G8: l'agenda riformista per le democrazie delle classi medie

Written by Stefano Fassina Thursday, 02 July 2009 17:44 Print

Presupposto fondamentale per uscire dalla crisi in corso è la ridefinizione della governance globale, sia in termini di politics che di policies. Su entrambi questi fronti il G8 può giocare un ruolo importante, da un lato avviando un processo che porti al suo stesso superamento in favore del G20, dall’altro operando nel senso di un riequilibrio macroeconomico globale fondato su una migliore perequazione economica e sociale a livello nazionale.

Il segnale più incoraggiante di superamento sostenibile della profonda crisi economica e sociale in corso e di costruzione di un ordine globale coerente con l’impianto geoeconomico e geopolitico del XXI secolo è arrivato a metà maggio dalla Commissione elettorale di Nuova Delhi. A conclusione di una tornata elettorale di un mese, 417 milioni di cittadini indiani (il 58% degli aventi diritto) hanno consegnato un verdetto inequivocabile: avanti con le politiche di integrazione dei mercati globali e maggiore condivisione interna dei frutti dello sviluppo economico e sociale. La nettissima vittoria del Congress Party e della coalizione raccolta intorno ad esso rivela, senza dubbio, un ampio sostegno al programma di sviluppo inclusivo del paese, di redistribuzione di opportunità, diritti e reddito. In sintesi, l’India ha rifiutato la prospettiva nazionalista, integralista ed esclusivista del Bharatiya Janata Party (BJP, il principale partito indù) e scelto il percorso, indubbiamente impervio ma straordinariamente ricco di potenzialità, di costruzione di una democrazia delle classi medie, la più grande democrazia delle classi medie del mondo.

La svolta indiana e quella degli Stati Uniti del presidente Obama indicano l’arretramento del fronte protezionista, populista, nazionalista, unilateralista e la presenza di ampie e forti constituencies politiche disponibili, innanzitutto sul piano culturale, a spingere politics e policies globali verso traguardi di regolazione multilaterale e sostenibile dei mercati integrati, condizione necessaria per ricostruire i presupposti delle democrazie delle classi medie e per uscire dalla crisi.

Perché la ridefinizione della governance globale, sia in termini di politics che di policies, è presupposto necessario per uscire dalla crisi? Per rispondere alla domanda dobbiamo tornare all’analisi della crisi.1 La crisi in corso non è un temporaneo deragliamento lungo la traiettoria percorsa nell’ultimo quarto di secolo.

L’impossibilità di ritornare al passato dipende dal carattere intrinseco della globalizzazione liberista. L’equilibrio rotto dalla crisi era, infatti, ingiusto, instabile, insostenibile, sia in termini economici che sociali e ambientali, in quanto retto dal consumatore degli Stati Uniti e delle economie di matrice anglosassone che trainava, a debito, la domanda globale.

Per trainare le esportazioni del resto del mondo, il debito delle famiglie degli Stati Uniti esplodeva. Il lavoratore americano full time e scolarizzato (ossia le classi medie) comprava a debito anche perché il suo reddito da lavoro rimaneva fermo in termini reali o si riduceva, mentre salivano i costi dell’assicurazione sanitaria e pensionistica, del college per i figli, delle abitazioni.2 La degenerazione distributiva coinvolgeva le classi medie, non le frange più deboli dei lavoratori. Questo è il punto politico. Per illustrarlo basta un solo dato. Dal 1947 al 1979 lo 0,1% dei lavoratori meglio pagati percepiva, in media, un reddito da lavoro pari a venti volte il reddito del novantesimo percentile. In altri termini, fino alla fine degli anni Settanta, lo 0,1% dei lavoratori posto al vertice della scala delle retribuzioni percepiva un reddito da lavoro pari a venti volte quello delle fasce più benestanti delle classi medie. Nel 2006, tale rapporto era salito a settantasette.

