La spettacolarizzazione mediatica del processo penale

Written by Donatella Stasio Tuesday, 09 February 2010 20:17 Print
Nell’antica Roma la giustizia era raffigurata come una dea con gli occhi bendati. Giudicare impone di non vedere: operazione impossibile in un universo saturo di immagini come il nostro. Oggi la benda è caduta e la giustizia si offre allo sguardo mediatico che tutto vuole sapere e vedere, subito. Basta un clic. Ma visibilità e conoscenza non viaggiano sempre insieme. Offrire il processo allo sguardo mediatico senza la mediazione del “rituale” giudiziario significa, spesso, mandare in scena uno spettacolo dell’assurdo che indebolisce giustizia e informazione, pilastri delle democrazie liberali. E non contribuisce a svelare il “mistero” del processo.

Una dea con gli occhi bendati, che si negano a ogni possibile gioco di sguardi. Così la mitologia romana raffigura la giustizia. Quella benda – simbolo di imparzialità, terzietà e distanza da passioni, umori, pregiudizi, sentimenti pubblici – è definitivamente caduta: in nome della trasparenza assoluta, la giustizia si offre allo sguardo mediatico che tutto vuole vedere e tutto vuole sapere. Subito. Stampa, televisione, internet, docu-fiction, talk-show: il processo penale del terzo millennio esce dalle aule giudiziarie con i suoi riti e i suoi simboli e si mediatizza. Basta un clic e il gioco è fatto. Un gioco rischioso, perché «lo sviluppo tecnologico dei nuovi mezzi di comunicazione – osserva acutamente Antoine Garapon, direttore dell’Istituto alti studi di Parigi – ha eccitato la pulsione voyeuristica e ha fatto assopire, al tempo stesso, il desiderio di una comprensione che vada al di là dell’immediatamente visibile».

I processi paralleli imbastiti dai media – con tanto di attori, esperti, opinionisti – più che soddisfare il diritto dell’opinione pubblica di essere informata e il diritto-dovere dell’informazione di raccontare i fatti inseguono spesso una verità emotiva, diversa tanto dalla verità processuale quanto da quella storica. Con il risultato di lasciare l’opinione pubblica con l’amaro in bocca, di suscitare disorientamento, confusione e sfiducia nella giustizia.

Nulla è più assurdo di ciò che non si riesce a capire. Il processo è un “mistero”, scriveva Salvatore Satta, ma la sua messa in scena mediatica rischia di trasformarlo in una pièce di Eugène Ionesco, dando l’immagine di una giustizia grottesca, contraddittoria, oscura. Informazione, infatti, non fa sempre rima con semplificazione, neppure nell’era della comunicazione globale. Il processo mediatico, nel ricostruire una vicenda giudiziaria in corso, si impossessa di schemi, riti, procedure e simboli propri della messa in scena giudiziaria e li riproduce con tempi, modalità e linguaggi propri dei media; il voyeur è soddisfatto, il curioso pure, molto meno il cittadino che deve farsi un’opinione. La rappresentazione “semplificata” della realtà processuale non ne agevola la conoscenza. Spesso la confonde. Non di rado la distorce. E tuttavia, lo spettacolo mediatico dell’assurdo, alternativo e parallelo a quello che si svolge nell’aula di udienza, forma un convincimento collettivo, apparentemente democratico e genuino, destinato a radicarsi al punto che, se la sentenza del giudice non coincide con quella mediatica, si insinua il dubbio – per molti, la certezza – che la decisione sia ingiusta. E ciò va ben al di là del legittimo diritto di critica.

Sradicare il processo dal suo alveo naturale non contribuisce a svelarne il “mistero”. Quelli che sbrigativamente vengono considerati orpelli giudiziari, sono in realtà strumenti indispensabili per comprendere il senso del processo e, soprattutto, per garantire la “giusta distanza” del giudice dall’accusato, lontano dalle luci della ribalta e dai sentimenti collettivi. Offrire il processo allo sguardo mediatico senza il filtro del “rituale” giudiziario può diventare una scorciatoia insidiosa sulla via della conoscenza e indebolire la giustizia, con ricadute negative sulla qualità della democrazia. «Giudicare impone di non vedere », sosteneva Hannah Arendt, perché solo chiudendo gli occhi si diventa spettatori imparziali. Operazione non facile in un universo saturo di immagini (spesso ritoccate) come il nostro, in cui lo spettatore – giudice o opinione pubblica – finisce per reagire, invece di agire.

