Donne ai vertici in Italia e in Europa: evidenza, analisi e istituzioni

Written by Alessandra Casarico e Paola Profeta Thursday, 08 October 2009 19:43 Print

Quali sono i limiti che le donne incontrano nella crescita professionale e nell’accesso ai vertici in Italia e in Europa? Quali potrebbero essere i vantaggi di creare maggiori spa­zi per l’accesso delle donne a posizioni chiave? E quali po­litiche potrebbero sostenere il passaggio ad un mondo in cui le capacità femminili possano essere maggiormente valorizzate? 

I paesi europei mostrano ampie eterogeneità in relazione a molti degli indicatori che normalmente vengono considerati per rappresentare e cogliere le potenzialità o l’effettiva partecipazione delle donne alla vita sociale ed economica di un determinato paese.

Come si avrà modo di documentare, sia che si guardi all’istruzione, alla partecipazione al mercato del lavoro o alla rappresentanza nella politica, le realtà che ci appaiono sono sotto molti aspetti ancora fortemente diversificate.

Pur nelle differenze, i cambiamenti che hanno attraversato l’universo femminile sono stati ovunque considerevoli: i maggiori investimenti in istruzione sono stati una chiave per rafforzare la presenza delle donne nella vita economica e sociale, ma non sono stati finora un’arma sufficiente per consentire una piena valorizzazione del talento femminile. Una volta che le risorse sono formate, qualificate, occorre infatti metterle a frutto. In Italia la percentuale di donne laureate sul totale della popolazione tra i 25 e i 64 anni supera quella maschile (12,7% contro 11%), pur essendo stabilmente inferiore a quella osservata negli altri paesi europei. Ma solo il 75,8% delle donne italiane laureate lavora per il mercato, meno di quanto accada in tutti gli altri paesi europei. Inoltre i tassi di occupazione delle donne con bassi livelli di istruzione sono in Italia decisamente lontani dalla media europea. Anche tra le laureate sussistono delle difficoltà occupazionali. Se si prendono in considerazione gli uomini laureati, la loro partecipazione al mercato del lavoro è oltre il 90% ed è superiore a quella di tutti i paesi europei, con l’eccezione della Norvegia.

In una recente pubblicazione dell’OCSE su genere e sviluppo sostenibile1 si sottolinea come le donne, che rappresentano circa la metà del capitale umano mondiale (non della popolazione; non è solo una questione di numeri), siano una delle risorse meno utilizzate.

Le dimensioni di questo “sottoutilizzo” possono essere declinate secondo diversi aspetti, il primo dei quali riguarda i tassi di partecipazione al mercato del lavoro.

In Italia, il tasso di occupazione femminile nel 2008, pari circa al 47%, rappresenta il valore più basso tra tutti i paesi europei, con l’eccezione di Malta. La Strategia di Lisbona richiede di raggiungere entro il 2010 l’obiettivo di un tasso di occupazione femminile pari al 60%, traguardo lontano per la popolazione femminile tra i 15 e i 64 anni, ma raggiungibile per le coorti più giovani e per alcune aree del paese. Il tasso di occupazione femminile è infatti pari al 58,8% per il gruppo 25-34 anni, suggerendo una prospettiva più ottimistica sulla partecipazione delle donne. Tuttavia il divario con gli uomini, il cui tasso di occupazione nello stesso gruppo di età è superiore all’80%, resta significativo. I differenziali regionali sono particolarmente marcati: il tasso di occupazione femminile (nella classe 15-64) è nel Nord pari al 56% circa, mentre nel Mezzogiorno è fermo al 31%, ad indicare che il problema è molto intenso al Sud e meriterebbe un’attenzione specifica.

