Il Protocollo di Kyoto e la rivoluzione energetica

Written by Gianni Silvestrini Friday, 29 February 2008 16:36 Print

A dieci anni dalla sua firma è possibile fare un bilancio della fase di avvio del Protocollo di Kyoto. La complessa macchina organizzativa predisposta per far fronte al rischio dei cambiamenti climatici ha rappresentato il primo tentativo della ecodiplomazia di rispondere a una sfida ambientale planetaria, dopo il successo del Protocollo di Montréal del 1988 che aveva regolamentato l’impiego dei clorofluorocarburi (CFC) in difesa dello strato di ozono stratosferico. Gli interessi economici coinvolti nelle emissioni dei gas serra sono però molto più elevati rispetto a quelli toccati dall’eliminazione dei CFC e questo spiega le difficoltà registrate all’entrata in vigore dell’accordo firmato a Kyoto e gli attacchi a cui è sottoposto.

Ma, prima ancora che si inizino a contare le emissioni, gli occhi sono già puntati sul destino della fase post Kyoto. Nei prossimi due anni si vedrà, infatti, se si riuscirà a raggiungere un accordo che coinvolga tutti i paesi del pianeta. Grazie al ruolo dell’Europa, che definendo in maniera unilaterale i propri obiettivi al 2020 ha mantenuto aperto il percorso negoziale, le prospettive sono moderatamente positive.

Le emissioni mondiali crescono velocemente malgrado Kyoto Gli obiettivi del trattato firmato a Kyoto nel 1997 miravano a una riduzione, nel quinquennio 2008-12, delle emissioni climalteranti dei paesi industrializzati (con l’eccezione dei CFC/HCFC, potenti gas serra già regolamentati dal Protocollo di Montréal per l’impatto sull’ozono) del 5,2% rispetto ai livelli del 1990. In questa prima fase, i paesi in via di sviluppo erano stati esclusi da specifici impegni, alla luce della loro marginale responsabilità passata nell’incremento delle concentrazioni atmosferiche dei gas serra e della consapevolezza che la fase di crescita economica sarebbe stata incompatibile con eventuali obiettivi di riduzione. Era però implicito, già all’atto della firma del Protocollo, che in una seconda fase anche questi paesi sarebbero stati coinvolti nel contenimento delle emissioni. Su scala mondiale l’effetto di Kyoto doveva essere quello di ridurre nel periodo considerato la crescita del principale gas serra, l’anidride carbonica, dal 45% al 30%. In realtà le emissioni saranno del 50% più alte rispetto al 1990. Al momento della firma del Protocollo si erano infatti sottovalutate sia le dinamiche della crescita economica mondiale che le resistenze di alcuni paesi (soprattutto, ma non esclusivamente, degli Stati Uniti).

In particolare, non era stato previsto l’aumento vertiginoso delle emissioni della Cina, che nel 2007 dovrebbero sorpassare quelle degli Stati Uniti, oltre a quelle dell’India e di altri paesi in via di sviluppo. Inoltre, le emissioni degli Stati Uniti, non più sottoposte agli obblighi del Protocollo, hanno fatto saltare tutte le previsioni.

Ma anche diversi paesi vincolati dal Protocollo sono comunque in affanno. Spagna, Canada, Italia e Giappone nel 2004 registravano rispettivamente emissioni del 48%, 27%, 12% e 6% superiori rispetto ai valori del 1990. Sono dunque raggiungibili gli obiettivi decisi a Kyoto? Il successo di alcune politiche (fonti rinnovabili, efficienza energetica, cambiamento del mix di combustibili) da parte degli Stati più impegnati dimostra che il percorso di riduzione delle emissioni è praticabile in presenza di un’adeguata volontà politica e del sostegno dell’opinione pubblica. Germania e Gran Bretagna, ad esempio, hanno ridotto le emissioni in coerenza con gli impegni presi (-17%, -14%).

Questi primi altalenanti risultati vanno confrontati con i drastici tagli che la comunità scientifica ha indicato come indispensabili per limitare i danni del riscaldamento globale del pianeta: stabilizzazione delle emissioni mondiali entro vent’anni e dimezzamento delle stesse entro il 2050.

