La ricerca storiografica di Franco De Felice (1962-1977)

Written by Giuseppe Vacca Monday, 22 December 2008 20:07 Print

“Passato e presente” era il titolo della collana storica dell’editore De Donato di Bari. Diretta da Paul Corner, Franco De Felice e Gianenrico Rusconi, la collana si pubblicò tra il 1979 e il 1983. Fu ideata da Franco De Felice e costituì la proposta storiografica più innovativa nel panorama editoriale italiano di quel periodo. Le sue caratteristiche principali furono lo sforzo di fondere, in una nuova visione della storia politica, gli apporti della storia sociale e di altre scienze umane, di saldare storia nazionale e storia internazionale, di ridefinire la periodizzazione e il concetto stesso di storia contemporanea. Pubblichiamo qui la “Bozza” del progetto della collana, finora inedita, che Franco De Felice, immaturamente scomparso il 31 agosto 1997, elaborò nel settembre del 1977.

Alle origini dell’itinerario storiografico di Franco De Felice vi sono una vocazione precoce del “mestiere” di storico e una altrettanto precoce maturazione della motivazione “etico-civile” del lavoro intellettuale. Entrambe rimontano agli anni dell’università. Iscritto alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari, alla fine degli anni Cinquanta De Felice scelse una tesi di laurea in diritto del lavoro sull’imponibile di manodopera in agricoltura, con Gustavo Minervini. Dopo la laurea, pur avendo la possibilità d’inserirsi nella vita accademica, tentò il concorso in magistratura e definì un primo piano di ricerche. “L’agricoltura in terra di Bari dal 1880 al 1914” uscirà solo nel 19711 ed è frutto anche dell’incontro con Pasquale Villani, avvenuto qualche anno dopo la laurea. Ma l’origine di quella ricerca faticosa e pionieristica è nella sua tesi di laurea e nella scelta di orientare i suoi studi sulla «questione meridionale».

La ricerca sull’agricoltura in terra di Bari fu completata in pieno 1968, quando si può datare la conclusione del primo ciclo delle ricerche storiche di Franco De Felice. Cominciate nel 1962 con la pubblicazione di un’ampia e simpatetica recensione al “Sud nella storia d’Italia” di Rosario Villari, si concludono con la densissima rassegna sull’età giolittiana alla fine del 1968.2 Gli scrit- ti di questo periodo vertono tutti sulla questione meridionale. Il più significativo, a giudizio di chi scrive, è il saggio del 1966 “Questione meridionale e problema dello Stato in Gramsci”.3 Le acquisizioni principali di questo scritto sono le seguenti: con “Alcuni temi”, sostiene De Felice, la storia del meridionalismo finisce perché «dopo Gramsci non si può più parlare di meridionalismo come momento autonomo di elaborazione senza porsi congiuntamente il problema del potere e dello Stato ».4 In altre parole, la questione meridionale non è la questione di un’area del paese, ma un paradigma del pensiero politico italiano, poiché il problema storico della nazione italiana non si può definire se non mettendo a fuoco il dualismo che origina la sua fragile unità e la sua debole competitività internazionale. Altra acquisizione fondamentale è «il problema della direzione politica» come traduzione euristica del concetto di egemonia, trait-d’union fra “Alcuni temi” e le note sul “Risorgimento”, e canone fondamentale della ricerca storica. Ma per queste acquisizioni a Gramsci si deve affiancare Togliatti: non solo perché fino al fondamentale articolo del 1972 “Una chiave di lettura in ‘Americanismo e fordismo’” 5 De Felice era fortemente influenzato dalla lettura di Gramsci proposta da Togliatti subito dopo il 1956, ma anche perché l’originaria scelta di schierarsi al fianco del movimento operaio e l’assunzione della questione meridionale come oggetto di studio era avvenuta sotto la direzione di Togliatti prima ancora dello studio sistematico di Gramsci. Nella recensione all’antologia del Villari, De Felice sottolinea che il Mezzogiorno del secondo dopoguerra si caratterizza per una sostanziale discontinuità: l’organizzazione politica delle masse contadine e il loro ingresso nella vita nazionale. È evidente l’impronta della polemica del 1944 sui «cento uomini di ferro», che aveva contrapposto Togliatti a Guido Dorso.6 Dopo il 1968 «il problema della direzione politica» è riformulato come lotta egemonica per il «governo delle masse e dell’economia». L’itinerario di ricerca di De Felice è segnato profondamente dalla lettura delle “Lezioni sul fascismo” di Togliatti, pubblicate da Ernesto Ragionieri nel 1969. De Felice le collega in modi sempre più approfonditi all’interpretazione gramsciana del fascismo e il problema del «governo delle masse e dell’economia» definirà d’ora in poi il suo approccio storiografico e politico all’Italia contemporanea. È necessario, a questo punto, riassumere brevemente i mutamenti che la «rivoluzione sociale» cominciata nel 1968 originò nel rapporto fra storiografia e responsabilità politica, cambiando il programma di ricerca di Franco De Felice. Nella percezione di De Felice il 1968 è periodizzante perchè in quell’anno affiora alla superficie una grande accelerazione dei processi di mondializzazione e si verificano mutamenti irreversibili della soggettività. Secondo De Felice la diffusa politicizzazione dei «mondi vitali» e degli apparati della riproduzione sociale riproponeva il tema della transizione al socialismo. D’ora in poi, per segnalare la portata di quei mutamenti, in molti dei suoi scritti egli citerà emblematicamente il saggio di Carlo Donolo “La politica ridefinita”.7