La vicenda delle classi medie statunitensi è stata la più segnata dal paradigma del fondamentalismo di mercato, ma quasi tutti i paesi sviluppati, in particolare i paesi anglosassoni, hanno avuto storie simili. In un rapporto pubblicato nell’ottobre scorso dal significativo titolo “Growing Unequal?”, l’OCSE documenta il drastico peggioramento della distribuzione del reddito avvenuto quasi ovunque nelle economie mature.3 In particolare, il rapporto rileva come tale peggioramento abbia radici nel mercato del lavoro, ossia dipenda soltanto in minima parte dall’indebolimento della progressività dei sistemi fiscali o di welfare e come, invece, nasca dai rapporti di forza a base della distribuzione primaria del reddito tra capitale e lavoro: l’indice di disuguaglianza relativo ai redditi a monte dei prelievi e dei trasferimenti fiscali e sociali è peggiorato radicalmente in Occidente e in Giappone. Si tratta di un’informazione rilevante, poiché individuare correttamente la fonte della sempre più intensa divergenza nella distribuzione del reddito è decisivo per definire le politiche correttive.

La crescita a debito non sarebbe potuta sopravvivere a lungo se fosse stata accompagnata soltanto dalla politica monetaria iper-espansiva della Federal Reserve. Il meccanismo ha retto grazie al comportamento delle classi medie delle economie emergenti. Il prestito al consumatore americano veniva dall’eccezionale risparmio accumulato dalla middle class emergente delle metropoli asiatiche. Un flusso di risparmio che si spostava in senso opposto a quanto è sempre avvenuto nella storia: dalle economie più povere alle economie più ricche. Dalla Cina, dall’India, dal Sud-Est asiatico, dai paesi esportatori di petrolio agli Stati Uniti e alle altre principali economie di stampo anglosassone. Un risparmio accumulato contro i rischi sociali da middle classes insicure del loro status, sprovviste del welfare roosveltiano o socialdemocratico tipico della fase di sviluppo delle democrazie occidentali e del Giappone. Un risparmio canalizzato dalle autorità monetarie verso i titoli del Tesoro e le obbligazioni bancarie statunitensi al fine di tenere artificialmente sopravvalutato il dollaro e di non minare il potere d’acquisto del consumatore americano. E, al tempo stesso, allo scopo di accumulare riserve in valuta, l’arsenale atomico del XXI secolo, per minacciare e proteggersi dall’attacco speculativo dei mercati, potente forza di cambiamento politico e sociale nel 1997 nel Sud-Est dell’Asia.

Insomma, le degenerazioni della finanza coprivano e rendevano politicamente, oltre che economicamente, sostenibile l’impoverimento relativo e assoluto delle classi medie delle economie mature. Il ciclo conservatore sarebbe stato certamente meno lungo senza la finanza e il credito facile. Pertanto, il termine “crisi” è riduttivo per descrivere quanto accade. Il termine corretto è “transizione”: transizione verso un ordine diverso da quello precedente alla crisi. Ovviamente, non siamo di fronte a nessun crollo dell’impero americano, profezia ricorrente nelle fasi di crisi, ma sempre smentita dai fatti. E nemmeno siamo al crollo del capitalismo (anche perché non ne esiste soltanto uno, tanto meno immodificabile). Semplicemente, viviamo il ridimensionamento dell’egemonia culturale, del primato politico e della centralità economica degli Stati Uniti. In altri termini, non possiamo più fare affidamento sul consumatore anglosassone, sempre più indebitato, per trainare l’economia globale, nel senso sia della crescita delle realtà mature sia dello sviluppo delle economie emergenti.4

Per uscire dalla crisi dobbiamo puntare a dare forma politico-istituzionale ai mutamenti intervenuti nell’ultimo quarto di secolo. Dobbiamo trovare un equilibrio sostenibile, inedito. Non dobbiamo tentare il ritorno indietro, che oltretutto sarebbe impossibile. Dobbiamo pensare a come ricostruire le condizioni politiche e istituzionali per rifondare le democrazie delle classi medie, oltre i welfare State, in un contesto economico globale. Ora siamo ad un bivio: o un patto economico, sociale e geopolitico, analogo per portata al compromesso fondativo elaborato a cavallo della seconda guerra mondiale dalle democrazie negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone; 5 oppure il ripiegamento protezionistico, nazionalista e corporativo verso democrazie elitarie profondamente diseguali e inevitabilmente populiste. Quest’ultimo rappresenta il sentiero facile, da tanti già intrapreso, nonostante la retorica pro-global.

