Federico Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896

Written by Michele Ciliberto Thursday, 02 July 2009 18:16 Print

La “Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896” di Federico Chabod è senza alcun dubbio uno dei capolavori della storiografia italiana del XX secolo. Venne pubblicato nel 1951 e, nelle intenzioni dell’autore, doveva essere il primo di cinque volumi che tuttavia non videro la luce. L’editore Laterza ritenne di dover continuare a stampare quel solo volume – intitolato “Premesse” – perché «quest’opera vive a sé» dal momento che «illustra gli aspetti insieme etico-politici ed economico-sociali di un intero periodo della storia nazionale».

Pubblicato all’inizio degli anni Cinquanta, il libro veniva da molto lontano; risaliva al 1936 e precisamente ad una iniziativa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale e, in particolare, a un progetto di Gioacchino Volpe, il quale, come ricorda Chabod «affidò (…) il compito di scrivere, su base documentaria nuova, una “Storia della politica estera italiana dal 1861 al 1914” al compianto Carlo Morandi (…), a Walter Maturi, ad Augusto Torre e a me, che assunsi l’impegno per il periodo dal 20 settembre 1870 al marzo 1896». Questi storici appartenevano – e va notato per capire la genesi del progetto – alla Scuola di storia moderna e contemporanea diretta dallo stesso Volpe. L’attenzione di Gioacchino Volpe per i problemi di politica estera è ben nota, specialmente a partire da una determinata fase della sua complessa e originale attività storiografica; questa si inquadrava in una più generale concezione della nostra storia nazionale che si sforzava programmaticamente di tenere fermi i rapporti tra Italia ed Europa dando particolare rilievo alla emigrazione intellettuale italiana nel corso della storia moderna. Non per nulla Volpe aveva incoraggiato e sostenuto le ricerche di Delio Cantimori sugli “eretici italiani” del Cinquecento, che in questo campo di studi costituiscono un classico e, per molti aspetti, il punto più avanzato, ancora oggi, in questo settore della ricerca. Ma ai problemi di politica estera era interessato anche Carlo Morandi, coinvolto infatti nell’impresa, e, in una prospettiva diversa, Antonio Gramsci, che su questo punto ha insistito in modo sistematico nei “Quaderni del carcere”, individuando nel cosmopolitismo italiano e nella denazionalizzazione degli intellettuali, favorita e potenziata dalla Chiesa di Roma, uno degli elementi di strutturale debolezza della storia nazionale italiana, arrivata anche per questo così tardi alla costituzione di uno Stato unitario.

Si è voluto insistere sulla complessità delle radici di questo libro e sul vasto humus da cui esso deriva perché tra i suoi meriti – e uno dei punti su cui Chabod insiste fin dall’inizio – vi è in primo luogo la netta presa di distanza dalla storia diplomatica, concepita in modo tradizionale, e in secondo luogo lo stretto nesso che egli istituisce fra politica estera e politica interna, intrecciate in modo assai stretto e organico, nella consapevolezza – ben evidente nel suo lavoro – che la politica estera rappresenti, nella nostra storia, un elemento decisivo dell’identità politica – e anche culturale – delle classi dirigenti nazionali.

Su questo punto Chabod è netto: «Nel momento della scelta (...) sulle decisioni propriamente di carattere internazionale pesa – almeno dai tempi della Rivoluzione Francese in poi – tutta la vita di un popolo, nelle sue aspirazioni ideali e nelle ideologie politiche, nelle condizioni economiche e sociali, nelle possibilità materiali come nei contrasti interni d’affetti e di tendenze. E qui – conclude – la storia diplomatica pura – come storia tecnica di relazione fra governi – ha il suo limite». Chabod sostiene che la storia «non conosce gli schemi astratti di una politica estera e di una politica interna, nettamente distinte l’una dall’altra, come non conosce “primati” dell’una o dell’altra, ma vede l’una e l’altra strettamente associate, fuse insieme (…). Del che, s’altra mai, è classico esempio proprio la storia dell’Italia unita».

