Editoriale 3/2009 - Il lavoro

Written by Giuliano Amato Wednesday, 16 September 2009 13:34 Print
Il lavoro è un crocevia fondamentale del mondo contemporaneo. I paesi come il nostro, quelli cioè che fecero l’impresa e che quindi conobbero tutte le fasi dello sviluppo industriale, escono da un’epoca che è durata oltre un secolo e che sul lavoro ha costruito identità politiche e sindacali, assetti istituzionali e nuovi diritti da cui sono state addirittura plasmate le forme di governo e di regime del secolo stesso; il che significa le vite di milioni di persone. Gino Giugni scrisse anni fa che la società industriale si era organizzata attorno a due invenzioni istituzionali: la società per azioni e il contratto di lavoro.
Il lavoro è un crocevia fondamentale del mondo contemporaneo. I paesi come il nostro, quelli cioè che fecero l’impresa e che quindi conobbero tutte le fasi dello sviluppo industriale, escono da un’epoca che è durata oltre un secolo e che sul lavoro ha costruito identità politiche e sindacali, assetti istituzionali e nuovi diritti da cui sono state addirittura plasmate le forme di governo e di regime del secolo stesso; il che significa le vite di milioni di persone. Gino Giugni scrisse anni fa che la società industriale si era organizzata attorno a due invenzioni istituzionali: la società per azioni e il contratto di lavoro. E questo ci aiuta a capire la portata del cambiamento, se è vero − come è vero − che in precedenza il lavoro era o servile, o modellato in forma di “locatio operis”. L’impresa industriale dava vita a rapporti stabili, che non erano però di indole servile e che, forgiati da una contrattazione non solo individuale, ma anche e sempre più collettiva, avrebbero generato obblighi e diritti a cui la stessa legge avrebbe poi fornito o il suo suggello, o fondamenta più sofisticate e robuste. Si pensi agli orari di lavoro, al diritto alle ferie e in seguito alla tutela contro la perdita del lavoro per malattia, invalidità e vecchiaia che in molti paesi si trasferisce dal mutualismo di origine contrattuale e diventa pubblica o parapubblica, per meglio ripartire i relativi costi di transazione. Lo Stato che assume i connotati di Stato sociale è largamente qui ed è esso stesso un prodotto dei rapporti di lavoro della società industriale. Prima ancora dello Stato sociale, creatura di quei rapporti è il sindacato, che ne riceve ciò che è insieme la linfa vitale e la direzione di lavoro e di crescita, vale a dire, con la rappresentanza dei nuovi interessi collettivi e la loro vita organizzata, la contrattazione collettiva. E lo sono poi i partiti, che nascono per fare le veci, in sede politica, delle stesse figure sociali e quindi degli stessi interessi: i partiti popolari e quelli della sinistra storica, che fondano le loro nuove identità collettive sulla lotta contro lo sfruttamento capitalistico del lavoro (ancorché differiscano – e lo sappiamo bene − nell’aspettativa di superarlo, secondo gli insegnamenti, variamente interpretati, di Marx). Per decenni siamo andati avanti entro una cornice che mutava grazie all’innovazione tecnologica e organizzativa da un lato e all’azione stessa del sindacato e dei partiti riformisti dall’altro, e tuttavia ciò accadeva sul fondamento di un immutato architrave, l’impresa industriale, con i suoi dipendenti, che aumentavano nel numero al crescere delle sue dimensioni e del suo fatturato. Poi, per ragioni tante volte illustrate, il cambiamento ha investito proprio l’architrave. E se di sicuro non lo ha fatto scomparire, lo ha privato però della sua centralità, con l’effetto, fra gli altri, di moltiplicare e frammentare i lavori, di sottrarre una buona parte di essi alla contrattazione collettiva, di separare le vite, gli interessi, le aspettative dei lavoratori: garantiti e non garantiti, flessibili e precari, nazionali e immigrati, idraulici francesi e idraulici polacchi messi alle prese con gli stessi rubinetti. È stato un colpo al cuore del sindacato e lo è stato anche per i partiti