La bassa partecipazione è solo uno degli aspetti che saranno presi in considerazione in questa sede; verranno esaminati anche i limiti che le donne incontrano nella crescita professionale e nell’accesso ai vertici, prestando particolare attenzione al mondo delle imprese e a quello della politica. Mentre i differenziali in termini di tasso di occupazione femminile tra paesi europei sono molto ampi, quando ci si concentra sulle opportunità di carriera e di crescita professionale delle donne le differenze si riducono, evidenziando uno stallo nelle opportunità di carriera delle donne non più solo specifico del nostro paese. Verranno analizzati i possibili vantaggi di creare maggiori spazi per l’accesso delle donne a posizioni chiave nel mondo produttivo e nella rappresentanza politica e da ultimo saranno discusse le politiche che potrebbero sostenere il passaggio ad un mondo in cui le capacità femminili siano maggiormente valorizzate.

Donne nella stanza dei bottoni: imprese e politica

I dati più recenti di Eurostat sulla percentuale di donne tra legislatori, amministratori e manager evidenziano che in Italia esse rappresentano circa il 33% di questo gruppo, in linea con quanto osservato in Svezia e nel Regno Unito, inferiore a quanto registrato in Francia, dove la percentuale sale al 38%, ma superiore a paesi virtuosi in termini di partecipazione femminile come la Danimarca (23%) o la Norvegia (28%). Sebbene la presenza femminile in queste posizioni professionali sia decisamente minoritaria rispetto a quella maschile, le differenze tra paesi sono molto più contenute e l’Italia si muove dalla posizione di retroguardia occupata quando si guardi al tasso di partecipazione. Questo dato può essere spiegato sia, come accennato in precedenza, tenendo conto del fatto che l’ascesa nella scala professionale è un problema distinto da quello della partecipazione al mercato del lavoro, sia ricordando che la cosiddetta “selezione positiva” nel mercato del lavoro è più forte in Italia che altrove.

Per quanto riguarda la situazione italiana, dati recenti mostrano che le donne rappresentano il 23,3% del top management delle imprese pubbliche e private italiane, ma solo il 10% di quelle private. 2 La presenza femminile ai vertici delle imprese quotate, seppur bassa, è comunque aumentata nel nostro paese: secondo i dati di Andrea Goldstein e Michela Gamba,3 la percentuale di imprese che non aveva alcuna donna nei consigli di amministrazione era pari nel 1986 all’83% e nel 2007 è scesa a circa il 40%. Solo lo 0,5% delle imprese aveva tre o più donne nel consiglio di amministrazione nel 1986; nel 2007 la percentuale è salita al 9%. Miglioramenti si osservano anche considerando la presenza femminile tra i membri del consiglio con poteri esecutivi, aumentata dal 12% al 25%. Questi dati segnalano un’evoluzione certamente positiva ma ancora insufficiente. Sebbene le evidenze empiriche non siano ancora conclusive, alcuni studi mostrano che esiste una correlazione positiva tra la presenza di donne e la performance aziendale.4 Questa relazione potrebbe essere il risultato di alcune caratteristiche di eccellenza dello stile di direzione femminile, quali l’attenzione alle persone, la gestione delle relazioni con gli interlocutori sia interni che esterni, la prevenzione e la gestione dei conflitti, la condivisione delle decisioni, la minor propensione al rischio. Questi studi suggeriscono che le donne nelle imprese rappresentano una risorsa non solo qualificata, ma anche produttiva e portatrice di valori benefici per l’azienda.

