Università e ricerca: il Partito Democratico al bivio

Written by Alessandro Schiesaro Friday, 29 February 2008 15:53 Print
Il Partito Democratico ha di fronte a sé una scelta radicale in materia di università e ricerca: se schierarsi davvero, non solo a parole, dalla parte delle riforme, anche al rischio di alienarsi qualche simpatia, o colludere con l’inesorabile declino di un sistema ormai avvitato su se stesso. Al vizio nazionale del piangersi addosso corrisponde purtroppo quello di consolarsi facilmente. È vero che l’Italia ha ancora qualche carta da giocarsi sul fronte della ricerca. Ma qualunque osservatore senza pregiudizi rileva senza incertezze uno stato di crisi profonda: un’università burocratica, iperregolata, infeudata, marginale nel mondo della globalizzazione, come dimostrao i pochi studenti e i pochissimi docenti che dall’estero scelgono di venirci a studiare o lavorare. E poi, un’università vecchia, in cui si entra ormai a quarant’anni perché si va in pensione a settantacinque, dieci anni dopo che nel resto del mondo. Soprattutto, un’università incapace di ripensare se stessa anche quando i nostri vicini di casa, inclusi quelli inizialmente più cauti, dalla Spagna alla Francia alla Germania, hanno finalmente messo mano a progetti ambiziosi di rinnovamento.

Il declino si può forse arrestare, ma solo con una riforma davvero incisiva. Una riforma, si badi, che per avere successo deve essere l’ultima, deve cioè smantellare l’impostazione centralistica, regolatoria e corporativa dell’accademia. Dopo, all’autorità centrale dovranno spettare «solo» compiti di indirizzo, valutazione e allocazione delle risorse. Questo, e non altro, è il suo ruolo, non quello di microregolare e microgestire un sistema ormai troppo complesso e articolato. Resta da vedere se il PD vuole assumersi questo compito. Il centrosinistra ha speso cinque anni di opposizione elaborando, convegno dopo convegno, proposta su proposta, una strategia di rilancio basata su un forte impianto riformatore. Ma una volta al governo i buoni propositi si sono in gran parte dispersi al vento. Ora siamo di fronte a uno spostamento a sinistra dell’azione di governo su questi temi, a una sintonia sempre più marcata con settori a sinistra del PD che esprimono posizioni di fatto conservatrici e trovano facili alleanze nei conservatori di altri schieramenti, visto che in nessun altro campo le resistenze al cambiamento sono tanto bipartisan. Si parla molto di valutazione e di merito, ma la finanziaria consente l’assunzione dei precari nella pubblica amministrazione ignorando i vincitori di concorso. Le voci per misure consimili anche nel comparto università e ricerca sono già robuste. O si fa fronte a questa deriva con un progetto intellettualmente rigoroso, o la ricerca italiana (s’intende: condotta in Italia) non avrà speranze. Sarebbe utile sapere presto come intende muoversi il PD, se assecondando la visione corporativo-assistenziale espressa da alcuni settori della sinistra o schierandosi senza esitazioni dalla parte del merito.

La missione è difficile ma emozionante: fare di nuovo dell’università e della ricerca il motore di una crescita sociale e individuale oggi sempre più deboli. Per portarla a termine bisogna saper spiegare agli studenti e ai docenti che ci si deve mettere in gioco: concorrendo per posizioni accademiche in cui il merito individuale faccia gioco su ogni altro fattore; costringendo gli atenei a competere tra loro non con la pubblicità sui giornali, ma con la qualità della loro ricerca e del loro insegnamento; concorrendo per un sistema nazionale di borse di studio che attenui un localismo ormai grottesco in cui l’offerta di corsi sotto casa determina la domanda. Le statistiche dimostrano che gli studenti provenienti da classi meno agiate esitano a scegliere corsi impegnativi, pur avendone i requisiti, perché naturalmente più preoccupati di un eventuale fallimento rispetto a chi frequenta le università da generazioni. L’abbassamento della qualità e la proliferazione di corsi «facili» creano quindi ghetti culturali a diretto svantaggio di chi più avrebbe da guadagnare da una formazione rigorosa e remunerativa.

Di concorsi e reclutamento si parla davvero troppo, ma a furia di abitudine si rischiano di perdere di vista due aspetti del tutto anomali dell’attuale sistema universitario: a) che si dibatte senza posa da anni come si deve diventare professori universitari; b) che siamo oggi l’unico paese al mondo (c’è da scommetterci), in cui è tecnicamente impossibile diventarlo. Il dibattito quasi permanente sulle regole è indice di una grave patologia del sistema.

