Oltre la crisi finanziaria: prospettive e politiche per l'industria italiana

Written by Andrea Bianchi Monday, 16 February 2009 12:43 Print

Per affrontare la crisi globale e restituire competitività al si­stema produttivo, l’Italia ha bisogno di una politica indu­striale che sappia accompagnare i processi di riorganizza­zione avviati nei settori di maggiore specializzazione e so­stenere la crescita di filiere produttive nei settori collegati con i nuovi driver dello sviluppo globale. Il programma In­dustria 2015 avviato dal governo Prodi e proseguito dal-l’attuale esecutivo rappresenta la base sulla quale costrui­re una politica di sviluppo coerente con le esigenze di modernizzazione del paese.

Come ampiamente prevedibile e anticipato dai principali centri studi, nel corso delle ultime settimane gli effetti della crisi finanziaria si sono trasferiti sull’economia reale, determinando un rapido peggioramento dell’andamento di tutti gli indicatori congiunturali e di tutte le previsioni sul prossimo biennio. Tra luglio e novembre il FMI ha rivisto al ribasso tutte le previsioni per il 2009, livellando le performance di tutti i paesi su tassi di crescita negativi.

Il rallentamento del commercio mondiale, il cui tasso di crescita passerà dal 5% del 2008 allo 0% del 2009, sta penalizzando in primo luogo le economie avanzate, che sono entrate in una fase di recessione.

Negli Stati Uniti le più recenti previsioni evidenziano per il 2009 un calo del PIL dell’1,4%, che interromperà la lunga fase di espansione dell’economia americana avviata dagli inizi degli anni Novanta.

Anche per l’Unione europea le previsioni registrano per il 2009 una contrazione dello 0,8%, con situazioni molto critiche in tutti i principali paesi. Particolarmente preoccupante appare la crisi della Germania, dove la contrazione delle esportazioni determinerà una riduzione del PIL del 2%.

La fase di rallentamento sta riguardando, per la prima volta in questo decennio, anche le economie emergenti, che nel 2009, pur mantenendo il ruolo di motore della crescita mondiale, registreranno un dimezzamento del tasso di crescita, attribuibile alla riduzione delle esportazioni e degli investimenti.

L’economia italiana affronta questa fase particolarmente difficile indebolita da un decennio di bassa crescita del reddito e della produttività, ma al tempo stesso forte della consapevolezza di poter contare su alcune caratteristiche strutturali che la rendono meno esposta agli effetti recessivi della crisi finanziaria.

Rispetto agli altri paesi, e in particolare a quelli anglosassoni, l’economia italiana può, infatti, ancora contare su una base produttiva manifatturiera piuttosto solida, su un sistema bancario storicamente più radicato sul territorio e meno esposto alle fluttuazioni cicliche dei mercati internazionali, e su un livello di indebitamento privato sicuramente più basso rispetto agli altri paesi industrializzati.

Per questo motivo, pur nella consapevolezza della gravità e della pervasività della attuale fase congiunturale, occorre incentrare l’analisi delle prospettive del nostro sistema produttivo sulle dinamiche di medio/lungo periodo al fine di coglierne le peculiarità e di definire strategie di intervento che consentano al sistema industriale italiano di superare gli ostacoli che in questi anni ne hanno impedito o rallentato la crescita e di presentarsi in condizioni di maggiore competitività quando la crisi finanziaria globale avrà esaurito i suoi effetti e il commercio internazionale riprenderà a crescere.

Tutti i principali indicatori macroeconomici evidenziano come la fase di grande difficoltà del sistema produttivo italiano, pur avendo radici molto profonde, si sia manifestata con grande nettezza dalla seconda metà degli anni Novanta. A partire da quegli anni, infatti, la bassa crescita si è accompagnata a una costante perdita di quote del mercato internazionale e a una crescita della produttività globale dei fattori inferiore a quella di tutti i principali paesi industrializzati.

La crisi di competitività del sistema produttivo italiano riguarda in particolare il settore industriale che, dopo aver garantito un costante supporto ai processi di sviluppo del paese, appare oggi alla ricerca di una solida collocazione nell’ambito della divisione internazionale del lavoro che sta emergendo dalla accelerazione del processo di globalizzazione e dalla straordinaria crescita di nuovi competitori sui mercati internazionali.

Le nostre produzioni si trovano infatti schiacciate da un lato dalla concorrenza tecnologica del- le imprese dei paesi più avanzati e dall’altro dai bassi costi dei paesi emergenti, con la conseguente perdita di quote del mercato interno e internazionale.

Tale andamento appare attribuibile in primo luogo alle difficoltà del sistema produttivo italiano nell’interpretare e gestire i grandi cambiamenti che hanno caratterizzato questa fase della economia globale.