La situazione non è più rosea quando si consideri la presenza femminile nelle istituzioni e in particolare nei Parlamenti e nei governi. Le donne nel Parlamento europeo sono solo il 35%, ma se guardiamo ai singoli paesi si passa, per la Camera dei deputati (o Camera unica), da percentuali superiori al 40% in Belgio, Spagna, Danimarca, Francia, Svezia e Austria, al 21% dell’Italia, che risulta sempre tra gli ultimi paesi nelle classifiche di rappresentanza femminile in politica (è in linea anche il dato per i ministri). Eppure avere più donne in politica potrebbe avere effetti benefici non trascurabili: uomini e donne infatti hanno preferenze diverse sia come cittadini- elettori, sia come policy makers. Una vasta letteratura di political economy5 mostra infatti che l’estensione del diritto di voto alle donne si è associata ad un aumento della spesa pubblica, in particolare per il welfare (sanità, istruzione), che ha creato le premesse per un circolo virtuoso dove una maggiore spesa pubblica in alcuni servizi può favorire il lavoro femminile, che a sua volta fa aumentare la domanda di alcuni servizi pubblici.6 Parallelamente, quando le donne sono decisori politici, tendono ad allocare più risorse a sanità, ambiente, welfare7 e in generale a politiche pubbliche che possono agevolare le necessità femminili,8 e in particolare il lavoro femminile. La presenza delle donne ai vertici della politica quindi può aiutare l’occupazione femminile, attraverso il riequilibrio della spesa di welfare a favore di politiche pubbliche e di categorie di spesa (pensiamo agli asili nido, ad esempio) che sostengono il lavoro femminile, e che sono particolarmente carenti in paesi come l’Italia.

 

Differenziali di partecipazione, carriera e salari: uno sguardo alla teoria economica

Perché le donne partecipano di meno? Perché quando partecipano progrediscono meno degli uomini? E perché quando anche crescono professionalmente sono pagate meno degli uomini? Queste ultime due domande sono particolarmente importanti poiché, come visto, anche nei paesi dove i differenziali di partecipazione tra uomini e donne, diversamente dall’Italia, sono contenuti, permangono comunque gli svantaggi femminili nella carriera, ad indicare che la maggiore partecipazione non garantisce di per sé la rimozione delle barriere nell’accesso ai vertici. Guardando i dati per l’Europa non sembra infatti che esista una correlazione tra tasso di occupazione femminile e percentuale di donne al vertice (legislatori, amministratori e manager): i paesi in cui le donne sono meno attive sul mercato del lavoro non sono necessariamente quelli in cui meno donne raggiungono posizioni di prestigio.

La spiegazione economica tradizionale della divisione del lavoro all’interno della famiglia si fonda sull’idea che, in presenza di rendimenti costanti nel lavoro in famiglia e nel lavoro sul mercato, un piccolo vantaggio naturale/biologico genera specializzazione completa sulla base della teoria dei vantaggi comparati. La specializzazione completa, che segue la linea del genere, è dunque efficiente e non richiede alcun intervento correttivo. Quando i vantaggi comparati di uomini e donne sul mercato e all’interno della famiglia diventano meno rilevanti, grazie allo sviluppo del lavoro intellettuale o alla tecnologia che facilita il lavoro di cura o domestico, le differenze biologiche o economiche tra generi non rappresentano più una spiegazione convincente per la marcata divisione del lavoro che osserviamo. Nelle teorie più recenti giocano un ruolo fondamentale le aspettative delle imprese e quelle dei membri della famiglia: le imprese si aspettano che le donne dedichino più tempo al lavoro domestico, di conseguenza le pagano di meno e bloccano le loro carriere. Il salario più basso offerto alle donne da parte delle imprese riduce il costo-opportunità per le donne di lavorare a casa e così la decisione familiare porta nuovamente ad una specializzazione produttiva e le aspettative delle imprese si realizzano (adverse selection).9

Mercato del lavoro e famiglia rappresentano dunque i due ambiti in cui si realizzano e perpetuano i differenziali. Come modificare le aspettative delle imprese e la divisione del lavoro all’interno delle famiglie per superare le asimmetrie di opportunità e di realizzazione di uomini e donne? La ricetta non è unica e, come testimoniano anche le esperienze dei diversi paesi europei, le modalità di approccio possono essere differenti; inoltre, politiche che pos sono dimostrarsi utili per incrementare la partecipazione non necessariamente sono di supporto quando l’obiettivo è la rimozione dei limiti alla carriera delle donne. Sul fronte della famiglia, sussidi alle spese per l’infanzia e offerta pubblica di servizi sembrano rappresentare elementi cruciali per l’ampliamento nelle opportunità delle donne. Possono aiutare a scardinare la percezione che i carichi familiari gravino in maniera sproporzionata su di esse. Quando però si discute di crescita professionale delle donne è importante chiedersi se misure dirette sul mercato del lavoro quali l’adozione di azioni positive possano fare la differenza. Lo scetticismo nei confronti di queste misure, in particolare dell’introduzione di quote di rappresentanza femminile, deriva principalmente dalla convinzione che queste possano costituire un “regalo” ai meno rappresentati e portino dunque, in ultima analisi, ad una riduzione della qualità media dei manager, dei consiglieri di amministrazione, dei politici o degli studenti, a seconda dell’ambito in cui le azioni positive vengono realizzate. Le azioni positive danneggerebbero gli stessi beneficiari, inadeguati a certi ruoli.

