L'expo al tempo della sfiducia nel futuro

Written by Carlo Freccero Thursday, 08 October 2009 19:53 Print

L’ingenuo ottimismo positivista che ha caratterizza­to le prime esposizioni della seconda metà dell’Ot­tocento ha ceduto il passo ad un sentimento di sfi­ducia. L’expo non è più, quindi, sinonimo di progres­so, ma piuttosto di ricerca di un rimedio a quegli eccessi che il progresso ha imposto come effetti se­condari e di riflessione su un discorso complesso che non può esaurirsi nella semplice messa in mostra di una serie di oggetti. Per questi motivi l’idea stessa di expo ha bisogno di un profondo ripensamento.

Il concetto di expo è legato a filo doppio ad un’idea di modernità che non ci appartiene più. I primi expo si collocano nella seconda metà dell’Ottocento, nel clima intriso della cieca fiducia nel progresso che caratterizza il pensiero positivista. Si viveva allora proiettati verso il futuro, e quel futuro era in parte già presente nelle sorprendenti invenzioni che la tecnologia forniva. L’expo nasceva dall’esigenza di mettere in mostra la vertiginosa accelerazione verso il progresso di un mondo ottimista e pragmatico. Niente sarebbe stato più come prima. E le città che avevano l’onore di ospitare l’expo ne uscivano sconvolte nel loro assetto urbanistico, più razionali e moderne, e conservavano la memoria dell’esposizione in una serie di monumenti che sopravvivevano all’evento. Il simbolo per eccellenza dell’expo è la Tour Eiffel di Parigi. Nessuno ricorda cosa andò in mostra nell’esposizione del 1889, ma la celebre Tour è diventata il simbolo della città.

Se confrontiamo il clima euforico dei primi expo con il clima depresso di oggi, non possiamo fare a meno di constatare che ci muoviamo ormai in un universo simbolico agli antipodi di quell’ingenuo ottimismo. Basta soffermarsi sull’oggetto delle esposizioni: allora una massa eterogenea di invenzioni accomunate dalla funzione di simbolo del progresso tecnologico; oggi una riflessione amara sui risultati presenti e futuri che quel progresso ci ha imposto: inquinamento, desertificazione, rivoluzione del clima, esaurimento delle risorse primarie, a cominciare dall’acqua e dal cibo. Due immagini del futuro si contrappongono: il futuro come speranza, luogo di benessere e di affermazione del nuovo e l’attuale fantasma del futuro, fonte di apprensione e di paura, teatro presunto di una serie di catastrofi annunciate.

Se dunque il concetto di futuro ci appare obsoleto è perché l’idea di progresso è andata perduta.

Chi è oggi abbastanza anziano da aver attraversato buona parte del Novecento ha conosciuto nella sua vita progressi strabilianti. È passato dal lume a petrolio alla luce elettrica. Ha superato, attraverso i viaggi e la comunicazione, l’isolamento spaziale che condannava i nostri antenati a nascere e morire in un unico luogo. Ha conosciuto la globalizzazione culturale attraverso il cinema, la televisione, internet. Si è liberato di buona parte del lavoro manuale con gli elettrodomestici e i robot industriali, dal lavoro impiegatizio con il computer. Ha sperimentato uno stato di continua comunicazione e connessione con il telefonino e il computer. In nessun’altra epoca storica si è conosciuta una tale accelerazione del progresso materiale.

Era logico che questo continuo spostamento in avanti, questo continuo arricchimento delle condizioni materiali di vita, generasse la speranza di prospettive analoghe per il futuro. La rivoluzione industriale non ha rappresentato solo un progresso tecnologico, ma anche la promessa di un progresso economico per tutti.

Oggi viviamo per la prima volta l’esperienza di un impoverimento, di un arretramento. Si dice che l’ascensore sociale si sia rotto, mentre per molte generazioni prima di noi era normale aspirare ad un benessere crescente di generazione in generazione. I figli erano più istruiti dei padri, avevano accesso ad impieghi migliori, il tenore di vita cresceva ed era destinato ad incrementarsi nel tempo. In ogni momento si poteva avere la percezione di un’agiatezza superiore al passato, ma ancora modesta, se paragonata alle prospettive future. C’era una promessa di benessere, felicità, successo e si collocava concretamente in un futuro giudicato possibile.