Ma forse quello che incide di più nel suo programma di ricerca è la posizione assunta dal PCI. La presa di distanza dall’URSS sulla “primavera di Praga” e il proposito di saldare le lotte operaie ai movimenti antiautoritari fanno pensare a De Felice che il PCI possa far proprio il problema della transizione. Tuttavia gli sono ben presenti i limiti teorici, culturali e programmatici del partito. I suoi interessi si spostano quindi sulla storia del comunismo internazionale, sulla figura di Togliatti, sul «regime fascista » e sui “Quaderni del carcere”. In altre parole, sugli anni Trenta, in una ricerca evidentemente suggestionata da possibili analogie con la crisi degli anni Settanta. Insomma, egli sembra voler risalire ai padri fondatori per dare nuova linfa alla cultura del PCI. Al tempo stesso il rapporto fra ricerca storica e responsabilità politica si radicalizza e muta il suo paradigma storiografico (l’idea, si ricorda, che la storia contemporanea si possa comprendere integralmente a partire dall’azione del movimento operaio). Sotto questo profilo il testo più esplicito è l’intervista a Ottavio Cecchi pubblicata su “Rinascita” il 15 giugno 1973 nell’ambito dell’inchiesta su “La ricerca storica marxista in Italia”. Ribadito il concetto che il Sessantotto aveva riproposto il problema della transizione al socialismo, De Felice afferma che «nel rapporto passato-presente è quest’ultimo che deve tendere ad operare come elemento attivo, dominante e caratterizzante ». Lo storico, quindi, deve assumere piena consapevolezza che anche la sua ricerca è un atto di direzione politica, sia pure in un campo limitato. Per lo storico marxista, egli scrive, questo vuol dire operare come «parte specifica (…) di un movimento di massa che tende a diventare Stato»; e «questa caratterizzazione – egli conclude – modifica sostanzialmente la definizione canonica dello storiografo».8 Il suo assillo è che, malgrado l’apertura politica ai movimenti, il PCI non riesca a influire sulle loro forme di coscienza. Egli ne individua le ragioni nella crisi del paradigma storico-politico, cominciata nel 1956 e divenuta sempre più corrosiva della autonomia culturale del PCI. Se, quindi, la sua ricerca è rivolta soprattutto a criticare i diversi filoni di quella che lui stesso considera la «storiografia delle occasioni mancate» (l’ideologia della «Resistenza tradita», l’assunto della «continuità » fra fascismo e repubblica, divenuti senso comune in tanta parte dell’intellettualità diffusa della sinistra), sul fronte interno, per così dire, De Felice si adopera per un riorientamento della storiografia comunista e pone al centro di un possibile programma il problema del fascismo come «regime reazionario di massa», il ruolo degli Stati Uniti nella storia del Novecento, l’Italia repubblicana e le particolarità della DC come partito capace di governare la tensione fra accumulazione e legittimazione nella modernizzazione post-fascista.