progressisti, se si pensa alla vitale importanza per loro dell’identità collettiva generata fra i lavoratori dalla prima impresa industriale e, in seguito, da quella matura, poi andata in frantumi. Il sindacato ha reagito, almeno in Italia, da una parte facendo leva sulle negoziazioni con lo Stato, dall’altra facendo frequente ricorso al referendum fra i lavoratori, allo scopo di cementare in ambo i casi identità di interessi più larghe, ma non sempre riuscendovi (sostenere pensionati e “pensionandi” raramente facilita nella tutela dei precari o nella promozione di migliori servizi per la famiglia). I partiti hanno avuto difficoltà anche maggiori, si sono divisi (lo dico forse con troppo semplicismo) fra chi imboccava con baldanza la strada del nuovo futuro e chi restava sulle vecchie posizioni, e i risultati, almeno in Europa, sembrano essere negativi per tutti. È tempo allora di promuovere sul crocevia del lavoro, e sulle strade che vi si incontrano, una riflessione a tutto tondo, capace una buona volta di ispirarsi a due criteri, che paiono oggi essenziali e che gli stessi contributi qui pubblicati non sempre dimostrano di seguire: il primo è la presa di distanza da pregiudiziali e pregiudizi ideologici, che non aiutano a capire dove siamo; il secondo è l’umiltà, quella di chi cerca di comprendere a che punto ci troviamo e dove possiamo andare, senza la certezza di saperlo già. Ciò significa rinunciare a tre degli atteggiamenti con i quali il tema viene spesso affrontato. Il primo è quello dei riformisti di ieri che diventano i conservatori di oggi, e cioè dei “laudatores temporis acti”, che si riconoscono nei ruoli esercitati per un secolo e più, non vedono ragione di rinunciarvi e ritengono che vi siano, o che possano essere restaurate, le condizioni per continuare a esercitarli. Il secondo è quello ancor più passatista e ideologico dei rivoluzionari di sempre, e cioè di chi vede nel cambiamento in atto una conferma di ciò che ha sempre pensato, ossia che i tentativi riformisti di regolare e addolcire il conflitto di classe sono inutili, lo sfruttamento capitalistico torna a rivelare il suo volto senza ipocrisie e quindi “ora e sempre lotta dura senza paura”. Il terzo è quello degli ottimisti del progresso, di chi vede all’opposto, nello stesso cambiamento, null’altro che il benefico passaggio dal lavoro alienante del ciclo taylorista alla valorizzazione del lavoro individuale e quindi alla trasformazione progressiva dei lavoratori in imprenditori di se stessi. Ebbene, chi legga i contributi che abbiamo raccolto e analizzi il cambiamento attraverso i dati che essi forniscono non potrà che intravedere differenze e divaricazioni, tali da legittimare, per chi lo voglia, ciascuno degli atteggiamenti sopra descritti. Troverà la flessibilità funzionale a un’organizzazione di impresa più agile e più improntata allo spirito del team che non ai vecchi mansionari, ma troverà anche la precarietà fine a se stessa e quindi alla riduzione dei costi e dei diritti altrimenti possibili per il prestatore del lavoro. Troverà il lavoratore che l’individualizzazione dei compiti ha reso ancora più partecipe di un interesse collettivo d’impresa, e il lavoratore condannato invece alla solitudine. È verissimo ed è irrefutabile che non si possa contrapporre alla diversità in atto una unità del mondo del lavoro, presuntivamente desunta dalle vecchie ideologie o derivata per pura vischiosità dai paradigmi prevalenti nel secolo scorso. E, tuttavia, ci saranno pure delle diversità forti ma anche delle diversità deboli, dei vuoti di eguaglianza che ha senso riempire e degli interessi comuni che ha senso sollecitare e far crescere. Le diversità che maturano nel lavoro non sono di per sé contrarie all’eguaglianza, ma l’eguaglianza richiede che diano una ragione di sé. Se poi l’accresciuta individualizzazione dei lavori cancella, sicuramente, alcuni degli interessi collettivi, è impensabile che possa cancellarli in toto, soprattutto per quanti continuano, comunque, a vivere del proprio