Per la prima volta questa continuità armoniosa tra generazioni nella prospettiva di una prosperità crescente di tutta la società si è interrotta. Per la prima volta i giovani pensano di avere un futuro più povero e incerto dei loro padri. Le conquiste del passato, lo Stato sociale, la non licenziabilità, le pensioni, sono lette come privilegi di cui la vecchia guardia sta godendo ancora a spese dei giovani, ma di cui questi giovani non potranno usufruire a loro volta.

Un futuro di ripiegamento, di impoverimento non è un futuro. Non ci proietta in avanti, ma all’indietro, non fa sognare, ma è, al contrario, oggetto di rimozione. Per la prima volta il futuro ci è ostile, ci fa paura e ci appare ineluttabile come una catastrofe naturale, un tifone, un uragano, pronto ad abbattersi sulle nostre vite senza che da parte nostra si possa fare alcunché, o forse niente, per evitarne le conseguenze.

Noi, quindi, consideriamo oggi – o almeno percepiamo a livello diffuso – il futuro come una sorta di pattumiera in cui si riversano tutte le scorie e le contraddizioni del presente. Siamo consapevoli non tanto delle nostre vittorie, quanto delle terribili conseguenze legate ad un uso sconsiderato delle risorse presenti. Ci sentiamo in colpa perché alteriamo per sempre il clima del pianeta con l’abuso delle risorse energetiche e dei combustibili fossili. Accumuliamo scorie tossiche e radioattive, sprechiamo cereali e mangimi per permettere ad una quota ristretta della popolazione mondiale di alimentarsi con cibi di derivazione animale, mentre la maggioranza degli abitanti della terra soffre la fame. Viviamo la nostra obesità come l’altra faccia della denutrizione del resto del mondo. E se nel Terzo mondo si muore di fame, nei paesi ricchi si muore ugualmente di malnutrizione, ma per eccesso. Tumori, ipertensione, disturbi cardiovascolari sono il risultato di un’alimentazione scorretta che ci avvelena e ci uccide.

La parola expo non è quindi oggi sinonimo di progresso, ma piuttosto di ricerca di un rimedio a quegli eccessi che il progresso ci ha imposto come effetti secondari.

L’ultimo expo ha avuto per tema la sete, il prossimo la nutrizione. C’è anche qui una sorta di progresso che studia come rimediare agli effetti di una industrializzazione irresponsabile e insensibile al tema del futuro e della preservazione delle risorse. Il pianeta si desertifica e la ricerca ci fornisce sementi idonee a sviluppare l’agricoltura in situazioni estreme in mancanza di irrigazione. Le risorse alimentari si assottigliano, ma le nuove tecnologie ci promettono raccolti più ricchi e sicuri. Tutto questo è però difficilmente rappresentabile. L’ingenuo ottimismo positivista poteva limitarsi a mettere in mostra la moltitudine dei marchingegni che gli inventori moderni sfornavano a ritmo serrato. I temi di oggi presuppongono un discorso complesso che non può esaurirsi nella semplice messa in mostra di una serie di oggetti. Il concetto di expo deve essere ripensato in profondità e nella sua stessa funzione.

Nell’epoca dell’immateriale e della comunicazione l’idea di luogo, di spazio definito e materiale, appare improvvisamente anacronistica. È un tema che Joshua Meyrowitz ha affrontato nel saggio “Oltre il senso del luogo”. Anche i luoghi reali, funzionali, si spogliano progressivamente delle loro caratteristiche individuali per diventare “non luoghi”, spazi tutti eguali dislocati in tessuti urbani diversi. Aeroporti, stazioni, casinò, luoghi di esposizione e di intrattenimento, hotel, auditorium, stadi, rappresentano zone franche, estranee allo spazio che le circonda, caratterizzate da un’identità di elementi estetici e architettonici con gli altri non luoghi. Un aeroporto è uguale in Europa e in America, nel Primo come nel Terzo mondo. Non ha tratti distintivi individuali, ma una sorta di extraterritorialità che lo rende percorribile senza coinvolgimenti emotivi ed estetici.

L’expo è in parte un non luogo. La sua funzione di contenitore lo rende astratto e indipendente dal territorio che lo ospita. Nello stesso tempo, però, la riqualificazione del territorio, l’investimento materiale in strutture architettoniche permanenti, rappresentano la vera motivazione per cui le città si candidano ad ospitare questo tipo di evento.

