I partiti tra "locale" e "nazionale"

Written by Maria Serena Piretti Friday, 08 May 2009 17:59 Print

Come hanno costruito il loro radicamento i partiti che abbiamo conosciuto negli anni della Prima Repubblica, quando
si parlava del Veneto bianco e dell’Emilia rossa? Come mai una rendita di posizione, che aveva retto per circa
cinquant’anni, si è sgretolata così rapidamente? Cercheremo di rispondere a questi interrogativi andando a ricostruire il radicamento di alcuni partiti nei primi anni del Novecento e ripercorrendo il rapporto fra dimensione locale e nazionale che nel tempo li ha legati al territorio.

Tra due anni corre il centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, non molti se pensiamo alla tradizione di altri Stati europei che hanno radici ben più lontane. Eppure, in questo periodo, temporalmente breve, il nostro paese è passato attraverso sistemi politici diversi che vanno dal liberale al repubblicano passando attraverso quello fascista. In ognuna di queste fasi il rapporto Stato-società si è declinato attraverso forze politiche che hanno svolto, secondo dinamiche proprie, una funzione di raccordo. Pur potendo essere riassunte nella definizione idealtipica che vede il partito come l’istituzione che ha come obiettivo di intervenire nella decisione politica e che si pone come canale di regolamentazione dell’obbligazione politica,1 queste forze hanno avuto nel tempo connotazioni difformi e hanno mantenuto con il territorio un rapporto diverso.

I deputati dei cosiddetti partiti storici, la Destra e la Sinistra liberale, come pure le prime formazioni moderne (repubblicani, socialisti, cattolici), percepite al tempo come antisistema, nascono da una forte interazione fra ideologie politiche e radicamento in classi dirigenti territoriali. Sono cioè espressione di un notabilato che aveva nella dimensione locale del collegio uninominale la sua forza e rappresentavano, per l’impianto accentrato del sistema politico liberale, l’unico canale di collegamento della periferia con il centro decisionale. Elettorato ristretto e piccolo collegio facevano sì che con una manciata di voti si potesse essere eletti: nel 1861 bastarono 89 voti al candidato Raffaele Luciano per essere eletto nel collegio di Manoppello in Abruzzo; nel 1865 nel secondo collegio di Verona, Giovanni Battista Montanari conquistò il seggio con appena 67 voti. Va anche detto che, soprattutto nei primi anni del regno, molti erano i collegi su cui non si registrava una competizione e il candidato, potremmo dire, era uncontested.2 La dimensione locale faceva sì, infatti, che il dibattito politico entrasse nel vivo all’avvicinarsi della convocazione dei comizi, ed era in questa fase che il notabile attivava la sua rete di conoscenze, canale funzionale alla mobilitazione dell’elettorato. 3 Una volta eletto, suo era il compito di incanalare, non senza difficoltà, gli interessi del territorio in un più vasto quadro di politica nazionale.4

Anche se il 1882, la data della prima riforma che cambiò i criteri di accesso al voto e introdusse il collegio plurinominale, rappresenta la prima spinta volta a conferire alle élite territoriali un collegamento nazionale all’interno sia dell’area moderata che dell’area riformista, il dato strutturale resta sostanzialmente quello di una classe politica che è in larga parte espressione diretta di interessi locali che cercano di garantirsi, attraverso l’elezione del notabile gradito al potenziale futuro governo, uno stabile rapporto di tutela del territorio. Considerato il basso livello di turn over5 e la tendenza dei candidati a correre su collegi che sono anche la loro terra di origine,6 in molti casi l’elezione avviene all’interno di quello che può essere definito un “feudo elettorale”. Il territorio ha dunque una valenza alta nel sistema rappresentativo di questi anni: la relazione che lega il notabile al territorio è cioè una rete che va ricondotta ai rapporti di patronage che, peraltro, caratterizzano la politica ottocentesca non solo nel contesto italiano.

È solo con le prime elezioni del Novecento, dopo che il sodalizio dell’Estrema viene meno e socialisti, repubblicani e radicali incominciano a essere percepiti dall’opinione pubblica come candidati di partiti con programmi propri,7 che è possibile individuare in certe aree la presenza stabile di alcune forze politiche.

Se guardiamo alle elezioni che vanno dal 1900 al 1913 possiamo vedere come già in questi anni alcune aree territoriali siano sede privilegiata proprio dei partiti antisistema.