lavoro e che soltanto su di esso possono costruire i propri progetti di vita futura. Si ravvisa su questi terreni il bandolo che, senza forzare la realtà, ma cercando anzi di capirla meglio, tocca ai partiti progressisti e al sindacato trovare. E se non saranno in grado di trovarlo, potranno pure dichiararsi orgogliosi di essersi liberati dei vecchi bandoli, che non valgono più, ma in tal caso continueranno solo a sopravvivere, senza dare una ragione di sé. È un compito difficile, in primo luogo perché la deriva delle interpretazioni unificanti è sempre in agguato, anche a danno di chi è tuttavia consapevole delle diversificazioni intervenute. A questo riguardo sono due, in particolare, i punti chiave che il nostro Quaderno mette in luce. Il primo è quello della effettiva mutazione della qualità del lavoro, che ha dentro di sé crescenti contenuti intellettivi, prevalenza di mansioni di controllo sulle mansioni esecutive, polivalenze funzionali che crescono − si badi − al ridursi delle dimensioni d’impresa, con un continuum che ormai congiunge lavoro subordinato, lavoro semiautonomo, lavoro autonomo. Il secondo è quello dei contratti di lavoro, che si sono venuti sfrangiando e che, con il crescere di quelli a tempo determinato, hanno portato più o meno ovunque alla divisione fra lavori stabili e lavori precari. Correliamo dunque questi due aspetti guardando, in particolare, al lavoro dei co.co.co., divenuti lavoratori a progetto. Di sicuro questa trasformazione somiglia non poco a quella “locatio operis” che caratterizzava, prima della società industriale, tutto il lavoro non servile. Ma si tratta di un ritorno indietro rispetto al lavoro che era divenuto stabile con la società industriale o è invece un passo avanti all’insegna di quel nuovo fulcro di (necessaria) autonomia intellettuale che è entrato nello stesso lavoro dipendente? Gli ottimisti del progresso lo leggono esclusivamente in questa chiave, mentre i passatisti di tutte le specie danno peso soltanto alla mancanza di stabilità e vi colgono quindi un regresso, non un’evoluzione rispetto al vecchio lavoro industriale. La realtà – una realtà che conosciamo tutti, ottimisti e passatisti compresi − è che sono vere entrambe le cose e che su un tale fenomeno, fisiologicamente evolutivo e di progresso − il superamento del taylorismo, le tecnologie che accentuano il contenuto intellettuale dello stesso lavoro dipendente e l’affermarsi dei lavori semiprofessionali − se ne sono innestati di nuovi che hanno ben altro segno e ben altra motivazione, in particolare la scelta del contratto di co.co.co. non per casi autentici di “locatio operis”, ma per lavori schiettamente dipendenti che in questo modo costano di meno, perché la spesa contributiva di quel contratto è minore. Esiste dunque la “locatio operis” che è non pre, ma post industriale ed esiste tuttavia l’estensione del contratto che la riguarda a casi di precarietà fine a se stessa. Esiste la flessibilità funzionale dei lavoratori polivalenti della piccola impresa ed esiste la flessibilità puramente numerica dei lavoratori che sono utilizzati in chiave stagionale. Esiste la temporaneità del primo ingresso nel mercato del lavoro ed esiste la temporaneità come forma contrattuale abnorme di intere vite lavorative. Occorre dunque distinguere, ma occorre anche prendere atto della incapacità della pur nuova e più articolata gamma dei contratti di lavoro di selezionare da sola il bene e il male («scosso dalla crisi − scrive giustamente François Gaudu nel suo contributo sulla Francia – il diritto del lavoro non sa più dove si trovi il progresso»). Ci sono certo delle innovazioni che lo stesso contratto di lavoro dipendente dovrebbe contenere in ragione dei cambiamenti intervenuti e che ci vengono proprio dalla discussione francese: il riconoscimento di margini di libertà professionale dello stesso lavoratore dipendente in relazione ai propri sviluppi di carriera, i limiti conseguenti alla clausola di non concorrenza e, ancor più, a quella di esclusività, il