In tale contesto, che cosa dovrebbe fare il G8 previsto a L’Aquila a luglio? Innanzitutto, definire la politics: tracciare una road map per “sciogliersi” nel G20, o, meglio ancora, in un G18, in conseguenza dell’unificazione delle rappresentanze dei paesi dell’area euro in esso presenti, nello scenario auspicabile – ma tutt’altro che scontato data la miopia delle leadership europee – di avvio di una cooperazione rafforzata tra gli Stati che hanno adottato la moneta unica. Il G20, o in futuro il G18, dovrebbe diventare il fulcro della regolazione globale in campo economico e sociale, in stretta relazione con le Nazioni Unite. Il G8 non ha più senso come sede deliberativa, come non aveva senso un Financial Stability Forum limitato alle banche centrali degli otto grandi e, pertanto, sostituito a Londra dal Financial Stability Board composto dai venti grandi. Nelle sue funzioni attuali, il G8 non ha senso, non solo e non tanto perché rappresenta soltanto il 48% del PIL globale (i paesi che formano il G7 coprono il 44,6%), ma soprattutto perché il mondo globale è interdipendente e la transizione si compie solo moltiplicando i motori di traino della crescita e dello sviluppo, ossia spostando in tutte le principali economie l’equilibrio tra domanda interna ed export.6

In tale contesto, il G8 può sopravvivere soltanto come luogo di coordinamento delle posizioni da portare al G20.7 Le leadership europee, in particolare quella italiana – presidente di turno del gruppo, ma soprattutto espressione del più fragile dei “grandi” –, avrebbero dovuto porre il punto al centro dell’agenda. I ritardi pesano, e in assenza di iniziativa o, peggio, in presenza di una resistenza passiva, le leadership europee rischiano di favorire la strutturazione di un G2 di fatto, costituito da Stati Uniti e Cina. L’Europa manterrebbe sempre rilevanza economica, quale fonte di oltre un quinto del PIL globale e mercato di mezzo miliardo di consumatori; tuttavia, sarebbe subalterna sul piano politico. Quello descritto è però uno scenario evitabile. L’Unione europea ha, sul terreno economico e sociale, assets di straordinaria potenzialità per giocare la partita in corso e segnare la transizione: le sue istituzioni di welfare e l’euro. Ha, inoltre, un eccezionale e distintivo asset storico-culturale, accumulato attraverso una serie interminabile di conflitti sanguinosi culminati con due devastanti guerre mondiali nella prima metà del Novecento: l’Europa o almeno le componenti finora egemoniche delle sue variegate culture politiche (socialista, liberale, democratico-cristiana) hanno conosciuto i limiti dello Stato nazionale protezionista, monoetnico, a presunta sovranità assoluta. 8 La lezione della storia ha portato all’Unione europea la forma più avanzata di governo multilaterale e democratico della globalizzazione, esempio per altre unioni regionali in Africa, in America Latina, in Asia, cardini di un multilateralismo efficace. Tuttavia, nella fase in corso, l’UE gioca di rimessa. Le sue leadership non provano neppure a convincere l’opinione pubblica interna che l’interesse nazionale si può perseguire, in mercati aperti, soltanto condividendo sovranità e non sbandierando vessilli sempre più sbiaditi in termini di efficacia. Anche le forze politiche appartenenti alla famiglia socialista faticano a comprendere la portata della fase in corso e a lanciare la sfida riformista al livello adeguato.

Oltre a definire la road map per superarsi, il G8 deve convincersi della necessità di ridefinire i rapporti di forza all’interno delle istituzioni di Bretton Woods, per restituire ad esse legittimità politica ed efficacia economica e definire le condizioni macroeconomiche per una domanda aggregata multipolare, sostenibile sul piano economico, sociale e ambientale. Nel Fondo monetario internazionale e nella Banca mondiale è essenziale accrescere il potere delle economie emergenti e, necessariamente, ridurre lo spazio delle economie sviluppate, in particolare dell’Europa. Una revisione delle quote da concludersi entro il 2011 è stata prevista nel comunicato del G20 di Londra. Tuttavia, durante gli Spring Meetings di Washington dell’aprile scorso non si sono fatti passi avanti proprio a causa delle resistenze di alcuni ministri europei. È quindi urgente dare input politici chiari, forti e univoci alle riforme.

