Squilibri e disuguaglianze nell'economia globalizzata

Written by Silvano Andriani Friday, 29 February 2008 23:58 Print

Da alcuni anni ormai le principali istituzioni economiche internazionali segnalano che il crescente deficit della bilancia dei pagamenti corrente degli Stati Uniti rappresenta il principale e più pericoloso squilibrio dell’economia mondiale. Tale deficit non è di origine recente, è nato all’inizio degli anni Ottanta nel corso della grande ristrutturazione economica avviata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher che ha ridato alle economie anglosassoni, e in particolare a quella statunitense, il ruolo di traino dell’economia mondiale. Da allora esso è diventato strutturale, è persistito anche durante gli anni di Clinton nonostante la politica di rigore fiscale seguita da quella Amministrazione. Se tuttavia si considera la sua evoluzione nel tempo e soprattutto il passaggio dagli anni Novanta al XXI secolo, la storia di quel deficit mostra che il rapporto dell’economia statunitense con quella mondiale è cambiato.

Da alcuni anni ormai le principali istituzioni economiche internazionali segnalano che il crescente deficit della bilancia dei pagamenti corrente degli Stati Uniti rappresenta il principale e più pericoloso squilibrio dell’economia mondiale. Tale deficit non è di origine recente, è nato all’inizio degli anni Ottanta nel corso della grande ristrutturazione economica avviata da Ronald Reagan e Margaret Thatcher che ha ridato alle economie anglosassoni, e in particolare a quella statunitense, il ruolo di traino dell’economia mondiale. Da allora esso è diventato strutturale, è persistito anche durante gli anni di Clinton nonostante la politica di rigore fiscale seguita da quella Amministrazione. Se tuttavia si considera la sua evoluzione nel tempo e soprattutto il passaggio dagli anni Novanta al XXI secolo, la storia di quel deficit mostra che il rapporto dell’economia statunitense con quella mondiale è cambiato.

La crescita statunitense durante gli anni Novanta rifletteva l’ottimismo derivante dal successo nel confronto con l’URSS, la riduzione della spesa militare, la fiducia che, soprattutto attraverso la liberalizzazione dei movimenti dei capitali, si potessero esportare in altri paesi le virtù del modello statunitense. L’ambiente macroeconomico era reso particolarmente favorevole dall’afflusso massiccio di capitali dall’estero che, insieme alla politica monetaria espansiva, supportava potentemente una domanda interna in grado di alimentare una crescita economica sostenuta, nonostante le spinte negative esercitate dal crescente deficit commerciale e dal progressivo azzeramento del deficit pubblico, trasformato alla fine addi rittura in attivo dall’Amministrazione Clinton. L’economia statunitense funzionava come un’immane idrovora che risucchiava capitali da tutto il mondo e proiettava sulle economie degli altri paesi una domanda di beni che è stata una delle cause della crescita impetuosa di alcuni paesi emergenti negli anni Novanta.

I capitali esteri provenivano soprattutto da paesi avanzati, Europa e Giappone, e finanziavano i consumi delle famiglie, ma sopratutto investimenti, non solo con acquisti di titoli delle imprese statunitensi, ma anche con acquisti di imprese statunitensi nel settore high tech da parte di imprese estere che speravano così di ridurre il gap tecnologico con gli Stati Uniti. Il crescente indebitamento netto sull’estero degli USA non ha esercitato un effetto negativo sulla bilancia dei pagamenti per il fatto che il rendimento degli investimenti dei paesi esteri negli USA è risultato sensibilmente inferiore a quello realizzato dagli investitori statunitensi all’estero e anche a quelli da essi stessi realizzati in paesi diversi dagli Stati Uniti. Questo vantaggio ha fatto sì che, ancora nel 2005, l’indebitamento netto americano, che si aggirava ormai intorno al 30% del prodotto lordo, è risultato, in pratica, a titolo gratuito. Sulle cause di un tale divario si discute molto e certamente ancora pesa il ruolo preminente che il dollaro esercita nell’economia mondiale, ma esso mostra anche che la presunta superiorità dell’economia statunitense è stata esagerata.