Prime riflessioni sull’avvio del Protocollo I target stabiliti a Kyoto erano modesti rispetto agli scenari di riduzione necessari sul medio e lungo periodo e gli obiettivi adottati avranno sostanzialmente il risultato di azzerare la crescita dei gas climalteranti dei paesi industrializzati. D’altra parte va considerato il fatto che, per molti paesi, questi obiettivi rappresentavano una sfida impegnativa, implicando la capacità di far funzionare le economie con emissioni inferiori del 25-35% rispetto agli scenari tendenziali.

Resta valido il giudizio positivo di fondo: Kyoto rappresenta una sfida ambiziosa, ma al tempo stesso si rivela un obiettivo di riduzione del tutto inadeguato. Si è trattato comunque di un accordo di portata enorme, non tanto per i risultati attesi, ma per il fatto di aver aperto la strada a un percorso negoziale rivolto a tutti i paesi (sono 156 i firmatari) e aver posto le basi per gli impegni dei prossimi decenni.

Cogliere le opportunità, attrezzarsi per il cambiamento La riduzione delle emissioni necessaria per «decarbonizzare» le economie nel corso di questo secolo implica innanzitutto una rivoluzione energetica, ma anche un ripensamento del settore dei trasporti, una revisione delle modalità di costruzione degli edifici e di funzionamento dei cicli produttivi, probabilmente anche una ridiscussione delle tipologie di prodotti immessi sul mercato.

La comprensione delle trasformazioni necessarie ha consentito ad alcuni paesi di attrezzarsi per tempo, cogliendo così le opportunità offerte agli «anticipatori». Ed è interessante notare come la diversa posizione rispetto alla sfida dei cambiamenti climatici abbia già indotto trasformazioni significative nelle politiche dei vari paesi.

Prendiamo l’esempio di Stati Uniti ed Europa. Negli USA la posizione di rifiuto del Protocollo, e più in generale la diffidenza nei confronti del global warming, ha determinato un’azione di basso profilo, quando non addirittura di freno nei confronti di politiche attive di riduzione delle emissioni.

È successo quindi che diverse istituzioni locali nordamericane abbiano assunto posizioni più avanzate rispetto a quelle del governo federale, che è arrivato a bloccare alcune misure, come i limiti ai consumi delle auto imposte in California. Nel caso degli obblighi per i produttori elettrici di garantire quote di elettricità verde (Renewable Portfolio Standards) già in vigore in diciassette Stati, questi sono stati, sì, approvati ad agosto dal Congresso con l’obiettivo del 15% al 2020, ma rischiano di subire il veto da parte di Bush.

Una situazione diametralmente opposta si è registrata in Europa, dove la Commissione, in particolare attraverso alcune direttive sull’efficienza energetica e sulle fonti rinnovabili, ha stimolato i singoli governi a svolgere un ruolo più incisivo.

Il risultato di questo diverso atteggiamento rispetto alla minaccia del clima è ormai evidente in alcuni settori. Analizzando l’accelerazione mondiale degli investimenti nelle fonti rinnovabili si nota come nel 2006 il loro fatturato abbia raggiunto i 55 miliardi di dollari, il 39% in più rispetto all’anno precedente. L’Europa, grazie alla sua partenza anticipata, ha acquisito la leadership mondiale in queste tecnologie, mentre gli USA hanno perso una decina di anni.

Naturalmente la riflessione sul diverso tempismo nel cogliere le occasioni è valida anche all’interno dell’Europa stessa. La Germania, che ha investito molto sulle fonti rinnovabili, ha creato in pochi anni un comparto industriale con 215 mila addetti, mentre altri paesi, come l’Italia, sono molto indietro.

Gli obiettivi del 2020 Forse il segnale più chiaro dei cambiamenti che ci attendono, in seguito alla definizione dei vincoli climatici, è dato dall’obiettivo vincolante, adottato dalla UE, di coprire il 20% dell’energia con le fonti rinnovabili entro il 2020.

Per rendersi conto della portata di questa decisione si consideri che per il raggiungimento del target occorrerà, nei prossimi tredici anni, triplicare la quota di energia verde, prodotta dall’intero sistema idroelettrico costruito nel secolo scorso, dai 48 GW di eolico, dai quasi 20 milioni di mq di impianti solari termici, dagli oltre 60 Mtep (milioni di tonnellate di petrolio equivalente) da biomassa, ecc.