La recente letteratura nell’ambito dell’economia sperimentale10 getta una nuova luce sul ruolo delle azioni positive mirate alla partecipazione femminile. Risulta evidente che gli uomini siano più overconfident e competitivi delle donne, soprattutto se la competizione avviene in contesti misti. La riluttanza delle donne a competere può dunque spiegare parte dei differenziali osservati nelle performance di uomini e donne. L’introduzione di un sistema di quote che, ad esempio, richieda che tra due vincitori di una competizione almeno uno sia donna modifica la decisione di competere e cambia la composizione per genere del gruppo di concorrenti, non dando luogo ad alcun costo della pari rappresentanza.

Quote legali o volontarie sono diffuse tra i paesi europei sia in politica sia nelle imprese. In politica, Belgio, Portogallo, Francia e Spagna prevedono quote legali (rappresentanza femminile pari al 50% dei candidati nei primi tre paesi, 40% in Spagna), tutti gli altri paesi hanno quote volontarie a livello di partito. Quale la loro efficacia? Come sottolineato da Drude Dahlerup e Lenita Freidenvall,11 il successo delle quote dipende da diversi fattori: compatibilità con il sistema elettorale (maggioritario versus proporzionale), adeguato livello di sanzioni ed enforcement, ruolo attivo dei partiti, criteri chiari per l’applicazione sono ingredienti importanti per decretare il loro successo. Belgio e Spagna hanno raggiunto una presenza femminile in Parlamento pari rispettivamente al 37% e 35%. In Francia invece l’ostilità dei partiti principali alle quote e la candidatura delle donne nei distretti elettorali più difficili hanno di fatto segnato il fallimento dell’esperienza. Ma il valore simbolico positivo della legge rimane.

Anche nell’ambito delle imprese alcuni paesi si sono mossi in modo deciso verso l’adozione di azioni positive: in Norvegia è stata fissata una quota del 40% per i consigli di amministrazione, obbligatoria per le imprese pubbliche dal 2006 e per le private dal 2008. La presenza femminile nei consigli di amministrazione è balzata dal 28,6% del 2006 ad un eclatante 44,2% nel 2008. In Spagna una legge del 2007 ha fissato lo stesso obiettivo per le imprese quotate, dando un intervallo temporale di otto anni per raggiungerlo: dal 4,1% del 2006, la presenza femminile nei consigli di amministrazione è salita al 6,6%. Esperienze di quote si registrano anche in Belgio e in Olanda. In Svezia, pur in assenza di una previsione normativa, c’è un esplicito impegno da parte delle imprese ad avere più del 40% di donne nei consigli di amministrazione entro il 2010. In Italia sono state avanzate di recente alcune proposte che mirano al riequilibrio dei generi nell’accesso ai board delle società quotate e prevedono una modifica (a carattere temporaneo) del codice di autodisciplina di queste società per introdurre un numero minimo di due donne tra i consiglieri di amministrazione o il requisito che entrambi i generi abbiano una rappresentanza non inferiore a un terzo del totale degli amministratori presenti in consiglio.12

 