Le conclusioni della Commissione Manuel, istituita presso il Fondo monetario internazionale sotto la guida dell’ex ministro delle Finanze del Sudafrica, offrono indicazioni utili. I riformisti europei dovrebbero spingere affinché la riforma vada avanti e sia più ambiziosa. È una posizione difficile da assumere, perché implica la riduzione della presenza europea nel Fondo e nella Banca mondiale. Oggi, i paesi dell’Unione europea, produttori del 22% del PIL mondiale, detengono il 32% delle quote. I numeri relativi ai paesi dell’eurogruppo sono altrettanto sbilanciati (16% la quota di PIL globale, 23% il peso nelle istituzioni di Bretton Woods). Brasile, Russia, India e Cina, fonti di una quota di prodotto globale pari a quella dell’Unione europea, insieme non arrivano al 9,6%. Per evitare l’indebolimento politico, i paesi dell’UE o, almeno, quelli dell’area euro dovrebbero accompagnare la diminuzione delle rispettive quote all’unificazione delle loro rappresentanze. La rappresentanza unificata farebbe dell’area euro il primo azionista di Fondo monetario e Banca mondiale.

È, inoltre, compito del G8 esplicitare e istruire per il G20 (o, prima o poi, G18) il graduale passaggio ad un sistema monetario globale sostenibile in sostituzione del precario dominio del dollaro. L’obiettivo riproposto da ultimo dal governatore della Banca popolare cinese per una moneta di riserva globale sganciata da legami con gli Stati sovrani, sul modello del bancor proposto da Keynes nel 1944, è pienamente condivisibile.9 Il G20 di Londra, anche su tale nodo di primaria rilevanza geopolitica, ha compiuto un passo decisivo: i venti, oltre a dotarlo di ulteriori 500 miliardi di dollari, hanno autorizzato il Fondo a finanziarsi direttamente sul mercato e a creare moneta globale sovranazionale (gli SDRs, Special Drawing Rights) per 250 miliardi di dollari, ossia quasi dieci volte l’ammontare creato dal 1969, quando la soluzione fu messa in campo per prevenire, senza successo, la fine del gold standard.

Il superamento del G8 e il consolidamento del G20, la redistribuzione di poteri nelle istituzioni di Bretton Woods e la stabilizzazione del sistema monetario globale attraverso il potenziamento del Fondo monetario e, infine, l’inevitabile ridimensionamento del dollaro sono condizioni necessarie per creare una domanda globale equilibrata. Solo così, le immense risorse in valuta accumulate dalle economie emergenti, Cina e India in particolare, potranno essere liberate per spostare gradualmente l’asse del loro sviluppo dalle esportazioni alla domanda interna. Solo così, le classi medie statunitensi e delle economie di stampo anglosassone potranno essere affiancate dalle classi medie delle economie emergenti per riequilibrare una domanda globale orientata verso la green economy. Solo così, per guardare a noi, il Made in Italy potrà tornare a crescere. Solo così, il Mediterraneo potrà ritornare al centro dei flussi commerciali e offrire opportunità di sviluppo al Mezzogiorno, grande questione nazionale rimossa.