In particolare l’economia italiana, al pari delle altre grandi economie industrializzate, ha dovuto affrontare tre shock esogeni che hanno modificato le condizioni della competitività interna ed esterna: il nuovo paradigma tecnologico caratterizzato dallo sviluppo delle cosiddette “tecnologie abilitanti” – rappresentate in primo luogo dalle nuove tecnologie nel settore dell’ICT ma anche dalle biotecnologie, dai nuovi materiali e dalla microelettronica – in grado di migliorare la produttività di tutti i settori; la straordinaria accelerazione del processo di globalizzazione che ha portato all’integrazione dei mercati reali e finanziari; l’integrazione europea, culminata con l’adozione dell’euro.

L’esito comune di questi tre grandi processi è stato quello di aumentare la pressione concorrenziale sul nostro sistema produttivo. Il carattere multiforme e flessibile delle nuove tecnologie ha infatti spinto la competizione sulle frontiere più avanzate dell’innovazione, imponendo cambiamenti radicali sia nella gamma dei prodotti offerti sia nelle modalità di produrre e distribuire i beni tradizionali; i paesi emergenti (dalla Cina all’India fino al Brasile) hanno rapidamente guadagnato quote del mercato globale aumentando la propria capacità di penetrazione commerciale su tutti i principali mercati; l’adozione dell’euro ha impedito svalutazioni competitive costringendo le imprese a misurarsi sui fattori reali della competizione: innovazione tecnologica, internazionalizzazione e capacità di vendita.

L’impatto di queste trasformazioni sull’assetto del nostro sistema produttivo è stato particolarmente rilevante e ha indotto un processo di trasformazione molto profondo e dagli esiti non scontati.

A differenza infatti di quanto previsto da molti analisti negli anni Novanta, la componente della specializzazione settoriale, che veniva spesso indicata come il vero punto di debolezza del sistema, ha inciso in maniera meno rilevante sulle perfomance complessive del paese. La vera discriminante è invece rappresentata dalla capacità delle singole imprese, a prescindere dai settori di appartenenza e in alcuni casi anche dalla dimensione aziendale, di avviare un processo di internazionalizzazione e di adottare nuovi paradigmi tecnologici. Tutte le analisi più approfondite consentono infatti di evidenziare una crescente divaricazione delle perfomance aziendali rispetto alle medie nazionali: a fronte di indicatori macroeconomici tutti di segno negativo, il nostro apparato industriale riesce ancora a esprimere alcune punte di eccellenza che hanno consentito, nell’ultimo biennio, di sostenere la ripresa del valore dell’export.

In questo contesto sono andati in crisi i sistemi di piccola impresa che non sono riusciti ad innovare prodotti e modalità di presidio dei mercati e le grandi imprese che non sono riuscite a realizzare i necessari processi di concentrazione industriale, anche su base internazionale, mentre sono emerse da un lato un nucleo forte di medie imprese in grado di coniugare legame con il territorio con fattori di dinamismo, e dall’altro alcune (poche) grandi imprese che sono riuscite a presidiare nicchie ad alta tecnologia.

Inoltre, le prospettive di crescita della nostra industria non possono prescindere dalla straordinaria accelerazione che il tema ambientale sta assumendo nei processi di sviluppo dei paesi avanzati. La “rivoluzione ambientale” delinea la possibilità per tutte le economie industrializzate di ripensare i modelli di produzione, aprendo straordinarie opportunità per nuovi investimenti destinati alla sostenibilità dello sviluppo, alla soddisfazione di nuovi bisogni e alla riqualificazione energetica dei sistemi produttivi. Il potenziale di sviluppo di questo nuovo paradigma industriale è ancora enorme, come evidenziato dal recente Rapporto realizzato dalle Nazioni Unite sui green jobs. Secondo le stime contenute nel Rapporto, il mercato globale dei prodotti e servizi ambientali è destinato a crescere entro il 2020 dagli attuali 1.370 miliardi di dollari a 2.740 miliardi di dollari, generando oltre 15 milioni di nuovi posti di lavoro. Il 50% di questo mercato è costituto dall’efficienza energetica, dal trasporto sostenibile e dalla gestione dei rifiuti.

In questi termini la green economy rappresenta una straordinaria opportunità per ridisegnare il volto dell’industria europea, restituendole un ruolo di traino anche nei confronti dei paesi emergenti.

La forte trasformazione avviata in questi anni dal nostro sistema produttivo e l’emergere prepotente di nuovi bisogni nelle società moderne con- sentono di delineare le traiettorie entro le quali immaginare lo sviluppo del sistema produttivo italiano nei prossimi anni e tratteggiare i nuovi obiettivi delle politiche industriali, che devono essere ripensate sulle esigenze del nuovo secolo.