Lo sviluppo dell’economia mondiale durante gli anni Novanta è stato, tuttavia, segnato da una successione di crisi finanziarie, foriere di possibili crisi sistemiche: crisi messicana, crisi del Sud-Est asiatico, crisi russo-brasiliana e infine crisi di Wall Street, che ha coinvolto tutte le altre borse. Quest’ultima crisi ha messo in evidenza come il formidabile afflusso di capitali dall’estero aveva generato sia un eccesso di capacità produttiva nel settore high tech, sia una bolla speculativa finanziaria. Nonostante la portata del crollo delle borse nel biennio 2000-2002 non avesse molto da invidiare al crollo del 1929, il suo impatto sull’economia reale è risultato relativamente modesto in seguito all’adozione simultanea e in dosi massicce da parte dell’Amministrazione statunitense di tutte le politiche antirecessive. I tassi di interesse ufficiali furono drasticamente ridotti al punto da diventare negativi in termini reali; il bilancio pubblico fu portato da un attivo del 2% ad un passivo del 6% del PIL nel giro di due anni; fu abbandonata la politica del dollaro forte favorendo una svalutazione robusta nei confronti delle altre monete forti.

Questo tipo di politica, insieme a quella altrettanto espansiva seguita dal governo giapponese nello sforzo di combattere la spinta deflazionista prodotta dalla crisi finanziaria e immobiliare del 1989, è all’origine del mare di liquidità che ha inondato per qualche anno l’economia mondiale consentendo tassi di interesse storicamente bassi. L’economia statunitense è stata rilanciata, ma le caratteristiche del suo sviluppo, e quindi del sul rapporto con l’economia mondiale, sono mutate. Negli ultimi anni, la domanda interna statunitense è stata trainata dalla crescita della spesa e del deficit pubblici, che nella fase precedente avevano avuto un ruolo negativo. I consumi privati sono ancora cresciuti in modo sostenuto sospinti dalla facilità per le famiglie di indebitarsi ai tassi di interesse praticati. Di conseguenza i crescenti flussi di capitali dall’estero vanno a finanziare non gli investimenti, ma soprattutto il deficit pubblico e i consumi delle famiglie statunitensi. La gran parte di essi non proviene più dai paesi avanzati, ma dai paesi produttori di petrolio e, soprattutto, dai paesi asiatici, e sono le banche centrali di questi paesi e non più i privati ad acquistare dollari. Un ulteriore cambiamento è dato dal fatto che gli ultimi dati registrano che da un paio di mesi l’indebitamento netto sull’estero ha cominciato a produrre un effetto negativo sulla bilancia dei pagamenti, il che potrebbe ulteriormente peggiorarne l’andamento. Di questo passo il debito netto statunitense verso l’estero è previsto arriverà al 50% del PIL nel 2008; oggi gli Stati Uniti assorbono circa i due terzi dei flussi finanziari netti mondiali. E si tratta di un fenomeno che riguarda tutti i paesi a «modello anglosassone »: Australia e Nuova Zelanda sono indebitate sull’estero rispettivamente del 50% e del 80% del PIL e se ad essi e agli USA si aggiungono Inghilterra e Irlanda, i paesi a «modello anglosassone» hanno assorbito nel 2005 oltre il 90% del flussi finanziari netti mondiali.

L’altra faccia di questa nuova medaglia sono i paesi asiatici. Dopo la crisi finanziaria del 1996 essi, ritenendo giustamente di essere stati vittima dell’attitudine degli operatori finanziari dei paesi avanzati a muovere grandi masse di denaro con ottica di breve periodo, hanno aumenta- to i loro già alti tassi di risparmio: da prenditori di denaro che erano sono diventati esportatori netti di capitali. Le loro banche centrali, inoltre, acquistano dollari per impedire che le valute dei propri paesi si rivalutino nei confronti del dollaro allo scopo di mantenere alta la competitività delle proprie merci sui mercati mondiali. Di questo passo la Cina è diventata la principale detentrice di riserve in dollari al mondo e le sue riserve complessive ammontano ormai ad un trilione di dollari.

Questa distribuzione delle risorse finanziarie produce situazioni sconcertanti: paesi relativamente poveri stanno finanziando i consumi dei paesi ricchi, essi accumulano riserve in dollari invece di usare quelle risorse per lo sviluppo delle vaste aree arretrate; il paese più ricco, che è anche il detentore della moneta più importante nell’economia mondiale, è diventato di gran lunga il più grande debitore mondiale e mentre il suo contributo alla crescita della domanda mondiale si affievolisce in seguito all’esplosiva crescita della domanda dei paesi asiatici, il suo deficit di bilancia dei pagamenti corrente aumenta velocemente.