I compiti del G8, però, vanno oltre la politics. Per ricostruire le condizioni per lo sviluppo delle democrazie delle classi medie altrettanto rilevanti solo le policies. Il G8 dovrebbe riconoscere la rilevanza della distribuzione del reddito al fine di costruire un ordine sostenibile. Insieme a lord Keynes, domatore riabilitato dell’instabilità intrinseca del capitalismo e architetto ritrovato del bancor, va recuperato l’altro grande lord liberale britannico suo contemporaneo: lord Beveridge, l’ideatore del welfare State moderno. 10 Il riequilibrio macroeconomico globale si può rifondare, infatti, soltanto su un ribilanciamento economico e sociale a livello nazionale. Per riorientare l’asse tra domanda interna ed esportazioni devono aumentare i redditi diretti e indiretti (interventi di welfare) da lavoro delle classi medie, tanto delle economie mature, quanto delle economie emergenti. 11 Lord Keynes e lord Beveridge erano e sono in sinergica complementarietà. Non è una forzatura sottolinearlo; si tratta semplicemente di quanto avviene oggi. Stati Uniti, Cina e India, oltre che nella riscrittura delle regole per la governance globale, sono impegnate anche nella costruzione di capitoli importanti dei welfare nazionali lungo i principi guida contenuti nel Rapporto Beveridge: miglioramento della scuola pubblica, copertura universale dell’assicurazione sanitaria attraverso l’intervento pubblico a correzione dei fallimenti del mercato, potenziamento dell’assicurazione pubblica per il reddito nei periodi di disoccupazione, irrobustimento dei sistemi pensionistici pubblici. Era il 2005, ma sembrano trascorsi secoli da quando il presidente Bush tentava, all’inizio del suo secondo mandato, di superare le resistenze del Partito democratico e dei sindacati per estendere l’ownership society e il compassionate conservatism al campo della Social Security (il sistema pensionistico pubblico degli Stati Uniti) e dell’assicurazione contro la disoccupazione. In tale contesto, è ancora più evidente la portata ideologica del Libro Bianco del ministro Sacconi, nel quale si insiste sulla privatizzazione e capitalizzazione effettiva dell’assicurazione pensionistica e sanitaria per i nuclei forti del mercato del lavoro e sul welfare residuale e povero per gli altri.12

La rilevanza, oltre a lord Keynes, di lord Beveridge per la transizione verso un ordine globale sostenibile rende evidente l’utilità di un’adeguata agenda globale per le organizzazioni dei lavoratori, complementare all’agenda del G8. Si tratta, innanzitutto, di promuovere un’inversione culturale. Nell’ordine pre-crisi, i sindacati erano trattati – anche da tanti cosiddetti riformisti, aiutati dall’arroccamento di una parte dei diretti interessati –, come intralcio all’efficienza e alla crescita. L’ideologia dominante leggeva il sindacato come residuo del mondo fordista, arnese inservibile nell’universo dell’information and communication technology, della società degli individui. La crisi in corso ha intaccato tale lettura. I dati OCSE richiamati precedentemente indicano che è necessario affrontare la fonte primaria del peggioramento della distribuzione del reddito: il potere dei lavoratori nella sua distribuzione funzionale, nell’ambito della negoziazione contrattuale. Quindi, l’organizzazione collettiva del lavoro, tanto nelle economie mature, quanto nelle economie emergenti. Non si tratta di ritornare alla mitologica fabbrica fordista. I sindacati, che pure devono rinnovarsi radicalmente, sono insostituibili, non solo per tutelare le condizioni economiche e sociali dei lavoratori e delle lavoratrici e, quindi, per sostenere la domanda aggregata e la crescita, ma anche per garantire la qualità della democrazia. Non ci può essere democrazia delle classi medie senza sindacati forti e rappresentativi. Non è un caso che il presidente Obama abbia costituito una Task Force on Middle Class Working Fami - lies ponendo tra i suoi obiettivi la ri-regolazione del mercato del lavoro e dei diritti sindacali (labor stand - ard). Come non fu un caso che, per realizzare il New Deal, il presidente Roosevelt firmò nel 1935 il Wagner Act, ossia una legge federale per fissare il salario minimo e l’orario di lavoro, promuovere e proteggere il diritto dei lavoratori allo sciopero, all’organizzazione nei luoghi di lavoro, alla contrattazione collettiva. Ovviamente, la rivitalizzazione delle organizzazioni dei lavoratori e delle lavoratrici non può avvenire per legge. Deve avvenire a partire dai luoghi di lavoro, sul territorio, nelle mille e disarticolate forme dell’attività produttiva. Una sfida formidabile che deve stare a cuore alle forze politiche riformiste tanto quanto alle organizzazioni del lavoro.