La “Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896” obbedisce strettamente a questo precetto, che è al tempo stesso teorico e metodologico; e perciò si apre con un volume che è dedicato soprattutto a individuare quali fossero le radici materiali e morali da cui è scaturita la politica estera italiana di quel periodo e l’iniziativa diplomatica in cui essa si è espressa: «Vale a dire – precisa Chabod – passioni e affetti, idee e ideologie, situazione del paese e uomini, tutto ciò in una parola che fa della politica estera nient’altro che un momento, un aspetto di un processo storico assai più ampio e complesso, abbracciante tutta quanta la vita di una nazione, e non consente compartimenti stagni, e il momento dei rapporti con l’estero si lega strettamente e indissolubilmente all’altro, della vita morale, economica, sociale, religiosa all’interno». È sulla base di questo principio che Chabod scrive nella sua opera il bellissimo capitolo sull’idea di Roma, in cui ricostruisce, attraverso un’amplissima documentazione di prima mano, le discussioni che si aprirono sulla nuova missione di Roma dopo la sua trasformazione in capitale del Regno d’Italia, che avrebbe dovuto incarnarsi in quello che fu definito il «proposito cosmopolita della scienza». Queste pagine, insieme a quelle sull’“europeismo”, sono veramente straordinarie e suscitarono l’ammirazione di uno storico per tanti aspetti distante da Chabod come Delio Cantimori. Costui, in una nota di lettura conservata nelle sue carte presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, critica vivacemente i giovani esponenti della “nuova” storiografia marxista, i quali sostenevano che il libro di Chabod non fosse in grado di stimolare nuove ricerche: «Osservazione – scrive Cantimori – frutto di una mentalità dogmatica e pubblicistica che si ferma – in sede di storiografia – alla superficie; mentre invece proprio il capitolo sull’idea di Roma e sull’europeismo è tale da suscitare proprio nuove ricerche», perché pone «il problema delle idee di quella classe dirigente» proiettandole sul complesso della storia nazionale italiana.

È una notazione importante e del tutto condivisibile, specie se si tengono presenti le notevolissime pagine che Chabod dedica alla figura – eccezionale in tutti i sensi – di Quintino Sella, impegnato più di tutti e con grande energia a definire la nuova missione di Roma sul piano europeo e internazionale nel quadro di un profondo rinnovamento della vita etico-politica e culturale della nazione imperniata su una nuova funzione del sapere scientifico, sia sul piano della ricerca sia nella formazione di un nuovo modello di cittadino.

Ma le pagine riservate alla figura e alla personalità di Sella non sono un unicum. La seconda parte del volume è dedicata volutamente allo studio degli uomini che erano stati protagonisti di quella storia. E questo perché, scrive Chabod, «gli uomini, le singole personalità con i loro pensieri e affetti» costituiscono l’ossatura della storia, che, «almeno fino ad oggi, è stata fatta dagli uomini e non da automi, e dottrine e cosiddette strutture, che in sé e per sé dal punto di vista della valutazione storiografica sono pure astrazioni, acquistano valore di forza storica solo quando riescono ad infiammare di sé l’animo degli uomini – dei singoli come delle moltitudini – quando diventano una fede, una religione interiore capace anche di creare i martiri; quando cioè ideologie o rapporti sociali diventano un fatto morale».

Nel sostenere questa tesi Federico Chabod era perfettamente consapevole di andare contro corrente perché la storiografia moderna, in larga parte, «disdegna l’uomo, come tale» senza saper distinguere «i pettegolezzi mondani dalla ricostruzione morale e spirituale di una personalità». Essa, ribadisce Chabod, «aborre dal cosiddetto psicologismo, per correr dietro alle dottrine pure, alle pure strutture o a quell’ultimo meraviglioso portato di certa storiografia recentissima, le tavole statistiche, le percentuali, le medie, i grafici».

Non è difficile comprendere con chi Chabod intendesse polemizzare con queste affermazioni che si affiancavano, in un circolo virtuoso, a una forte rivendicazione della mobilità del processo storico il quale va misurato – egli sottolinea – cogliendone gli elementi di novità, senza fissarsi su «permanenze immutabili» o sull’esistenza di leggi fisse che governerebbero in modo statico le vicende di un paese secondo i precetti della cosiddetta geopolitica. Da questa – osserva – può derivare «un nuovo determinismo su basi geografiche, un meccanicismo fatalistico per cui la natura condizionerebbe la storia di un paese». Senza aver chiaro – ed è precisamente in questo che consiste la dimensione propriamente “artistica” del lavoro del politico – che «uno Stato ha sempre avuto dinanzi a sé almeno due vie diverse da seguire: e il difficile – al politico del decidere, allo storico poi nel comprendere – è tutto qui e soltanto qui, quale scegliere in quel determinato momento, in quella determinata situazione».