diritto di recesso per passare a lavori migliori. È inoltre altrettanto vero, ma ci torneremo fra poco, che si può lavorare sui contratti per ridurre gli abusi della temporaneità. Ha tuttavia ragione Tiziano Treu quando esclude che le diversità possano essere imbrigliate con il contratto unico e sottolinea che l’unificazione possibile è solo quella della precostituzione di uno “zoccolo sociale” unico, fatto di diritti fondamentali da immettere in ogni contratto che il mercato per parte sua voglia adottare, di forme universali di tutela del reddito, di politiche attive di mobilità. Il modello nordico, nei limiti in cui è applicabile anche al nostro paese, è tutto qui. Ed è all’interno di un tale modello che si collocano le proposte per il contratto unico del solo lavoro dipendente, volte a renderlo flessibile quanto serve per disincentivare il ricorso a quello temporaneo, o a quello per lavori a progetto, quando non ce ne sono le effettive ragioni. Il nostro Quaderno ospita sia la proposta di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, sia quella di Pietro Ichino, ravvisando soprattutto nella seconda (ma lo riconoscono anche gli autori della prima) una maggiore coerenza con il descritto zoccolo sociale. Essa, infatti, arriva a toccare l’intangibile articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, rafforzando con ciò l’incentivo alle assunzioni a tempo indeterminato, ma colloca la facilitazione così consentita del licenziamento in un contesto di cui devono far parte le politiche attive per la gestione della mobilità. È in una cornice di tale genere, infatti, che i vantaggi potrebbero ben compensare i rischi, come suggeriscono i dati sulle percentuali di successo dell’outplacement forniti nel Quaderno da Gabriella Lusvarghi (per chi noti che i dati qui pubblicati non riguardano posizioni operaie, va peraltro aggiunto che nessuna fonte documenta per esse differenze significative). Arrivare a mettere a fuoco questo come quadro condiviso sarebbe già un risultato, anche se la costruzione dei singoli pezzi potrà essere meno semplice, per la ovvia problematicità di diversi ingredienti. È problematica la cernita dei diritti fondamentali da far condividere a tutti i contratti di lavoro (personalmente dubito che per i lavori più marcatamente vicini a quelli autonomi abbia senso il diritto alla contrattazione collettiva). Mentre l’articolo 18, che del resto lo stesso Ichino propone di non toccare per i licenziamenti disciplinari, può essere oggetto di perduranti difese, per ignare che esse siano delle preferenze in materia dei tanti precari che hanno perso il lavoro in questi mesi (è consigliata qui la attenta lettura del già citato contributo sul caso spagnolo e sull’abisso che si è creato nel paese fra gli estranei alla contrattazione collettiva e i garantiti dalla stessa). Al di là di ciò, ci si può anche chiedere se il quadro si esaurisca qui o se non debbano farne parte attenzioni più ampie, rivolte allo stesso lavoro autonomo, vista la caduta del confine fra esso e i lavori dipendenti. Colpisce che il nostro Quaderno offra molto poco a questo riguardo, a testimonianza di una elaborazione che è mancata alle spalle della retorica politica (questa invece abbondante) sugli artigiani e le piccole imprese. Che rappresentare il lavoro autonomo non interessi il sindacato è comprensibile e più che giustificato. Che non interessi la sinistra politica o, più latamente, i partiti progressisti si spiega solo se essi assumono come proprio lo stesso perimetro sociale del sindacato, il che, quanto meno nel XXI secolo, è opinabile. Certo è che il lavoro autonomo non è entrato né nell’anima né nella cultura della sinistra e dei progressisti in genere; basta pensare al lavoro professionale, di cui essi hanno saputo vedere soltanto (anche se di sicuro erano presenti) le propensioni e le coperture anticoncorrenziali. Eppure per molti dei giovani (ed ex giovani), che si collocano nell’area delle posizioni intermedie fra lavoro dipendente e lavoro