I socialisti sono prevalentemente radicati in Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte e Toscana; i repubblicani nelle regioni della costa adriatica, con una particolare concentrazione in Romagna; il movimento cattolico in Lombardia e Veneto;8 mentre lo stesso non può dirsi per i radicali, che risultano presenti in più regioni, sia del Centro-Nord che del Centro- Sud, con una persistente tendenza alla mobilità.9

Ciò che porta ad una localizzazione spiccata di queste forze politiche in aree che, come si vedrà, rimarranno stabili anche negli anni a venire è il costituirsi in queste terre, già nel corso degli ultimi venti anni dell’Ottocento, di forme associative di tipo ricreativo e assistenziale, società di mutuo soccorso, cooperative. Il dato significativo è tuttavia che, mentre nel Lombardo-Veneto queste strutture sono riconducibili alla rete organizzativa che ha come punto di riferimento la Chiesa e crescono prevalentemente all’interno del movimento cattolico, nelle pianure dell’Emilia e nell’area che da Imola si estende verso Ravenna sono le lotte bracciantili a fare da comune denominatore ad un’organizzazione solidaristica che si incanalerà all’interno della rete creata, in modo prima embrionale e via via sempre più strutturato, dal Partito socialista e che si concretizzerà nelle leghe rosse, nelle case del popolo e nelle cooperative di braccianti.

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Ugualmente, la Romagna, la terra dove ancora nel 1872 veniva fondata la Consociazione repubblicana delle società popolari,13 aveva dimostrato, fin dagli anni successivi all’unificazione, la precoce vocazione «a immettere larghe porzioni di ambienti popolari nel circuito della partecipazione politica (...) grazie alla politicizzazione dell’associazionismo ricreativo e di mutuo soccorso»:14 questa tradizione diventerà nel tempo una rendita di posizione.

Le elezioni del 1919, quelle in cui per la prima volta la competizione elettorale si gioca tutta sui partiti, confermano in larga parte la vocazione politica delle regioni del Centro-Nord.

Il Partito popolare, fondato nel gennaio del 1919 da don Luigi Sturzo, ottiene infatti la sua massima legittimazione nelle stesse aree in cui i cattolici, grazie alla loro poderosa rete organizzativa, avevano ottenuto le iniziali affermazioni nelle prime elezioni del Novecento: in Veneto e in Lombardia viene eletto complessivamente il 66% della rappresentanza popolare.

Ugualmente si conferma bacino preferenziale del Partito socialista tutta l’area del Centro-Nord, teatro ancora nei primi anni del Novecento delle lotte bracciantili. Il collegio di Ferrara-Rovigo15 registra una percentuale di voto socialista pari al 73%; nel collegio di Bologna, che incorpora l’area imolese, il voto socialista arriva alla soglia del 70%; i collegi posti lungo il confine lombardo-piemontese (Pavia, Mantova e Novara) hanno percentuali che vanno dal 60 al 68%. Percentuali di voto superiori al 50% si registrano nei collegi di Milano, Parma-Modena-Piacenza- Reggio Emilia, Torino e Firenze.

L’area compresa tra la Romagna e le Marche mantiene la sua connotazione di maggiore insediamento del voto repubblicano: nel collegio di Ravenna- Forlì i repubblicani ottengono il 27%, in quello di Ancona-Pesaro-Urbino il 15%.

In queste elezioni i partiti, che si pongono come strutture ponte tra lo Stato e la società, giocano la loro doppia dimensione locale e nazionale. Socialisti e popolari, pur avendo le radici in aree territoriali definite, rivendicano la loro dimensione nazionale presentando liste in quasi tutti i collegi16 e utilizzando in tutti i collegi lo stesso simbolo identificativo del partito: il PPI si presenta con lo scudo crociato e il PSU con la falce e il martello dentro una corona di alloro e sullo sfondo i raggi del sole nascente.

Dopo gli anni bui del fascismo, dalla ricostruzione fino al boom economico, la carta geopolitica dell’Italia mantiene forti analogie con quegli insediamenti politico-territoriali che l’avevano caratterizzata nei primi due decenni del Novecento, non ultimo perché è la stessa struttura dei partiti che per certi versi mantiene quell’impianto federale con cui si era costituita agli inizi.17 Per certi versi potremmo dire che la carta elettorale del 1948 ha tante assonanze con quella del 1919: il Nord-Est è “bianco”, mentre il Centro è in larga parte “rosso”.18 Tuttavia non cambia la natura di questo radicamento che ha nelle caratteristiche culturali, nella tradizione e nell’identità del territorio la ragione della sua persistenza.19 Decolla il sistema dei partiti, e la loro valenza organizzativa acquista una chiara dimensione nazionale, ma la diversa matrice del voto cattolico e di quello socialista si ripropone ancora negli anni della Repubblica. Scrive a questo proposito Ilvo Diamanti: «La DC nelle zone bianche si presenta come un partito nei confronti del quale la società esprime adesione senza appartenenza. Gode di un ampio e diffuso consenso “mediato” dall’associazionismo religioso e dagli interessi ».20 Nelle zone rosse, dove nel dopoguerra domina – all’interno della sinistra – il PCI, il partito è invece parte integrante del territorio, visto il rapporto biunivoco che si instaura tra l’associazionismo e le strutture stesse del partito.