La morte improvvisa di Ernesto Ragionieri favorì la discussione sugli strumenti della ricerca storica di cui il PCI disponeva, in primo luogo l’Istituto Gramsci e la rivista “Studi Storici”, e De Felice venne chiamato a introdurre il seminario che inaugurò la sezione di “Storia e scienze sociali” del Gramsci. Della “Relazione sulla ricerca storica in Italia nel secondo dopoguerra”, svolta il 27 ottobre 1975 in apertura al seminario e ancora inedita, ci si limita qui a segnalare solo alcuni passaggi. Il primo è l’attenzione dedicata al «progetto complessivo» di Renzo De Felice, del quale Franco De Felice sottolinea le capacità egemoniche nel panorama della storiografia italiana. Egli le attribuisce a due aspetti fondamentali: il «respiro europeo ed extraeuropeo » con cui vengono affrontati alcuni nodi fondamentali della storia del Novecento (a questo proposito cita i temi dei seminari annuali della rivista “Storia contemporanea”) e «l’aver assunto la questione del fascismo come centrale per la comprensione della storia contemporanea ». È appena il caso di avvertire che queste valutazioni non implicano adesione o simpatia per la storiografia defeliciana. Anzi, Franco De Felice la considera «una sorta di ‘storiografia del fatto’» fondata sulla «autonomia del politico» e sostanzialmente apologetica. Ma ne condivide il programma di ricerca e il respiro internazionale, e ne enfatizza la capacità di spostare più avanti la ricerca contemporaneistica, sprovincializzarla e aprirla alla collaborazione multidisciplinare. Ne apprezza, in particolare, la capacità di ricollocare la storia d’Italia nel quadro della storia internazionale del Novecento. Un secondo aspetto saliente della “Relazione” è la denuncia della incapacità della storiografia comunista di assumere la sfida rivoltale da Rosario Romeo con “Risorgimento e capitalismo”,9 vale a dire la sfida a misurarsi con la storia dello sviluppo capitalistico.

È il caso di sottolineare che per Franco De Felice questo vuol dire ricostruire il modo in cui evolve la «contraddizione immanente all’organizzazione complessiva » della società, dalla quale scaturiscono i mutamenti del governo delle masse e dell’economia. Egli quindi propone come tema unificante della storiografia comunista capace di collegare, a suo avviso, le vecchie e le giovani generazioni, lo studio dell’imperialismo. Sembra necessario un chiarimento su questo punto: con quel termine Franco De Felice non si riferisce ad una categoria economica, né alla «fase suprema del capitalismo», ma usa il con- cetto come una categoria euristicomorfologica. Infatti, con quel termine intende «l’unificazione del mondo contemporaneo», «la necessità di ripensare unitariamente economia e politica, società civile e Stato», insomma una realtà storica complessiva che secondo lui «la grande cultura borghese» non sarebbe più in grado di interpretare unitariamente. Tuttavia non sembra fiducioso sulla possibilità che la proposta venga accolta, poiché mostra di avere piena consapevolezza della profonda frattura determinatasi ormai fra «l’incidenza politica crescente » del PCI e la «correlativa capacità di sviluppare e dispiegare l’intero risvolto culturale e ideale connesso a tale incidenza».