La competizione per ottenere la designazione a sede dell’esposizione non nasce tanto dall’interesse per il tema da sviluppare, quanto dall’idea che l’expo rappresenti comunque una grande occasione per promuovere lo sviluppo della città ospite. I finanziamenti porteranno ricchezza diffusa sul territorio. A fine lavori, le strutture architettoniche necessarie per ospitare la manifestazione avranno creato lavoro per buona parte della popolazione. E gli edifici realizzati resteranno come una risorsa per la città che ha ospitato l’evento.

Tutto ciò accompagna l’idea di expo sin dalle origini. Prima di interpellare esperti sul contenuto dei temi da sviluppare, le città convocano architetti e immobiliaristi per pianificare gli spazi dell’esposizione. E, come si è visto, quello che rimane delle esposizioni non è tanto la memoria delle conclusioni raggiunte, quanto la presenza di monumenti simbolo, dalla mitica Tour Eiffel al Bigo del Porto antico di Genova.

L’idea di esposizione presuppone uno spazio reale, tangibile, definito. Ancora, il successo dell’expo non si misura a livello economico o di obiettivi teorici raggiunti, ma dal numero dei suoi visitatori.

È un successo che presuppone uno spostamento reale nello spazio per il raggiungimento di un luogo definito, in un’epoca in cui i viaggi sono sempre più virtuali e i luoghi sempre meno reali. Perché all’epoca di internet milioni di persone dovrebbero mettersi in viaggio per raggiungere il luogo fisico della manifestazione?

Oggi per spostare le folle è necessario un evento. Può trattarsi di un evento sportivo, mondano, culturale. Sono eventi le olimpiadi e i tornei di calcio. Sono eventi le grandi cerimonie mediatiche come funerali e matrimoni. Sono eventi i grandi concerti di musica e le mostre d’arte di importanza internazionale.

Cosa fa di un accadimento un evento? La partecipazione di massa. È una sorta di corto circuito, di paradosso. Per spostare una massa di pubblico è necessario un evento, ma l’evento consiste proprio in questa partecipazione di massa. Gli spettatori che si muovono per un evento non sono interessati tanto all’evento in sé, quanto alla presunta partecipazione di massa che può mettere in moto. Chi va al funerale della celebrità o alla mostra d’arte di cui conosce ben poco è mosso dal desiderio di condividere con la maggioranza un frammento di storia, vuole poter dire: “c’ero anch’io”. Come può prevedere la partecipazione degli altri? Spesso un evento è tale perché ampiamente annunciato e pubblicizzato. Fare comunicazione oggi significa soprattutto creare eventi. L’expo è già, almeno sulla carta, un evento, perché nasce sulla premessa di un afflusso di massa.

Nello stesso tempo è esposto al rischio del fallimento se lo spostamento di massa non ha luogo o ha luogo in maniera limitata.

Oggi, un fallimento può risiedere anche in una mancanza di comunicazione. Il successo deve essere certificato dall’interesse dei media. E questo interesse incrementa e favorisce il successo reale che a loro volta i media registreranno e amplificheranno.

Per predisporre un evento futuro la comunicazione è essenziale.

Ma la comunicazione, come abbiamo visto, è essenziale anche per divulgare i contenuti dell’expo. Oggi l’esposizione non riguarda solo la natura materiale degli oggetti proposti, presuppone discorsi complessi che una semplice mostra non esaurisce. L’esposizione pura e semplice delle icone del progresso e della ricerca non ha più senso perché l’expo non è chiamato tanto a certificare il successo dell’ingegno umano, quanto a riflettere, a fare filosofia, a promuovere la “responsabilità a lungo termine” come ci insegna la Long Now Foundation.

Il concetto di responsabilità a lungo termine «nasce dalla consapevolezza che è importante pensare al futuro non solo in termini progettuali, ma anche comprendendo le ricadute delle scelte e dei progetti che possono aver luogo nel futuro». L’expo sulla nutrizione è quindi uno spazio in cui si raccolgono fisicamente le innovazioni e le tecnologie produttive che possono rispondere alle esigenze alimentari del pianeta, ma nello stesso tempo e forse in misura maggiore, un forum in cui discutere queste stesse tecnologie, il loro impatto sulle nostre vite e sul futuro del pianeta.

L’expo come spazio fisico ha bisogno di un doppio immateriale per esprimere compiutamente i contenuti immateriali che stanno sotto la presenza materiale delle cose. Ma ha bisogno di questo spazio virtuale anche per affermare la sua importanza, per trasformarsi in evento, per catturare l’attenzione del pubblico. È questo spazio virtuale che deve convogliare i visitatori verso lo spazio fisico della città.