Conclusioni

Le possibilità delle donne di progredire nel lavoro, nella vita professionale e nella rappresentanza politica, pur se limitate, sono in aumento, anche se a diverse velocità nei vari paesi. Politiche espressamente dedicate a sostenere la partecipazione e la carriera femminile sembrano essere un ingrediente importante per consentire alle donne di raccogliere i frutti degli investimenti in istruzione. Il nostro paese è stato finora timido sia sul fronte delle politiche che influiscono sulla ripartizione dei compiti all’interno della famiglia, siano esse articolate sulla leva fiscale o sulla spesa, sia sul fronte degli interventi più diretti a sostegno della rappresentanza e partecipazione femminile nei vertici istituzionali e del mondo produttivo. Un rinnovamento del panorama politico con l’apertura a una maggiore presenza femminile potrebbe aiutare a muoversi decisamente in questa direzione. Avere più donne ai vertici della politica significa non solo una maggiore sensibilità verso alcune voci di spesa, tipicamente la spesa per le famiglie, ma anche promuovere un modello in cui sia la vita familiare sia quella lavorativa coinvolgono in ugual misura uomini e donne, e in cui queste ultime sono incentivate a raccogliere sul mercato del lavoro i frutti dei loro investimenti in istruzione, vedendo nelle loro rappresentanti modelli di opportunità di partecipazione e promozione.

 


 

[1] OECD, Gender and sustainable development, OECD, 2008.

[2] Dati Eurostat e Manageritalia, 2008.

[3] A. Goldstein, M. Gamba, The Gender Dimension of Business Elites: Italian Women Directors since 1934, in “Journal of Modern Italian Studies”, 2/2009, pp. 199-225.

[4] McKinsey&Company, Woman Matter, 2008; Catalyst, Catalyst Census of Women Board Directors of the Fortune 500, 2007; Cerved, Le donne al comando delle imprese: il fattore D, 2009.

[5] Cfr.: P. Lindert, The Rise in Social Spending 1880-1930, in “Explorations in Economic History”, 31/1994, pp. 1-37; J. R. Lott, L. W. Kenny, Did Women’s Suffrage Change the Size and Scope of Government?, in “Journal of Political Economy”, 107/1999, pp. 1163-98; T. S. Aidt, J. Dutta, E. Loukoianovac, Democracy Comes to Europe: Franchise Extension and Fiscal Outcomes, in “European Economic Review”, 50/2006, pp. 249-83; T. S. Aidt, B. Dallal, Female Voting Power: The Contribution of Women’s Suffrage to the Growth of Social Spending in Western Europe (1869-1960), in “Public Choice”, 134/2008, pp. 391- 417; G. Bertocchi, The Enfranchisement of Women and the Welfare State, mimeo, 2008.

[6] T. Cavalcanti, J. Tavares, Women Prefer Larger Government: Growth, Structural Transformation and Government Size, CEPR, Discussion Paper 5667, 2006.

[7] P. Funk, C. Gathmann, What Women Want: Suffrage, Female Voter Preferences and the Scope of Government, mimeo, 2008.

[8] R. Chattopadhyay, E. Duflo, Women as Policy Makers: Evidence From a Randomized Experiment in India, in “Econometrica”, 72/2004, pp. 1409-43.

[9] Si vedano ad esempio P. Francois, Gender Discrimation without Gender Difference: Theory and Policy Responses, in “Journal of Public Economics”, 68/1998, pp. 1-32 e D. Bjerk and S. Han, Assortative Marriage and the Effects of Government Homecare Subsidy Programs on Gender Wage and Participation Inequality, in “Journal of Public Economics”, giugno 2007, pp. 1135-50.

[10] Si veda ad esempio M. Niederle, C. Segal, L. Vesterlund, How costly is diversity? Affirmative action in light of gender differences in competitiveness, NBER, Working Paper 13923, 2008.

[11] D. Dahlerup, L. Freidenvall, Electoral Gender Quota Systems and Their Implementation in Europe: Report to the European Parliament, Bruxelles 2008.

[12] Roger Abravanel e Lella Golfo hanno avanzato queste due proposte.