La “Bozza di discussione per una nuova collana storica” è dell’estate 1977. C’è solo un anno e mezzo di distanza dalla “Relazione” del 1975, di cui ricalca letteralmente l’impianto. La “Bozza” serviva ad impostare la collana storica “Passato e Presente”, dell’editore De Donato, di cui De Felice assunse la direzione insieme a Paul Corner e Gianenrico Rusconi. La collana cominciò le sue pubblicazioni nel 1979, con “La rifondazione dell’Europa borghese” di Charles S. Maier. La sua gestazione non fu breve. La collana fu varata nella riunione del Comitato editoriale dell’autunno 1977 che rimodulava l’intero impianto della casa editrice, ma Franco De Felice vi lavorava almeno da un anno. Per contestualizzare questo inedito, che qui si pubblica con pochissime correzioni redazionali, è necessario soffermarsi brevemente sulle elezioni del 20 giugno 1976 e sulla situazione del paese, inchiodato all’impotenza dei governi di solidarietà nazionale e colpito dal dilagare del terrorismo. De Felice ebbe netta la percezione d’un passaggio storico cruciale e crediamo che la relazione che svolse al convegno torinese su “La crisi italiana” nel marzo del 1977 lo testimoni limpidamente.10 Se ne vogliono qui sottolineare solo due aspetti: Franco De Felice percepiva che la fine della conventio ad excludendum aveva aperto una crisi del sistema politico di cui non si intravedeva la soluzione; inoltre segnalava che la cosiddetta «crisi mondiale » degli anni Settanta portava alla superficie una sconfitta storica della classe operaia, e questo poneva l’esigenza di ripensare la sua vicenda a partire quanto meno dalla Grande guerra. In altre parole, egli avverte che comincia a delinearsi una situazione che parecchi anni dopo lo indurrà ad affermare che nel triennio della “solidarietà nazionale”, con notevole anticipo sugli altri paesi europei, in Italia era finito il secondo dopoguerra.11 Crediamo si debba sottolineare che la relazione al convegno torinese, dopo una puntigliosa rivendicazione dell’opera politica di Togliatti, si concluse con un evidente mutamento del paradigma storiografico: De Felice passava dall’enfasi sul movimento operaio come principale motore dello sviluppo storico del Novecento, all’indagine delle forme di regolazione del conflitto con cui le classi dominanti erano riuscite ad imbrigliarlo. Si potrebbe quasi dire che l’ermeneutica dell’egemonia si allarga e si arricchisce, volgendosi ad indagare i modi in cui, dagli anni Venti agli anni Settanta, le classi dominanti avevano affinato la loro capacità di governo delle masse e dell’economia. La “Bozza di discussione per una nuova collana storica” documenta che quel mutamento di paradigma era all’origine della collana “Passato e Presente”. Nella cultura sociologica internazionale era in pieno svolgimento il dibattito sul welfare e sul neocorporativismo. Per il modo in cui aveva indagato gli anni Trenta, Franco De Felice era pronto a prendervi parte. La sua scelta più ravvicinata fu appunto il progetto della «nuova collana storica». Basterebbe scorrerne i titoli per rendersi conto della sua portata innovativa. Era un disegno ambizioso, ma gli undici volumi pubblicati nell’arco di quattro anni (nel 1983 la De Donato fallì) dimostrano che Franco De Felice aveva la forza per proseguirlo.12

Franco De Felice, Bozza di discussione per una nuova collana storica

«1. Volendo definire, sia pure in via di prima approssimazione, i caratteri della collana storica che si intende realizzare, un punto di partenza può essere costituito da un giudizio sintetico sui caratteri e sugli orientamenti della storiografia italiana in questo secondo dopoguerra. Il primo elemento che mi sembra possibile evidenziare è la tendenziale prevalenza delle ricerche di storia contemporanea nel complesso della produzione storiografica. Questo fenomeno è databile tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta per diventare poi massicciamente dominante dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi. Si potrebbe fare, a tal proposito, una ricostruzione molto più minuta e attenta, ma, credo, basta ricordare la risonanza e il successo di un libro discutibile e nella tesi di fondo non inedito in Italia come quello del Mack Smith (1959), e ancora, pochi anni dopo, dello Shirer, o il rilievo nazionale di cicli di lezioni come quelle torinesi (Trent’anni di storia italiana, 1960-61) o milanesi (Fascismo e antifascismo, 1961-62). Non è forse secondario ricordare che tale sviluppo della produzione contemporaneistica e l’interesse di massa per essa si accompagna alla prima introduzione da parte dei maggiori centri editoriali della formula del pocket (la nascita della PBE è del 1960 e quella della UL è del 1964), alla presenza di una divulgazione più o meno seria di momenti della storia più recente da parte dei rotocalchi: più in generale va colto il rapporto tra produzione contemporaneistica e processi di trasformazione della società italiana.