Sono affermazioni importanti, ma qui interessa piuttosto sottolineare un punto di ordine generale: rivendicando con forza la dimensione biografico-individuale, Chabod mostrava di avere la vista più lunga degli storici allora in voga, come avrebbe puntualmente confermato la ripresa proprio negli ultimi decenni di una storiografia attenta alla dimensione biografica riconcepita come una chiave privilegiata di accesso sia al pensiero o all’opera storica di un autore sia del periodo e della situazione in cui essa si situa. In questa forte rivendicazione della dimensione “biografica” (nel senso più complesso del termine) agiva, certamente, la lezione dei grandi storici moderni, sia italiani che europei, a cominciare da Machiavelli e Guicciardini fino ai memorialisti francesi. Altrettanto forte era l’incidenza di un’interpretazione dello “storicismo” assai precisa, in cui era fondamentale la consapevolezza che è dall’“individuo” che si può dedurre un mondo, secondo il motto di Goethe messo dal suo maestro, Friedrich Meinecke, in apertura del libro su “Le origini dello storicismo”. È quella stessa interpretazione che nel grande saggio su “Croce storico” porterà Chabod a rivendicare l’importanza, rispetto alle grandi “Storie” di taglio storico-filosofico, delle opere di ambito più circoscritto ma più efficaci e solide, a suo giudizio, sul piano del lavoro storico (un punto di vista, questo, che sarebbe stato messo fortemente in discussione negli studi degli ultimi decenni, impegnati a rivendicare il valore prioritariamente filosofico della ricerca crociana). Quello che Chabod pubblicava nel 1951 era dunque un libro importante, costruito sulla base di ricerche condotte negli archivi del ministero degli Esteri e in quello degli Interni, in molti archivi privati, con l’ausilio di un’ampia utilizzazione degli Atti parlamentari e di materiale giornalistico. Delio Cantimori – che con Chabod ebbe complessi ma fecondi rapporti di studio – discorrendo del libro ebbe a scrivere, nel gennaio del 1952, che in esso si realizzava l’ideale storiografico della Scuola romana di Gioacchino Volpe, poiché in essa «arti, lettere, filosofia, religione, economia, tutto il cielo e la terra, convergono negli uomini e nelle loro azioni». Alla base di questo giudizio vi era la critica dell’“irrazionalismo” che connotava, nella valutazione di Cantimori, tutti gli esponenti più significativi, a cominciare dallo stesso Chabod, di quella scuola storiografica. Si tratta di un giudizio del 1952, espresso in un articolo preparato per una rivista straniera, ma mai pubblicato, forse a causa dell’insoddisfazione che lo stesso Cantimori provava per una valutazione così netta e aspra, condizionata – assai verosimilmente – da motivi di carattere ideologico e da posizioni e atteggiamenti di matrice marxista: tra il 1948 e il 1952 Cantimori aveva realizzato oltretutto la traduzione del primo libro de “Il Capitale” di Marx. Ma che si tratti di posizioni e di giudizi strettamente legati a una determinata stagione politica e culturale è dimostrato dal fatto che nel saggio scritto per “Belfagor” nel 1960, in occasione della precoce morte di Chabod, il tono e il giudizio mutano profondamente, e non solo per la circostanza che aveva propiziato il contributo di Cantimori per la rivista.

In effetti la “Storia della politica estera italiana” è un gran bel libro, è ormai un classico che ha l’ambizione di delineare, a partire da un determinato orizzonte storiografico, i caratteri complessivi di una intera epoca della storia nazionale. Chabod si poteva porre quell’obiettivo perché il punto di vista prescelto era, per molti aspetti, il più congruo per conseguirlo: nella storia italiana la politica estera è stata il luogo specifico dell’identità politica e culturale delle classi dirigenti; essa è stata parte integrante della politica interna. Questa tesi valeva per gli anni in cui Chabod, da grande storico, illuminava la sua ricerca attraverso pagine dal tono alto e solenne, che conferivano un elevato significato al lavoro storiografico. Ma è altrettanto vero che nell’epoca in cui l’opera di Chabod veniva pubblicata, gli anni Cinquanta del XX secolo, il nesso tra politica estera e interna diventava più forte e stringente, a causa del ruolo di marca di frontiera che l’Italia si trovò ad assumere in quel periodo, e la politica estera diventava elemento centrale anche nella formazione ideologico-culturale delle classi dirigenti, sia di governo sia di opposizione. Per dirla con una battuta, nella storia italiana res gestae e historia rerum gestarum sono, da questo punto di vista, unum et idem. E di questo occorrerebbe tener conto, sia sul terreno strettamente politico sia su quello del lavoro storiografico.