Processi in prima pagina

Nel dicembre 2009, la Corte d’assise di Perugia condanna Amanda Knox, cittadina americana, e Raffaele Sollecito, pugliese, a 26 e 25 anni di carcere per aver ucciso Meredith Kercher, cittadina inglese, in una villetta di Perugia, dove i tre ragazzi studiano. La notizia viaggia sulle prime pagine dei media, nazionali e internazionali, che hanno seguito in tempo reale il processo. Via internet, l’opinione pubblica mondiale si divide tra innocentisti e colpevolisti: molti gli americani indignati per il funzionamento della giustizia italiana, soddisfatti invece gli inglesi, mentre il resto del mondo si divide più o meno equamente in opposte tifoserie. Il caso raggiunge il cuore della Washington politica, al massimo livello: il segretario di Stato Hillary Clinton assicura che ascolterà chiunque nutra dubbi e preoccupazioni su com’è stata gestita la vicenda giudiziaria di Amanda, considerata da molte TV statunitensi “vittima” di una giustizia a dir poco bizzarra.

Il processo di Perugia è uno dei tanti casi di spettacolarizzazione mediatica del processo penale. Non l’unico: dal delitto di Cogne a quello di Garlasco, dal processo Mills-Berlusconi per corruzione giudiziaria a quello nei confronti di Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa, lo sguardo mediatico segue ormai passo passo l’andamento della giustizia, spesso anticipandolo nei talk-show, su Facebook, Twitter, YouTube. Processi al processo o processi paralleli, concentrati su alcuni passaggi ritenuti decisivi, come un’intercettazione telefonica, una testimonianza, una perizia, un indizio. Giudici, avvocati, testimoni diventano ospiti ricercatissimi, l’imputato addirittura una star e si gioca sul suo profilo psicologico, cosicché, al di là di prove, riscontri, alibi, moventi, se ne possa sostenere l’innocenza o la colpevolezza, se non addirittura la sua inclinazione a delinquere, magari ricorrendo al “televoto”. La giustizia, insomma, si fa spettacolo anche se, dietro le quinte, c’è spesso già una tesi, messa sapientemente in risalto, sia pure in modo subliminale.

La scena mediatica si sovrappone a quella giudiziaria, l’assorbe, la sovrasta, qualche volta la condiziona e la manipola. Spesso la svuota, delegittimandola.

Se è il tono che fa la musica, c’è, ad esempio, una differenza sostanziale tra l’ascoltare dal vivo le voci di una conversazione telefonica intercettata – soprattutto quando le parole non sono univoche – e leggerne invece sui giornali la trascrizione. Ciascuno darà alle parole e alle frasi degli intercettati intonazioni e sfumature diverse, tali da aggiungere o togliere significato a ciascuna di esse. Lo stesso accade se a leggere la trascrizione sono attori professionali o improvvisati nell’ambito della ricostruzione teatrale o televisiva di una vicenda giudiziaria in corso. Persino il pubblico presente nell’aula di udienza durante il dibattimento si accorge che la stessa conversazione intercettata può rivelare “verità” diverse a seconda che a leggerla sia il pubblico ministero oppure la difesa.

La lunga deposizione del pentito Gaspare Spatuzza nel processo Dell’Utri e poi quella, discordante, del boss di Brancaccio Filippo Graviano, sono state lette sui giornali, ascoltate in diretta o in differita, cliccate sul web, in Italia e nel mondo, scatenando il gioco delle ipotesi sulle strategie della mafia e sui suoi rapporti con la politica, nonché sul ruolo del presidente del Consiglio. Come se fosse una partita di calcio, in cui l’arbitro, però, non è il giudice, il campo non è l’aula d’udienza, le regole non sono quelle del codice, e come se il novantesimo minuto fosse già scaduto. Finito lo spettacolo, il pubblico ha il suo vincitore. E se il processo ha un epilogo diverso, o è truccato o è una farsa. Comunque è ingiusto.

È la “democrazia diretta”, bellezza! Ma è proprio così?

Il libero convincimento dell’uomo della strada informato è sacro quanto il libero convincimento del giudice formatosi in dibattimento. I media, a cominciare dalla TV, sono diventati l’agorà dei nostri tempi, con la differenza che, nell’Atene del V secolo a.C., nell’agorà ognuno poteva sostenere una tesi e controbattere a quella dell’altro, mentre lo spettatore televisivo assume passivamente l’informazione. Anche quando va in onda il contraddittorio di esperti – più o meno strillato, più o meno bipartisan – egli non è mai vero protagonista, ma succube dello spettacolo confezionato ad uso e consumo dell’audience, del mercato.

La verità storica non sempre coincide con quella processuale. Men che meno con quella mediatica. Emblematico è un altro caso giudiziario finito sotto i riflettori: il delitto di Garlasco si è concluso con l’assoluzione di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, la sua giovane fidanzata. Ragazzo no-fiction, freddo, taciturno, antipatico quanto basta per vestire i panni di un ambiguo eroe negativo, il colpevole ideale in presenza di una montagna di indizi, ma di nessuna prova certa, quali l’arma del delitto, il movente, l’alibi. «L’assoluzione è stata la sconfitta del processo mediatico», ha osservato il professor Franco Coppi, penalista di fama. Il giudice di Vigevano «è stato veramente terzo», ha aggiunto. E «solo », come dev’essere un giudice.