L’agenda delle policies rilevanti ai fini della ricostruzione di un ordine globale democratico ha altri punti fondamentali. In breve: l’applicazione di standard ambientali e sociali ai commerci globali, attraverso la revisione delle clausole del WTO; la positiva conclusione del vertice di Copenaghen sull’ambiente e il potenziamento dell’ILO (International Labour Organization), in un difficilissimo equilibrio tra diritti da tutelare e barriere protezionistiche surrettizie da evitare; il controllo dei movimenti di capitale di brevissimo e breve periodo; la regolazione della competizione fiscale.

In conclusione, la transizione in corso richiede uno sforzo di fantasia e determinazione politica oltre che nel campo della finanza. Continuare a definire quella in corso come crisi finanziaria è fuorviante e pericoloso. Utilizzare la finanza come capro espiatorio è una scorciatoia gattopardesca. L’accanirsi contro le banche e i manager della finanza offre facili bersagli alle opinioni pubbliche scosse e impaurite dalla crisi. Ma allontana dalla soluzione dei problemi veri. È il disperato tentativo di ridimensionare la portata dei cambiamenti in atto e preparare il terreno alla restaurazione culturale. Pertanto, introdurre legal standards a livello globale è indubbiamente importante, ma la transizione in corso richiede vision e capacità politica tali da saper condurre in porto una vera e propria fase costituente a livello globale. Un New Deal globale fondato sul lavoro per ricostruire le democrazie delle classi medie.


[1] Cfr. S. Fassina, Wall Street e le democrazie delle classi medie, in “Italianieuropei”, 5/2008.

[2] Per un’efficace descrizione dell’impoverimento delle classi medie degli Stati Uniti si veda la nota introduttiva al bilancio federale presentato dal presidente Barack Obama al Congresso. Cfr. Office of Management and Budget, A New Era of Responsibility. Renewing America’s Promise, U.S. Government Printing Office, Washington 2009, disponibile su www.whitehouse.gov

[3] OCSE, Growing Unequal? Income Distribution and Poverty in OECD Countries, OCSE, Parigi 2008.

[4] La scommessa della FIAT sulla Chrysler pare poggi su un’analisi ancora più “discontinuista” di quella qui proposta: il passaggio dal SUV alla Nuova 500 rappresenta una rivoluzione culturale. Ma, forse, la scommessa non è troppo azzardata.

[5] Si tratterebbe di una sorta di New Deal globale, fondato sul lavoro, secondo la formula coniata dal Global Progressive Forum – il forum promosso dal Partito del Socialismo Europeo al quale partecipano tutti i partiti socialisti e democratici del mondo e le organizzazioni dei lavoratori europee e internazionali – durante l’ultima riunione a Bruxelles, svoltasi in contemporanea con il G20 di Londra.

 

[6] Si veda a tal proposito il discorso del segretario al Tesoro degli Stati Uniti in apertura della sua visita ufficiale in Cina: T. F. Geithner, The United States and China, Cooperating for Recovery and Growth, Discorso all’Università di Pechino, Pechino, 1° giugno 2009, disponibile su www.ustreas.gov

[7] G. Amato (a cura di), Governare l’economia globale, Passigli Editori, Firenze 2009. In particolare gli interventi di P. C. Padoan, Dopo la crisi. Il governo macroeconomico internazionale; e F. Saccomanni, Il governo del sistema monetario internazionale.

[8] Un’eccellente analisi del potenziale storico-politico dell’Unione europea si trova in G. Bocchi, M. Ceruti, Una e molteplice. Ripensare l’Europa, Tropea, Milano 2009.

[9] Z. Xiaochuan, Reform the International Monetary System, People’s Bank of China, 23 marzo 2009. Certo non è stato casuale che il paper del governatore della Banca centrale di Pechino sia stato reso pubblico contestualmente all’annuncio del Piano Geithner, ossia alla prospettiva di una massiccia immissione di liquidità in dollari nel sistema monetario globale.

[10] W. Beveridge, Social Insurance and Allied Services, His Majesty’s Stationery Office, Londra 1942.

[11] Anche qui, si veda il discorso di Geithner all’Università di Pechino, op. cit.

[12] Ministero del Lavoro, della salute e delle politiche sociali, La vita buona nella società attiva. Libro Bianco sul futuro del modello sociale, maggio 2009