Gli investimenti necessari alla sola produzione di elettricità verde saranno superiori alle risorse che verranno destinate alla costruzione di nuove centrali termoelettriche, e già questo dato indica il ribaltamento delle scelte in atto.

La situazione italiana L’Italia è in forte ritardo anche in seguito al prevalere, negli anni scorsi, di una logica difensiva (si pensi alle ripetute polemiche sugli alti costi di Kyoto) che ha impedito la formulazione di una politica incisiva.

Questo fatto, oltre ad avere portato le emissioni climalteranti a livelli del 12% superiori rispetto al 1990 a fronte di un obiettivo di Kyoto pari a -6,5%, ha comportato anche il ritardo nell’inserimento in settori energetici molto innovativi.

Qualcosa però sta cambiando anche da noi. Accanto alle novità contenute nella legge finanziaria 2006 sulla riqualificazione energetica delle costruzioni, una spinta all’innalzamento dell’efficienza energetica viene dalla revisione del decreto legislativo 311/2006, che prevede consumi energetici progressivamente decrescenti nelle nuove costruzioni, l’obbligo di installare impianti solari nei nuovi edifici e l’estensione della certificazione energetica. Un’ulteriore spinta deriva dall’incremento degli obiettivi di risparmio. Dall’avvio del meccanismo dei «certificati bianchi» (1 gennaio 2005) a oggi, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha già certificato riduzioni dei consumi per circa 1 Mtep e l’offerta di titoli di efficienza risulta decisamente superiore agli obblighi. Nel campo del solare fotovoltaico, i 216 MW in via di installazione segnalano l’ingresso del nostro paese nella troika solare europea, affiancando la Germania e la Spagna.

La creazione di una forte domanda di prodotti legati all’efficienza energetica e alle fonti rinnovabili ha inoltre indotto il governo a lanciare uno specifico programma volto a recuperare il ritardo in questi campi e a facilitare l’acquisizione di un ruolo di leader in alcune tecnologie per potenziare l’offerta italiana.1

Ci sono poi aree di intervento, come i trasporti, dove l’azione è invece insufficiente. Sono necessari sforzi maggiori e soluzioni innovative anche in considerazione del peso significativo e crescente delle emissioni di questo comparto.

La Cina e gli altri È comunque evidente che la battaglia sui cambiamenti climatici non potrà essere vinta senza un effettivo coinvolgimento dei paesi in via di sviluppo. La Cina, come si è già ricordato, si appresta quest’anno a divenire il principale responsabile delle emissioni di anidride carbonica. È evidente che non è pensabile per questi paesi ipotizzare obiettivi di riduzione, ma è invece ragionevole ipotizzare una progressiva riduzione dei tassi di crescita. Un compromesso andrà trovato anche alla luce della considerazione che la Cina sta diventando la fabbrica del mondo, cioè un paese dove vengono trasferite molte produzioni prima concentrate nei paesi industrializzati. Si potrebbe pensare ad esempio di conteggiare diversamente la quota di CO2 legata alle esportazioni. Si tratta, tuttavia, di un’operazione non semplice, poiché implicherebbe calcoli incrociati. Quello che è certo è che nei prossimi anni si giocherà una partita decisiva per le sorti del pianeta e che la diplomazia dovrà giocare tutte le sue carte per trovare una soluzione ragionevole ed equa.

Conclusioni La rivoluzione energetica imposta dal vincolo climatico è già iniziata. Per lo meno in alcuni paesi che, avendo compreso la portata della sfida, hanno anticipato i cambiamenti. L’Europa, che già dieci anni fa aveva svolto un ruolo decisivo nel coinvolgere la comunità internazionale, si appresta ad assumere la leadership anche nella prossima fase. Il cambio della presidenza USA dovrebbe facilitare le trattative. Sarà comunque l’accelerazione dei segnali allarmanti sul cambiamento climatico in atto a spronare i governi, sotto la pressione di un’opinione pubblica mondiale sempre più preoccupata, ad assumersi le proprie responsabilità e ad avviare le politiche radicali di intervento che sono necessarie.

[1] Industria 2015.