L’università, l’innovazione, la ricerca, sono al centro del dibattito politico e culturale in molte parti d’Europa e del mondo, ma i temi sono del tutto diversi. A nessuno viene in mente di discutere all’infinito se i concorsi debbano essere locali o nazionali, le alchimie su come formare le commissioni, l’allocazione di posti a categorie riservate. Si dà per scontato che, tecnicismi a parte, lo scopo della selezione debba essere comunque la scelta dei migliori candidati disponibili, e quindi poco importano, in fondo, le modalità con cui si ottiene questo risultato. È agevole istituire un parallelo con la discussione, anch’essa praticamente ininterrotta, che si svolge in Italia da oltre dieci anni sul sistema elettorale. Siamo un paese in cui lo scontro sulle regole offusca quello sul merito e la sostanza.

Ma, appunto, siamo anche un paese in cui è oggi impossibile diventare associati o ordinari, perché esiste una legge, invero brutta, approvata due anni fa, inutilizzabile per mancanza dei regolamenti ma non ancora sostituita non si dica da una nuova legge, ma neppure da una proposta. Ai tempi del famigerato blocco delle assunzioni imposto dal centrodestra il presidente Ciampi ammoniva che la vendemmia si deve fare ogni anno, scarsa o abbondante che sia. Sarebbe utile ricordarsi di questo monito anche oggi che al blocco delle assunzioni ha fatto seguito quello dei concorsi voluto dal centrosinistra.

Una situazione tanto anomala non può non avere conseguenze gravi, e infatti le sta avendo. Ma la distruzione graduale di un sistema è un processo i cui esiti non si colgono in diretta. L’Italia non ha ancora metabolizzato il fatto che i rivolgimenti geopolitici degli ultimi vent’anni ne hanno cambiato in profondità, e per sempre, il ruolo sullo scenario internazionale. Per capire davvero che il nostro sistema universitario è fuori gioco in termini globali ci vorranno molti anni, e, ovviamente, allora sarà troppo tardi per trovare rimedio. Fallaci e imperfette che siano, le statistiche internazionali non collocano nessuna università generalista italiana prima del centesimo posto, fotografando una situazione di oggettiva marginalità che tanto più colpisce quanto più è evidente la presenza di altre nazioni europee ai primi posti della classifica. Avrà certamente torto l’arbitro, come sempre quando perde la nazionale, ma… Le cause del disastro sono note. La novità di questi tempi, semmai, è politica. Nell’anno e mezzo di governo del centrosinistra è stato varato qualche provvedimento regolamentare, si è posto un argine ad alcune degenerazioni del sistema, dalle lauree in convenzione agli atenei telematici fantasma, ma quanto agli interventi strutturali di riforma il bilancio è magro. Le nuove regole per selezionare i ricercatori restano di là da venire, mentre proprio in questi giorni partono i concorsi con le vecchie regole nel tripudio di chi vede come fumo negli occhi una riforma che rischia di introdurre qualche ostacolo in più alle spartizioni decise a tavolino. L’Agenzia per la valutazione giace anch’essa nel limbo, ma intanto sono fortissime le polemiche per limitarne a priori i compiti, soprattutto se si tratta di farle verificare dopo qualche anno il profilo scientifico dei ricercatori assunti dalle università. Sono molti i fautori di un’ANVUR che organizzi tavole rotonde e produca dotte statistiche, purché si guardi bene dall’incidere in alcun modo sulla vita dell’università. Quel che più colpisce è che manca, ad oggi, una proposta governativa sui concorsi: il silenzio lascia intuire che lo status quo, in fondo, non dispiaccia, che la straordinaria anomalia di un paese impossibilitato a scegliere nuovi professori sia considerata, in fondo, business as usual. Nel frattempo si moltiplicano le voci di un gigantesco inciucio bipartisan per varare nuove regole in materia ripescando, pare, tutto il repertorio di scena più consunto: elezioni a ogni piè sospinto, microgruppi disciplinari, consorterie, cordate e cartelli. Staremo a vedere.