Il diverso rapporto con il territorio spiega anche la trasformazione che nel corso della Repubblica si registra nelle aree a prevalente insediamento democristiano o comunista. In Emilia Romagna il Fronte21 ottiene nel 1948 un consenso pari al 51,3%,22 nelle elezioni del 1992 il PDS23 viene scelto dal 32,5% degli elettori e il PSI dal 10,6%, confermando la forte identità politica di quest’area. Viceversa, mentre nel 1948 in Veneto e in Lombardia il voto per la DC raggiungeva rispettivamente il 60,5% e il 52,5%, nel 1992 la DC scende nel Veneto a quota 31,7% e in Lombardia a 24,1%,24 confermando il trend discendente che il voto democristiano aveva registrato in queste aree dal 1948 in avanti. Nel 1992 si manifesta poi in modo dirompente il fenomeno delle Leghe.25 Tra tutte spicca la Lega lombarda che, con un consenso pari all’8,7%, diventa il quarto partito della Camera dei deputati. Le aree di legittimazione della Lega sono in larga parte coincidenti con quelle dove il voto democristiano ha perso buona parte del suo elettorato.

È questa la punta di un iceberg che è venuto crescendo nel tempo: nelle aree dove si votava DC senza essere democristiani, viene meno «il mondo del localismo economico e associativo, che non si riconosce più nella Democrazia Cristiana, che vede nello Stato un vincolo e un avversario dello sviluppo».26

Il fenomeno delle Leghe pone sul tavolo in modo forte il problema locale/nazionale: mentre i partiti avevano fino a questo momento svolto una funzione di mediazione attraverso la quale gli interessi locali venivano ricondotti all’interno di un quadro nazionale, che diventava il quadro di riferimento privilegiato, ora le Leghe rivendicano il primato dell’interesse locale ottenendo proprio su questa issue la legittimazione del loro elettorato.

Con il 1992 si chiude un’epoca. La crisi è determinata, da un lato, da una corruzione latente, che diventa sempre più manifesta con la messa in stato d’accusa del sistema politico da parte della magistratura, e, dall’altro, dalla modifica del sistema elettorale, che riporta, con l’introduzione del maggioritario come criterio prevalente per la selezione della classe politica, la scelta delle persone prima di quella dei partiti. L’intrecciarsi di questi fenomeni fa sì che le elezioni del 1994 si aprano su uno scenario radicalmente diverso. All’interno della sinistra è in atto un processo di progressiva negazione delle proprie radici e, allo stesso tempo, di rigenerazione. In realtà si cercano nuovi canali di legittimazione presso un elettorato che, rotto il rapporto identitario che lo legava alla filiera socialista/ comunista, diventa ora molto più volatile. D’altro canto la “balena bianca” partorisce piccoli pesciolini che nuotano verso altri lidi allontanandosi sempre più dalle radici della loro origine.

Tutto questo avviene all’interno di un processo che vede la progressiva dissoluzione delle culture locali sotto la pressione dei grandi mezzi di comunicazione: 27 dal momento che ora è la “piazza mediatica”, il luogo dove si formano le identità e le aggregazioni, si verifica un allentamento del legame partito-territorio. Non è dunque un caso che i partiti che oggi occupano la scena politica, dal PDL al PD, dall’UDC all’IDV, non nascano da un legame privilegiato con il territorio, ma da operazioni di ingegneria politica, decise nei luoghi nazionali della politica: dal Parlamento alle centrali di partito, dai giornali alla TV ecc.

L’unico partito che si discosta da questo trend è, come si ricordava in precedenza, la Lega che, nata sulla spinta di interessi locali da tutelare, oggi cresce proprio su quella base, e dimostra la capacità di attrarre nel suo modello anche altre componenti territoriali come è il caso dell’autonomismo del Sud.

Insomma l’Italia è prosperata in passato, almeno per quanto riguarda l’organizzazione della politica, grazie alla volontà di saldare insieme la capacità dei territori di esprimere classi dirigenti con la presenza di Weltanschauung unificanti. Oggi siamo invece di fronte a due modelli di partito che si vanno sempre più imponendo: da un lato, il partito a radicamento locale che ha nella tutela degli interessi del territorio la sua ragione d’essere; dall’altro, il “partito degli elettori” che proietta la garanzia degli interessi fuori dagli angusti confini del localismo, secondo logiche, frutto di vecchi stereotipi, di ceti produttori e parassiti.


[1] P. Pombeni, Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea, Il Mulino, Bologna 1994, pp. 30-31.

[2] M. S. Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 35-36.

[3] P. L. Ballini, Le “regole del gioco”: dai banchetti elettorali alle campagne disciplinate, in P. L. Ballini, M. Ridolfi (a cura di), Storia delle campagne elettorali in Italia, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 4.