autonomo, vedersi offrire prospettive incentivate di lavoro autonomo può risultare ben più accattivante della riforma degli ammortizzatori sociali o di quella del lavoro dipendente. Non sarà un Quaderno a cambiare le visioni e tanto meno le intenzioni dei partiti progressisti o del sindacato. Tanto meno potrà farlo un Quaderno che degli uni e dell’altro visibilmente riflette le perduranti e talora contrastanti diversità interne. Esso può servire tuttavia a chi del cambiamento voglia farsi promotore e artefice, rimuovendo la convinzione sempre più radicata in tanti lavoratori di essere soli con se stessi, salvo vedersi offrire non una prospettiva di lavoro, ma soltanto (o quasi soltanto) migliori tutele in caso di disoccupazione. Per arrivarci occorre fare ciò che qui solo alcuni suggeriscono − lo fa esplicitamente Paolo Nerozzi, ad esempio − e cioè affrontare i nodi esistenti avendo abbandonato ideologismi e preconcetti. Ma occorre che sia chiaro a tutti, anche a chi non fosse d’accordo su un tale abbandono, che l’approdo non è né l’opportunismo politico senza ancoraggi, né l’ipotesi illuminista del progetto che trova ex post i suoi referenti sociali. L’approdo non può che essere dettato da ciò che di sicuro per il sindacato, ma non meno per la stessa politica progressista, è ineludibile: il riferimento al mondo del lavoro e il valore dell’eguaglianza. Di lì si è partiti e lì si deve arrivare, consapevoli tuttavia di quanto sia cambiato il mondo del lavoro e quanto siano divenuti variegati i percorsi dell’eguaglianza anche in ragione di quel cambiamento, che ha reso impellente, non meno dell’eguaglianza nei trattamenti, l’eguaglianza nella libertà di realizzare ciascuno i propri progetti di vita. Non si può non ribadire che, in questo processo, c’è a un certo punto un distacco fra sindacato e partiti. Al primo spetta rappresentare le già tante varietà del lavoro che possono essere naturalmente e proficuamente raggiunti alla contrattazione collettiva. I suoi confini pertanto non vanno molto oltre il tradizionale lavoro dipendente, anche se si allargano essi stessi in altro senso, perché fuoriescono da quelli nazionali e chiamano l’insieme dei sindacati europei a contrastare con accordi transnazionali (previsti dal Trattato di Roma e già praticati) gli effetti di dumping sociale e quindi di diversificazione prodotti dalla libertà di movimento delle imprese fra un paese europeo e l’altro. Ne parla qui Silvana Sciarra ed è una prospettiva che offre e anzi impone al sindacato un lungo domani. Ai partiti invece non può essere negata l’altrettanto fisiologica aspirazione a raggiungere la maggioranza degli elettori. Fermo restando, però, che neppure nel caso dei partiti il riferimento al mondo del lavoro, in termini certo più ampi, ha ragione di venir meno. Certo, decenni addietro fu sufficiente mantenersi entro i confini del sindacato e così continuò ad essere negli stessi anni delle società che definimmo dei “due terzi” e che nei due terzi avevano la larga maggioranza dei garantiti, con i non garantiti fuori. Oggi i due terzi identificano un insieme molto più variegato, un insieme che non è più di soli lavoratori dipendenti. Quello che conta però è che la maggioranza della società continua a essere costituita da coloro che vivono del proprio lavoro. Di sicuro, coloro che per vivere possono contare sul lavoro di altri sono una perdurante minoranza. E di sicuro il tempo dei nipoti di Keynes non è ancora giunto. Nella Repubblica fondata sul lavoro, la costruzione di una forza politica maggioritaria si può ancora incentrare sul lavoro e non sul successo effimero, sulla gloria televisiva, sul mito dei “saranno famosi”. Ma occorre saperla edificare. Altrimenti nella società degli individui, nella società del rischio e dell’assenza di certezze, nella società dove per chi non ha nulla alle spalle ogni progetto di vita è un’alea, se nessuno sa offrire percorsi più solidi, saranno proprio quella gloria e quel mito i collanti della politica vincente; anzi, lo sono già.