativo 237/1998.

La valutazione della sperimentazione, realizzata dall’Istituto per la ricerca sociale e dalla Fondazione “E. Zancan”, costituisce un patrimonio utile di conoscenze per riproporre e riformulare la misura di un reddito di inserimento per chi è in condizioni di povertà. Tale misura deve essere tale da costituire una rete di protezione cui qualsiasi cittadino in condizioni di indigenza – per ragioni non dipendenti dalla proprio volontà e a prescindere dal genere, dalla classe sociale e dalla professione – possa accedere per trovare un sostegno economico e l’offerta di opportunità e di servizi per uscire dallo stato di bisogno.

Il reddito minimo di reinserimento è indirizzato alla fasce più deboli della popolazione e reintegra solo parzialmente la distanza fra le risorse del soggetto e la soglia di povertà, per attenuare la trappola della povertà. I destinatari sono gli individui maggiorenni il cui benessere è valutato in base alle risorse del nucleo familiare in cui sono inseriti, tenendo conto della composizione della famiglia e delle caratteristiche dei componenti; mira al reinserimento nel mondo del lavoro dei beneficiari responsabilizzandoli alla ricerca attiva di un’occupazione, alla partecipazione a lavori socialmente utili e a programmi di formazione; è integrato con le politiche assistenziali locali e con le politiche attive del lavoro. Punto qualificante del reddito minimo di inserimento è che si tratta di una misura transitoria (due anni) e che esso è accompagnato in modo obbligatorio – per chi è in età lavorativa e non è disabile, non ha impegni di cura e non soffre di problemi di dipendenza – da programmi di reinserimento lavorativo e sociale. Anzi, potrebbe addirittura premiare chi ha trovato lavoro, aumentando per qualche tempo l’integrazione economica. L’RMI ripropone il tema della definizione dei livelli essenziali di prestazioni sociali (LEPS) così come sono stati indicati dalla legge 328/2000 e dall’articolo 117 comma 2 lettera M del titolo V della Costituzione, secondo cui compete allo Stato la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Il diritto sociale da garantire con i livelli essenziali consiste allora nel disporre di risorse economiche adeguate al mantenimento e di opportunità per il reinserimento sociale. Entrambi i livelli di assistenza sono fortemente innovativi rispetto allo stato attuale delle politiche sociali e richiedono un forte investimento su di esse nella logica, appunto, della rete integrata dei servizi e dunque di una politica sociale attiva. La discussione sul federalismo fiscale dovrebbe essere l’occasione per compiere una scelta decisiva sull’RMI. Si tratta infatti di dare applicazione agli articoli 117 e 119 della Costituzione (così come riformulata nel 2001). Ciò significa innanzitutto colmare il grave ritardo nella definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali e risolvere il problema di coerenza che esiste tra l’articolo 117 e l’articolo 119. Il primo, come già detto, attribuisce allo Stato il compito di definire i livelli essenziali per i diritti sociali e civili ma non individua per essi una fonte di finanziamento specifica. L’articolo 119, infatti, prevede l’autosufficienza delle forme di entrata delle Regioni per le funzioni attinenti il proprio livello di governo, la definizione di un unico fondo con finalità esclusive di perequazione, fondato sul criterio della capacità fiscale, che comporta implicitamente il divieto di ricorso a rapporti finanziari tra centro e periferia, rappresentati da trasferimenti a destinazione vincolata (sanità, assistenza, nidi). La conciliazione tra l’articolo 117 e il 119 ha costituito oggetto di dibattito nel corso degli scorsi cinque anni e ha trovato sul piano operativo un punto di orientamento nei pronunciamenti della Consulta, che hanno decisamente sottolineato l’illegittimità di fondi a destinazione vincolata in attesa di una legge applicativa dell’articolo 119. Se la scelta dell’integrazione al reddito per chi è in condizione di povertà si configura come diritto di cittadinanza e dunque diritto esigibile, non sottoposto alle disparità territoriali in coerenza con l’articolo 117 della Costituzione, allora è decisamente preferibile che esso sia alimentato da un fondo statale dedicato. Qualora le risorse fossero interamente regionali diventerebbe ancora più importante la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali. Il governo centrale dovrebbe essere dotato degli strumenti di monitoraggio e di sanzione per garantire la conformità con i requisiti dei LEPS. Questi ultimi devono prevedere pertanto procedure e protocolli che consentano appropriate valutazioni e meccanismi istituzionali di supplenza efficaci, nel caso in cui l’attività di Regioni e comuni si riveli inadeguata. Il costo del reddito minimo di inserimento è stato valutato in un’ipotesi minima di 2.600 milioni di euro e in una massima di 4.000 milioni di euro, a seconda della soglia assunta come indicatore della situazione economica e sociale. Si potrebbe prevedere un’entrata in vigore della misura attraverso un processo graduale. Il fondo per l’RMI potrebbe essere finanziato, oltre che da risorse pubbliche, da risorse private attraverso il cofinanziamento da parte di fondazioni e soggetti privati e da risorse dei cittadini attraverso le donazioni dell’8 per mille allo Stato, ampliando le finalità di quest’ultimo, in modo tale da comprendere la lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Il reddito minimo di inserimento potrebbe sostituire la carta sociale. Sarebbe più efficace e più rispettoso della dignità delle persone.