[4] Dal 1861 al 1882 – anno in cui cambia la legge elettorale – il diritto di voto, che veniva riconosciuto solo agli uomini, si acquisiva, teoricamente se alfabetizzati, grazie al censo, ossia se si pagavano almeno 40 lire di imposta. Questo faceva sì che il diritto di voto spettasse al 2% della popolazione e venisse in realtà esercitato da circa il 50% degli aventi diritto.

[5] Dal 1895 al 1909 il livello di turn over ha riguardato sempre una percentuale di deputati compresa tra il 20 e il 29%. Solo nel 1913, prima, con le prime elezioni a suffragio quasi universale maschile, e nel 1919, poi, con le prime elezioni svolte con il sistema proporzionale si ha un livello di turn over più alto: 33% nel 1913 e 65% nel 1919.

[6] Se nel 1882 il 61% degli eletti ha i natali all’interno della stessa provincia in cui vince il seggio, il dato non subisce radicali variazioni neppure nel 1913, dove la percentuale scende al 56% e nel 1919 dove riguarda il 54%.

[7] È a partire dalle elezioni del 1895 che sulla stampa a tiratura nazionale, presentando i candidati, si incominciano a distinguere i socialisti dagli altri candidati dell’Estrema; con le elezioni del 1900, poi, il termine non viene più usato ma si indicano distintamente i candidati repubblicani, radicali e socialisti.

[8] Si fa qui riferimento al movimento cattolico che aveva assunto una chiara dimensione politica e che era impegnato nelle amministrazioni comunali e provinciali. Va ricordato infatti che, a causa del non expedit, i cattolici non avrebbero dovuto partecipare né come elettorato passivo, né come elettorato attivo nelle competizioni politiche.

[9] Come si può vedere dalla Tabella 1, l’insediamento dei radicali non sembra avere, salvo che per la Lombardia, un carattere di continuità.

[10] Nella tabella sono riportate le regioni nelle quali i partiti considerati ottengono una legittimazione superiore al 10%.

[11] I cattolici partecipano ufficialmente per la prima volta nel 1904 alle elezioni politiche, dopo aver ottenuto un muto assenso da parte del pontefice.

[12] I dati dei socialisti del 1913 sono riferiti al partito socialista ufficiale.

[13] Sulla precoce vocazione politica delle terre di Romagna si veda Ridolfi, Il partito della Repubblica, Franco Angeli, Milano 1989.

[14] R. Balzani, La Romagna, Il Mulino, Bologna 2001, p. 96.

[15] Nel 1919 queste due città costituivano un unico collegio elettorale.

[16] Il PPI non presenta liste nei collegi di Chieti, Potenza e Teramo; il PSU non le presenta invece nei collegi di Avellino, Campobasso-Benevento, Cosenza.

[17] È questo il caso, per lo meno fino agli anni Sessanta, della DC e per certi versi del PSI. Lo è molto meno per il PCI poiché è la stessa struttura ideologica del partito a non permettere una costruzione federale del suo sistema organizzativo.

[18] Alcuni dati sono particolarmente significativi. Le circoscrizioni di Brescia e Bergamo e quella di Verona- Padova-Vicenza-Rovigo sono quelle dove il voto democristiano arriva a sfiorare il 67% del consenso; viceversa le due circoscrizioni dell’Emilia Romagna (Bologna-Ferrara- Ravenna-Forlì e Parma-Modena-Reggio Emilia-Piacenza) registrano percentuali superiori al 50%.

[19] I. Diamanti, Bianco, rosso, verde e... azzurro. Mappe e colori dell’Italia politica, Il Mulino, Bologna 2003, pp. 15-41.

[20] Ivi, p. 39.

[21] Nelle elezioni del 1948 PCI e PSI corrono insieme con la sigla Fronte democratico popolare per la libertà, la pace, il lavoro.

[22] Nel 1953 quando PCI e PSI corrono separati, il primo ottiene in Emilia Romagna il 36,7% dei consensi, mentre il PSI il 14,4%.

[23] Il PCI, al Congresso di Rimini del 3 febbraio 1991, delibera il suo scioglimento e contestualmente la formazione di un nuovo partito che prende il nome di Partito Democratico della Sinistra.

[24] P. Corbetta, M. S. Piretti, Atlante storico-elettorale d’Italia 1861- 2008, Zanichelli, Bologna 2009.

[25] Si presentano in queste elezioni sei gruppi a chiara connotazione territoriale: Lega lombarda, Lega autonomia veneta, Lega alpina lombarda, Lega alpina piemontese, Lega d’azione meridionale, Vallée d’Aoste.

[26] Diamanti, op. cit., p. 63.

[27] La TV diventa per eccellenza lo strumento di comunicazione di massa mentre perde progressivamente terreno la rete di quotidiani locali.