Per condannare, è necessario che l’imputato risulti colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio », dice il codice di procedura penale, attingendo dagli americani una formula che rivela i limiti insiti nell’atto del giudicare. «La saggezza del giudizio – scrive il filosofo Paul Ricoeur – si rivela attraverso fragili compromessi non tanto tra il male e il bene, il bianco e il nero, quanto tra il grigio e il grigio o, nel caso sommamente tragico, tra il male e il peggio». E Garapon, a chi reclama dalla giustizia perfezione, ricorda che, in una democrazia, essere un buon giudice esige «la permanente elaborazione del lutto di una giustizia perfetta».

Il paese di Kafka?

Perugia, Garlasco, Palermo hanno portato la giustizia italiana sulla ribalta mediatica e il nostro processo è apparso una farsa o, comunque, un luogo kafkiano. Nessun “errore giudiziario” in senso tecnico ha macchiato le tre vicende, ma è come se una larga fetta dell’opinione pubblica – anche internazionale – avesse introiettato quella convinzione o, comunque, l’idea di un “assurdo giudiziario”.

La verità mediatica ha anticipato quella processuale e l’ha scalzata a prescindere dal «dato di fatto» che – scriveva la Arendt puntando il dito contro la «fabbricazione delle immagini» nelle democrazie di massa – viene sostituito spesso dalla menzogna. Il progresso delle tecniche di comunicazione se, da un lato, alza il livello delle libertà, e quindi della democrazia, dall’altro lato ha un potenziale di distorsione dei fatti tale da sostituire un mondo fittizio a quello reale. Tanto più se il pluralismo dell’informazione è tradito da concentrazioni di potere o da conflitti di interessi. Di qui la necessità che anche l’informazione (come la giustizia) sia costantemente ancorata ai fatti e che, altrettanto costantemente, si faccia carico della complessità del processo, di regole, riti e simboli che mal si adattano, forse, alla semplificazione mediatica, ma che danno un senso al “mistero del processo”.

Ciò non significa tarpare le ali ai media. Il controllo sociale sulla giustizia è garantito dalla pubblicità del processo e dall’obbligo di motivazione imposto al giudice, ma anche da un’informazione libera, trasparente e responsabile. Il “giudiziario” è un genere che da sempre appassiona l’opinione pubblica e da sempre riempie teatri, cinema, libri, quotidiani. Metterlo sotto silenzio sarebbe antidemocratico e anacronistico. Ma il palcoscenico mediatico è diverso da quello dell’aula di udienza, e diverso è soprattutto il suo linguaggio.

Nel “recinto” dell’aula di udienza, ciascuno ha un ruolo preciso e può intervenire nella ricostruzione della realtà senza prevaricare gli altri grazie al rispetto di quel corredo rituale che all’esterno appare incomprensibile. Luogo, tempi, procedure, regole sono garanzia di trasparenza. La visibilità è un’altra cosa. Il processo consente di contestare anche l’evidenza mediante il contraddittorio, ovvero il confronto tra accusa e difesa. Ogni versione dei fatti trova posto in questo recinto, nel rispetto di regole del gioco prestabilite e accettate.

I media, che si propongono come strumenti più fedeli dei diversi punti di vista e, quindi, più democratici, si muovono invece in un non-spazio e in un non-tempo in cui ogni verità è possibile, a differenza di quanto avviene sulla scena giudiziaria. La pubblicazione integrale di un documento processuale può non aver alcun significato al di fuori del “fascicolo” del processo. La deposizione di un pentito o di un testimone può dire molte cose o non dirne alcuna fuori dal contesto dei riscontri. La mera visibilità può far scattare la pigrizia o, al contrario, l’incredulità. La procedura, invece, costringe a provare anche l’evidenza ed è la via maestra per la costruzione dialettica della realtà. La mediazione del simbolo è quindi importante per decifrare il reale. Vedere tutto, sapere tutto può significare non capire nulla se manca un punto di riferimento comune ed esplicito.

Questo, forse, è il senso della benda sugli occhi della giustizia. «Chiudendo gli occhi si diventa spettatori imparziali, non toccati direttamente dalle cose visibili», ammoniva la Arendt. La quale peraltro, con il suo reportage sul processo contro Adolf Eichmann, uno dei responsabili dello sterminio degli ebrei, aveva saputo vedere “oltre” la verità processuale, sostenendo che il funzionario nazista non era un “mostro” ma un uomo “normale” e che le peggiori atrocità possono scaturire da ciò che è apparentemente innocuo, dalla “normale passività” della vita quotidiana di milioni di individui. «La triste verità – scrisse, scatenando un vespaio di polemiche nell’opinione pubblica – è che il male è compiuto il più delle volte da coloro che non hanno deciso di essere o agire né per il male né per il bene». Una verità triste e banale, che ancora oggi aiuterebbe a comprendere – meglio dei tanti riflettori mediatici – il mistero del processo.