Ci sono vie d’uscita? Difficile dirlo. Nel breve periodo non si può far altro che mettere in funzione la legge Moratti, oppure cassarla e ripristinare a tempo le regole concorsuali che essa cancellava. Si noti, per inciso, che con le modifiche apportate in extremis nel 2005 le vecchie e nefaste regole introdotte nel 1998 erano in teoria decorose, a riprova del fatto che i problemi non sono poi solo, o soprattutto, frutto di regole sbagliate.

L’università italiana seleziona il proprio personale docente, com’è naturale, per cooptazione. Il problema consiste nel fatto che questa cooptazione spesso trascura una valutazione corretta dei meriti; si basa per prassi antica su cordate, alleanze o scuole; erige barriere di fronte a candidati «altri», siano essi stranieri, italiani all’estero, o anche solo appartenenti ad altre scuole nazionali: manca insomma di quella solidità di valori e flessibilità di comportamenti che sole possono garantire il fiorire della scienza. L’università, in altre parole, si comporta esattamente secondo gli schemi e le procedure con cui funziona larga parte dell’economia e della società italiane. Un’imprenditoria a carattere massicciamente familiare, diffidente del mercato e della borsa, ansiosa di garantire la successione all’interno del clan anche a costo di ridurre l’accesso ai capitali di rischio o l’utilizzazione di risorse umane di alto livello, poco incline alla competizione internazionale, dominata in buona parte da gruppi ristretti di potere finanziario, riuniti in salotti più o meno scelti. L’economia, in poche parole, in cui le azioni si pesano e non si contano. È facile inveire contro i concorsi pilotati o la rigidità delle scuole accademiche, ma l’Italia non è, nel complesso, terra da OPA o da public company, piuttosto da patti parasociali e da scatole cinesi, oppure, naturalmente, da salvataggi di Stato: l’equivalente economico dell’ope legis.

L’università italiana non è altro che un esempio macroscopico e particolarmente rigido di monopolio protetto, chiuso per vaste aree alla competizione internazionale, strutturalmente alieno dalla logica della meritocrazia, della responsabilità individuale, della dialettica che scaturisce non da logiche di appartenenza ma di valutazione spassionata, e fortemente resistente allo scrutinio esterno. Il ruolo di consiglieri indipendenti è osteggiato nell’università come nell’economia italiane, con la conseguenza che negli atenei il CdA non costituisce un reale elemento di controllo della gestione. Viene spontaneo chiedersi quale Board of Trustees avrebbe mai consentito l’assunzione in massa delle migliaia di idonei creati in seguito alla riforma del 1998, una manovra che ha devastato i bilanci degli atenei e contribuito a lasciare alle porte migliaia di studiosi giovani. Qualcuno sta provando a cambiare, ma non è facile. Il rettore di Camerino, Fulvio Esposito, si è appena dimesso dopo che il senato accademico ha deciso per un voto di non procedere alla trattazione formale di una proposta di nuovo statuto elaborata in mesi di lavoro e consultazioni. Proposta eccellente, ma con un difetto innegabile: ridisegnava la mappa dei poteri intaccando alcune posizioni di rendita consolidate. Un tentativo analogo è in corso al Politecnico di Torino per opera del rettore Francesco Profumo, speriamo con esito diverso.

Il disastro in cui versano i meccanismi della docenza universitaria sono quindi solo un aspetto della più generale mancanza di competitività del sistema Italia: la competitività verso l’esterno presuppone infatti competizione e selezione all’interno del sistema. Il male comune non rallegra, ma spinge a comprendere che le trasformazioni di cui l’università italiana ha impellente bisogno si inseriscono nella più generale necessità del nostro paese di avviarsi verso forme organizzative che attribuiscano maggior peso alla responsabilità e alle potenzialità dei singoli soggetti, consentano una competizione certo non selvaggia ma limpida, offrano meccanismi di incentivazione e disincentivazione sulla base dei risultati, siano più attente al dato economico non certo, in questo caso, come fine, ma come inevitabile metro di misura della virtuosità dei comportamenti istituzionali.

Le occasioni perdute per iniettare dosi massicce di libertà, responsabilità e autonomia nel nostro sistema universitario sono state ormai troppe, e risistemare alla meno peggio le poltrone sulla tolda del Titanic costituirebbe l’ennesimo spreco di tempo. Bisogna invece ridare speranza e senso dell’opportunità agli studiosi del futuro, e ai lavoratori e alle imprese che altrimenti si accorgeranno presto (ma sarà già troppo tardi) di cosa significa vivere nella knowledge economy globale quando in casa propria di knowledge se ne produce poca, e magari neppure tanto buona.