La valutazione della tendenziale prevalenza della storia contemporanea non si risolve ovviamente nella mera rilevazione di un fenomeno quantitativo. Che si tratti di un processo profondo che ha conseguenze importanti si desume dalla rilevazione di un’altra tendenza strettamente connessa alla precedente: cioè la dissoluzione dell’unità delle collane storiche tradizionali. Per esempio la “Collezione storica” di Laterza, che aveva, nel decennio metà anni Cinquanta-metà anni Sessanta, innovato la struttura rigida e severa, sia tematicamente (Wermeil, 1956; Prokopovic, 1957; Mack Smith, 1959; Taylor, 1961) sia come formula (Saitta, Villari, Cafagna, Chesneaux), a metà degli anni Sessanta è affiancata da una altra collana, “Storia e società”, non ben definita nei programmi e negli obiettivi, ma sempre più caratterizzata come collana di storia contemporanea e fondata su di un’intuizione giusta: dare respiro storico a una tematica emergente da affrontare sia con strumenti vari (sintesi agili, veri e propri saggi, storie documentarie) sia ospitando prodotti non assimilabili ad una sistemazione storica: il fenomeno più significativo in questa direzione mi sembra rappresentato dai volumi di Bocca. La “Collezione storica” tende a restringere il proprio campo d’intervento, diventando la sede di grosse opere istituzionali (per esempio i volumi del Cole o quelli sulla storia del pensiero politico) o di ricerche altamente specializzate (si pensi ad opere come quelle del Mandrou).

Non diversa tendenza è osservabile nella “Biblioteca storica” einaudiana: la soluzione unitaria permane come pure la tenuta di un alto livello qualitativo, di una ampiezza di respiro, di capacità di registrazione della produzione storiografica europea ed extraeuropea; ma credo sia difficile sottovalutare il fatto di una sensibile divaricazione interna alla collana. Nella direzione accennata va la costituzione recente dell’editore Feltrinelli di una “Biblioteca di storia contemporanea”, che non si inserisce nella collana di storia e politica già esistente ma si propone come una sezione della collana saggistica “I fatti e le idee”, e si sviluppa con l’intenzione precisa di rivisitare in termini critici i punti nodali della storia contemporanea e soprattutto del movimento comunista internazionale (elementi questi che risultano ancora più chiari nella sezione “Memorialistica e documenti”).

Più problematici si presentano i criteri che presiedono alla pubblicazione di opere storiche da parte degli Editori Riuniti: la collana storica registra certo opere di grande livello (si pensi a Procacci, Hobsbawm-Rudé, Hajek, Hallgarten ecc.), ma la loro pubblicazione risulta piuttosto casuale per cui è difficile riconoscervi un progetto organico di intervento storiografico. Oltre a questi elementi credo ne vadano sottolineati altri due, non meno importanti: anzitutto la consunzione della concezione liberal-borghese dello storico come maestro di vita civile e della storiografia come forma più alta di conoscenza della realtà. La forma in cui può registrarsi questa tendenza è la crescente importanza, accanto alla produzione storiografica in senso stretto, di tutta quella vasta letteratura ricca di elementi di conoscenza dei processi in atto nel mondo e in Italia che propone primi momenti di sistemazione problematica: mi riferisco a materiali presenti in collane come i “Libri del tempo” laterziani, la “Serie politica” o i “Paperbacks” einaudiani, che, pur non avendo, almeno istituzionalmente, i caratteri di produzione storiografica, pure sono ricchi di riflessione storiografica. Sembra anche di poter dire che l’osmosi tra questi due tipi di produzione sia rara e difficile, e questo ripropone il problema complessivo del ruolo della storiografia nel processo della conoscenza e della formazione critica. Il secondo elemento è una specificazione di quanto detto: infatti, anche se in forme meno marcate di quelle registrabili negli altri paesi europei (penso alla Francia e all’Inghilterra), il produttore di conoscenza storica è sempre meno identificabile con lo storiografo professionista. Cosa questo significhi e quali modificazioni implichi nel cambiamento (anche della sua capacità di produzione) di un settore particolarmente importante e significativo del ceto intellettuale italiano è un fenomeno da analizzare con attenzione.