Le opportunità di crescita per il nostro apparato industriale, anche alla luce della recente crisi finanziaria, appaiono infatti legate non tanto a uno stravolgimento della vocazione industriale del paese, che anzi appare oggi ancora più strategica rispetto a qualche mese fa, quanto a una sua progressiva trasformazione lungo quattro direttrici.

La prima va in direzione di una maggiore integrazione della tradizionale vocazione manifatturiera con lo sviluppo tecnologico e la ricerca scientifica: nel nuovo contesto lo stesso termine industria dovrà essere declinato come capacità di integrare attività di ricerca, capacità di trasformazione manifatturiera e sviluppo di servizi collegati alla produzione. Rispetto a questi temi, come noto, il nostro paese presenta ancora significativi ritardi, connessi al basso livello degli investimenti in ricerca e sviluppo, alla scarsa capacità di integrare e valorizzare all’interno del sistema produttivo risorse umane fortemente qualificate, alla bassa propensione del nostro sistema finanziario a investire in progetti innovativi e all’assenza di un circuito virtuoso tra sistema della ricerca e mondo della produzione.

La seconda riguarda l’evoluzione del modello dei distretti industriali verso efficienti forme di cooperazione industriale tra sistemi di piccola impresa basati su “reti lunghe” in grado di compensare gli svantaggi competitivi derivanti dall’eccessiva frammentazione. Una certa rigidità degli assetti proprietari delle nostre imprese, la debolezza del sistema finanziario e in particolare del venture capital rendono difficile immaginare nel medio periodo forti cambiamenti nella dimensione media delle nostre imprese. In questo contesto di rigidità occorre definire strategie competitive originali e non mutuate da altri modelli industriali, cercando di valorizzare l’enorme potenziale di creatività presente nelle piccole imprese attraverso un rafforzamento dei sistemi relazionali e produttivi anche in una dimensione internazionale. Lo sviluppo delle reti d’impresa può rappresentare la chiave per superare il nanismo industriale senza stravolgere gli assetti competitivi del paese.

La terza direttrice consiste nella creazione di una nuova sinergia tra i settori più tradizionali dei beni di consumo, che rappresentano a oggi la principale specializzazione produttiva del paese, e i produttori di quelle tecnologie abilitanti che possono consentire di ampliare la gamma e migliorare la qualità dei prodotti offerti e rendere più efficienti le filiere produttive e distributive, valorizzando così il contenuto tecnologico del Made in Italy.

Infine, la quarta suggerisce lo sviluppo di nuovi settori produttivi collegati con l’esigenza di garantire la sostenibilità dei processi di crescita. Il nostro paese ha investito molto poco nei settori delle energie rinnovabili, dell’efficienza energetica, della mobilità sostenibile, accumulando un ritardo difficilmente giustificabile alla luce delle caratteristiche geografiche e produttive del paese.

In questo contesto, la nuova politica industriale deve essere collocata in un’ottica di medio periodo cercando di creare le condizioni ottimali per la riqualificazione del sistema produttivo (a partire dai nuovi protagonisti industriali) e per lo sviluppo di nuovi settori. Per far questo occorre in primo luogo restituire alla politica la capacità di effettuare scelte strategiche garantendo alle imprese un quadro di riferimento certo e stabile circa le traiettorie di sviluppo del paese.

L’emergenza ambientale da un lato, e la crescita dell’esigenza di regolazione dei mercati interni e internazionali dall’altro, hanno infatti restituito in questi anni un ampio margine di manovra alla politica, rendendo sempre più interdipendente la capacità dei governi nazionali o sovranazionali di operare scelte di lungo termine rispetto alla possibilità delle imprese di investire in settori nuovi. Non è un caso che i paesi che hanno assunto con maggiore decisione la prospettiva della sostenibilità dello sviluppo come un obiettivo da raggiungere siano anche i paesi entro i quali il sistema delle imprese, nella propria autonomia, ha investito in maniera più massiccia sulla ricerca e sulla innovazione tecnologica.

La crisi finanziaria ha ulteriormente accentuato il valore strategico delle politiche pubbliche di sostegno all’economia superando di fatto il blocco ideologico che ha caratterizzato gli anni Novanta. Gli orientamenti più recenti evidenziano però come le risorse pubbliche debbano essere indirizzate in primo luogo verso la ricerca e l’innovazione tecnologica e guidate da una chiara individuazione circa i principali driver di sviluppo. Il programma del neo presidente Obama prevede di investire nei prossimi anni oltre 700 miliardi di euro con l’obiettivo di raddoppiare il potenziale industriale delle energie alternative, sostenere l’efficienza energetica del settore edilizio, incentivare la ristrutturazione del settore dell’auto in senso ambientale e sviluppare un moderno ed efficiente sistema di infrastrutture.