2. Se si vuole rapidamente passare, all’interno di tale tendenza complessiva, ad una prima caratterizzazione degli elementi di questa produzione storiografica, si possono evidenziare i seguenti dati: a) Si tratta di una storiografica prevalentemente politica: e questo in due accezioni, cioè la lotta politica come oggetto dell’analisi e l’incidenza politica come motivazione e obiettivo della ricerca. Questo secondo elemento (ma anche il primo) è certo specifico della tradizione storiografica italiana (la storiografia come coscienza storica complessiva delle classi dirigenti), ma il modo in cui si ripropone nella produzione storiografica attuale evidenzia un appiattimento congiunturale nel rapporto con la politica (non nel senso deteriore di una strumentalizzazione della ricerca storica a fini politici, ma nella assunzione dei termini dello scontro politico come categorie di interpretazione storica). b) Una verifica della validità di questo giudizio generale (che certo andrebbe scomposto e motivato molto più articolatamente) è individuabile nella tematizzazione prevalente di questa produzione storiografica, volta alla revisione critica dell’operato oltre che dell’elaborazione teorico-politica del movimento comunista italiano e internazionale (mi riferisco essenzialmente alla collana diretta da Salvadori e Tranfaglia), senza che questa revisione sia inseribile in un progetto culturale ben definito; centralità del fascismo e postfascismo. È una tematizzazione carica di implicazioni generali, come si dirà in seguito, ma, inserita com’è in una dimensione prevalentemente italiana e fortemente collegata ad un giudizio sui caratteri della storia italiana del tren- tennio repubblicano, tende ad essere ridotta in limiti angustamente polemici. La ricerca di Renzo De Felice è abbastanza emblematica di questa aporia, e spiega il tipo di reazione prevalentemente moralistico-difensivo che attorno alla sua produzione si è sviluppata. c) Forte incidenza di un’area culturale caratterizzata da orientamenti radicali, azionisti e socialisti. La questione è ampia e complessa e non può essere se non appena accennata in questa sede. Sinteticamente si può dire che quel grande movimento di crescita democratica che ha investito la società italiana in tutti gli anni Sessanta, con la produzione spontanea di forme di conoscenza ha trovato un canale di espressione culturale in quello fornito alla “classe dei colti”, che ha continuato ad operare con categorie tradizionali e senza giungere a mettere in discussione realmente, malgrado l’apparente radicalismo delle posizioni, il modo di produrre cultura e conoscenza. Il terzaforzismo, come è noto, costituisce un filo rosso della storia italiana e riemerge con forza in tutti i momenti di riorganizzazione degli schieramenti, proponendosi come terreno di lotta decisivo per la egemonia. La forte presenza di orientamenti radicali quindi è più spia e parte integrante di processi profondi di riorganizzazione che un progetto di sistemazione, e come tale andrebbe assunto. Non è secondario, nel quadro della caratterizzazione che si abbozza qui per grandi linee, cercare di cogliere le “controtendenze” emergenti. Sinteticamente possono individuarsene due: la prima è quella che identifica contemporaneismo con politicismo, la seconda, strettamente connessa, è quella di estendere anche a questo settore un tipo di approccio storiografico che ha fatto le sue maggiori sperimentazioni nel campo della storia moderna e del Risorgimento, cioè un progetto di storiografia sociale. Questa posizione ha implicazioni generali, che sono solo il recupero, con maggiore o minore consapevolezza, di elementi di positivismo, ma soprattutto quella di fornire al ricercatore di storia un’occasione di recupero della propria identità su un terreno più arretrato di quello offerto dal “politicismo”, e di definire conseguentemente un rapporto con la politica, tendenzialmente identificabile in quello tra scienza (consapevolezza storica) ed empiria. 3. Che giudizio dare su questo dato assunto come caratterizzante della storiografia italiana oggi? Non è possibile esprimere un giudizio fondato senza rapportare tale dominanza della storia contemporanea ai processi profondi in atto nella società italiana e non solo italiana. Essi sono sinteticamente: la crescita di una democrazia di massa; lo sviluppo di centri di vita politica molto più capillari e diffusi che nel passato; una modificazione profonda nel ruolo stesso del lavoro intellettuale, che sposta i termini in cui si poneva negli anni Cinquanta il rapporto politico- cultura, accompagnandosi alla crescita di massa di fasce intellettuali non tradizionali, per i quali la produzione come pure la richiesta di conoscenza si pongono in termini nuovi. Penso per esempio alle dimensio- ni culturali incredibilmente ricche del processo di unità sindacale e dell’elaborazione di massa di una linea non più prevalentemente rivendicativo- salariale; penso a cosa significhi lo sviluppo di organismi democratici nelle città ecc.: cambia il modo di pensare di grandi masse umane e la domanda di comprensione dei processi in cui si è coinvolti emerge come dominante. Se si pensa alla fortuna di massa che hanno i dibattiti sulla politica economica, sul capitalismo italiano del dopoguerra, sulla crisi italiana e internazionale, si riscontra una conferma significativa del giudizio rapidamente abbozzato che, al di là delle forme convulse, discutibili o fortemente intrise di economicismo e di ideologia con cui quella domanda si esprime, non può che essere positivo. Se in questo processo storico va individuato il fondamento della prevalenza del contemporaneismo e se il giudizio non può che essere positivo, questi stessi dati devono essere assunti come punto di partenza per la definizione dei caratteri di un intervento storiografico che, senza sacrificare in nulla questa spinta, sia capace di esplicitarne tutta la portata innovativa. La registrazione di tale dato è tanto più importante se si tiene presente che intorno alla seconda metà degli anni Sessanta, con la tendenziale crescente dominanza degli interessi contemporaneistici, si ha una rottura negli orientamenti tradizionali della storiografia italiana, centrata – sia pure in forme diverse e con tendenze profondamente differenziate – sulle origini dello Stato moderno e la formazione dello Stato unitario. La forma di questa rottura si esprime nella crescente divaricazione tra la storia moderna e quella contemporanea, a differenza di quanto era registrabile, per esempio negli anni Cinquanta, allorché l’omogeneità tra quanti lavoravano in questi diversi settori non derivava solo da una comunanza di aspirazione (Gramsci e un giudizio sul capitalismo italiano) quanto da una omogeneità interna alla stessa tematica analizzata (la costruzione dello Stato borghese). In questo contesto, la centralità che ha assunto nelle ricerche e nei dibattiti la questione del fascismo come regime non è casuale e individua sia un mutamento di oggetto sia un mutamento di ruolo nella ricerca storica: l’analisi del fascismo infatti significa andare ad incontrare una serie di questioni tutte aperte sull’oggi. 4. Fissati questi orientamenti generali, sono forse più agevolmente individuabili alcuni elementi del carattere della collana: a) Forte respiro internazionale nella produzione, con un obiettivo preciso: tendere ad evidenziare la dimensione internazionale dei processi, in modo da offrire, certo un contributo alla caratterizzazione della storia italiana, ma come aspetto specifico di processi internazionali. b) Centralità del contemporaneismo, per le ragioni abbozzate in precedenza, ma da intendersi in senso lato. Si propone di assumere come punto di partenza la emergenza definita, nelle sue forme politiche, di una formazione economico-sociale (capitalismo) – cioè la metà del sec. XIX – e come elemento ispiratore dei singoli contributi l’analisi delle tra- sformazioni successive a cui questa formazione è sottoposta sulla base della sua contraddizione fondamentale. Tale delimitazione viene proposta, come si è detto, in senso lato: essa non esclude, ma anzi richiede, la analisi di fenomeni e processi che pur avendo la propria genesi in un periodo precedente a quello qui definito, continuano ad operare e intervenire nello sviluppo dell’organizzazione capitalistica. All’interno di questa ampia definizione tematica, problemi da isolare con particolare attenzione e su cui insistere sono quelli relativi al passaggio all’imperialismo, al nodo degli anni 1920-30, e al periodo successivo alla seconda guerra mondiale. L’importanza di questi temi nella storia mondiale dell’ultimo secolo è scontata e non si richiede quindi per la loro riproposizione una motivazione diffusa. Il richiamo ad essi ha una ragione più generale: non quella di esaurire all’interno della tematica connessa a quei nodi l’intero campo d’intervento e di organizzazione della ricerca da parte della collana, ma quella di evidenziare con maggior forza le intenzioni della collana: i problemi del mutamento e le forme che esso assume, la dimensione internazionale come essenziale per la stessa comprensione di esperienze specifiche (nazionali). c) Tale definizione tematica, sia pure per grandi linee, permette di fissare con maggiore chiarezza un altro carattere della collana. Puntare sull’analisi delle trasformazioni significa individuare nello sviluppo la questione centrale della storia mondiale dell’ultimo secolo, e quindi nel nesso economia- società-Stato il criterio privilegiato per l’osservazione dei processi. d) Connesso a questo impianto è un altro degli obiettivi che la collana intende perseguire: ampliare cioè il campo della produzione storiografica, comprendendo in essa, a pieno titolo, analisi di settori considerati subalterni o solo vivai di materiali per la ricostruzione storica (intesa sempre come storia politica)».