In questa direzione si sta muovendo anche l’Unione europea, che con i recenti accordi sui cambiamenti climatici ha posto il tema della sostenibilità ambientale al centro delle politiche comunitarie per il prossimo decennio. Le opportunità di sviluppo collegate ai temi ambientali non riguardano esclusivamente la crescita delle fonti energetiche rinnovabili, ma anche altri settori strategici come quello della mobilità (particolarmente significativa è la nuova direttiva europea sulla CO2 nel settore dell’auto) e dell’edilizia e toccano trasversalmente tutti gli altri comparti industriali.

Obiettivi analoghi sono stati riportati nel Recovery plan elaborato dalla Commissione europea nel mese di novembre per rilanciare la competitività dell’Unione dopo la crisi finanziaria.1

L’assenza di scelte chiare e di lungo periodo in settori strategici come quello dell’energia o della mobilità ha rappresentato negli ultimi decenni, in Italia, un vincolo per la creazione delle condizioni per il rilancio, in termini di creazione delle infrastrutture di base, crescita della domanda e orientamento dei percorsi formativi per lo sviluppo di nuovi settori produttivi.

In questo contesto, i cardini della nuova politica industriale per l’Italia devono essere: un concetto di industria esteso alle nuove filiere produttive che integrano manifattura, servizi avanzati e nuove tecnologie; una prospettiva di medio-lungo periodo; l’integrazione delle diverse leve dell’intervento pubblico (domanda pubblica, incentivi alla domanda privata, realizzazione di infrastrutture, incentivi alle imprese) verso un’unica strategia di sviluppo.

Tali prospettive sono state assunte nel nostro paese dal programma Industria 2015, lanciato dal governo Prodi nel 2007 e proseguito dall’attuale governo, che rappresenta il primo tentativo dopo molti anni di impostare una strategia di politica industriale coerente con le esigenze di modernizzazione del paese. Il programma, a differenza di tutte le leggi di incentivazione alle imprese realizzate negli ultimi vent’anni, definisce infatti gli obiettivi di politi- ca industriale lasciando ampio margine alle amministrazioni per tradurre gli obiettivi in azioni concrete e flessibili di sostegno alle attività produttive.

In particolare, gli obiettivi di Industria 2015 riguardano i seguenti aspetti: a) spostare l’asse dell’intervento pubblico di sostegno alle attività produttive verso le attività di ricerca industriale e sviluppo precompetitivo: il rafforzamento degli investimenti in ricerca e sviluppo rappresenta la chiave per garantire la competitività del nostro sistema produttivo nel nuovo contesto di mercato; b) concentrare le risorse su grandi obiettivi di modernizzazione del paese e su pochi progetti in grado di mobilitare ingenti risorse finanziarie evitando interventi a pioggia; il programma individua in particolare cinque aree tecnologiche coerenti con le prospettive descritte in precedenza: efficienza energetica, mobilità sostenibile, nuove tecnologie per il Made in Italy, nuove tecnologie per i beni culturali e turistici e scienza della vita; c) favorire la formazione di filiere industriali che mettano insieme grandi e piccole imprese e centri di ricerca per la realizzazione di nuovi prodotti/servizi; d) pervenire a una maggiore specializzazione degli interventi tra Stato e Regioni al fine di evitare duplicazioni ed effetti di spiazzamento, dando piena ed efficiente attuazione al nuovo Titolo V della Costituzione in materia di politiche di incentivazione alle imprese; e) garantire maggiore certezza nei tempi di finanziamento dei progetti al fine di offrire al sistema delle imprese un quadro di riferimento certo e stabile.

L’esperienza avviata in questi anni con il programma Industria 2015 rappresenta quindi una base, peraltro condivisa dai due schieramenti, sulla quale ricostruire anche nel nostro paese una capacità di intervento selettivo a sostegno delle attività produttive, superando definitivamente la stagione degli interventi a pioggia che si è rivelata fallimentare nello scorso decennio. È evidente che questo passaggio impone da un lato una forte assunzione di responsabilità da parte della politica e dall’altro un innalzamento qualitativo della pubblica amministrazione chiamata a gestire obiettivi complessi. Si tratta quindi di un processo avviato, che va monitorato costantemente accrescendo la capacità di valutazione degli investimenti pubblici ex ante, in itinere ed ex post.


[1] Commissione europea, Communication from the Commission to the European Council. A European Economic Recovery Plan, Commissione europea, Bruxelles, 26 novembre 2008.