[1] F. De Felice, L’agricoltura in terra di Bari dal 1880 al 1914, Banca commerciale italiana, Milano 1971.

[2] De Felice, Questione meridionale e dibattito meridionalistico. (A proposito de “Il Sud nella storia d’Italia” di Rosario Villari), in “Rivista storica del socialismo”, 15-16/1962; Id., L’età giolittiana, in “Studi storici”, 1/1969.

[3] De Felice, Questione meridionale e problema dello Stato in Gramsci, in “Rivista storica del socialismo”, 27/1966.

[4] Ivi., p. 217.

[5] De Felice, Una chiave di lettura in “Americanismo e fordismo”, in “Rinascita”, 42/1972.

[6] G. Dorso, La rivoluzione meridionale, Einaudi, Torino 1944, prefazione alla seconda edizione; e il botta e risposta fra Dorso e Togliatti in “La Rinascita”, 1/1944, pp. 14-16.

[7] C. Donolo, La politica ridefinita. Note sul movimento studentesco, in “Quaderni Piacentini”, 35/1968.

[8] De Felice, Nodo centrale è il rapporto tra ricerca storica e movimento operaio, in O. Cecchi (a cura di), La ricerca storica marxista in Italia, Editori Riuniti, Roma 1973, p. 106.

[9] R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1958.

[10] De Felice, La formazione del regime repubblicano, in L. Graziano, S. Tarrow (a cura di), La crisi Italiana, Einaudi, Torino 1979.

[11] De Felice, Aldo Moro e la “democrazia difficile” (9 maggio 1993), in “EuropaEurope”, 3/1998.

[12] I volumi della collana “Passato e Presente” erano i seguenti: C. S. Maier, La rifondazione dell’Europa borghese. Francia Germania e Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale; H. G. Gutman, Lavoro cultura e società in America nel secolo dell’industrializzazione. 1815-1919; T. W. Mason, La politica sociale del Terzo Reich; G. Stedman Jones, Londra nell’età vittoriana. Classi sociali, emigrazione e sviluppo: uno studio di storia urbana; L. A. Tilly, J. W. Scott, Donne, lavoro e famiglia nell’evoluzione delle società capitalistiche; H. U. Wehler, L’impero guglielmino 1871-1918; E. W. Hawley, Il New Deal e il problema del monopolio. Lo Stato e l’articolazione degli interessi nell’America di Roosevelt; W. Korpi, Il compromesso svedese. Classe operaia, sindacato e Stato nel capitalismo del Welfare; W. A. Williams (a cura di), Da colonia a impero. La politica estera americana 1750-1970; A. T. Scull, Musei della follia. Il contratto sociale della devianza nell’Inghilterra del XIX secolo; H. U. Wehler, J. Kocka, Sulla scienza della storia. Storiografia e scienze sociali. Franco De Felice morì il 31 agosto 1997. Per ricordarne la figura e l’opera il Dipartimento di Storia moderna e contemporanea dell’Università di Roma “La Sapienza” e la Fondazione Istituto Gramsci gli hanno dedicato un convegno di studi intitolato “Franco De Felice. Storico e maestro”. Il presente testo è tratto dalla relazione svolta da chi scrive aI convegno il 9 ottobre 2008.