Conviene, a questo punto considerare i processi distributivi che sono andati affermandosi nelle due grandi aree che stanno dando forma e velocità allo sviluppo dell’economia mondiale e che sono alla base dell’allocazione delle risorse finanziarie mondiali. Un dato comune è la crescita delle disuguaglianze all’interno di ciascun paese, ma il peso delle due principali cause di questo fenomeno è diverso nelle due aree. Nell’area anglosassone il fenomeno più importante consiste nel mutamento dei rapporti di forza fra capitale e lavoro che ha comportato una netta diminuzione della quota del PIL assegnata al lavoro. In pratica l’ingresso nel mercato mondiale di centinaia di milioni di lavoratori a bassissimo costo, soprattutto asiatici, ha radicalmente modificato il rapporto fra capitale e lavoro a vantaggio del primo. Opera, tuttavia, anche l’altra causa: le aree di ciascun paese che si trovano, per situazione geografica e per cultura, più vicine alle nuove frontiere della tecnologia e della globalizzazione si avvantaggiano rispetto alle altre. Questo fenomeno è particolarmente evidente fra Nord e Sud dell’Italia. Queste tendenze derivanti dal processo di globalizzazione possono essere contrastate o addirittura rafforzate dalla politica economica dei singoli paesi. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, col prevalere di politiche fiscali e di regolazione del mercato del lavoro di destra, sono state rafforzate. Dalla redistribuzione del reddito tra capitale e lavoro deriva un altro fenomeno tipico dell’attuale modello distributivo: la crescita del valore degli asset patrimoniali è sistematicamente maggiore di quella del PIL con conseguente aumento della quota di esso assegnata alla rendita. E poiché, come è noto, la distribuzione del patrimonio è più disuguale di quella del reddito, se il possesso di beni patrimoniali e non il lavoro diventa il titolo principale per partecipare alla distribuzione del maggior reddito prodotto, le disuguaglianze nella distribuzione del reddito non possono che aumentare.

Ancora più importante è forse un’altra tendenza: la crescita dell’indebitamento degli Stati e delle famiglie come quota del prodotto lordo. Nel corso degli ultimi venticinque anni il rapporto tra debito pubblico e prodotto lordo a livello mondiale è all’incirca raddoppiato e a questa performance Stati Uniti, Europa e Giappone hanno dato un apporto decisivo. Si discute poco di questo fenomeno e del paradosso per cui, mentre diventava dominante l’idea dello «Stato minimo », o comunque della riduzione delle funzioni dello Stato, il debito pubblico quasi dappertutto è fortemente aumentato. Ferme restando le differenze delle situazioni dei vari paesi, in sintesi molto sommaria, si possono fare un paio di considerazioni. Poiché in un paese civile le funzioni dello Stato non possono essere ridotte oltre certi limiti, se si pratica una politica che riduce strutturalmente il carico fiscale e si predica la tesi infondata che un aumento della pressione fiscale riduce la crescita e viceversa, il risultato non può essere che quello. Inoltre, per combattere il rischio di recessione, nessuno ha ancora inventato qualcosa che possa sostituire il deficit spending messo in opera dallo Stato.

L’indebitamento delle famiglie nei paesi anglosassoni ha superato i livelli record del 1929. Le condizioni che favoriscono l’indebitamento di tutti i soggetti sono il formarsi di mercati finanziari mondiali molto liquidi e politiche monetarie prolungatamente permissive, ma la spinta concreta alla crescita dell’indebitamento delle famiglie proviene dal meccanismo distributivo. I ceti medi, che perdono terreno nella distribuzione del reddito, per non restare indietro nella stessa misura anche nel livello dei consumi e nel tenore di vita, riducono il risparmio e si indebitano. Coloro che appartengono alla fascia più ricca fanno leva sul crescente patrimonio per ottenere più credito e rafforzare ulteriormente la posizione patrimoniale.

In prima battuta si può mettere in evidenza l’inefficienza di un meccanismo distributivo nel quale una crescita adeguata della domanda interna comporta la crescita dell’indebitamento: è vero, i paesi anglosassoni sono riusciti finora a realizzare le proprie capacità potenziali di crescita, ma per farlo stanno indebitandosi sull’estero per finanziare i consumi delle famiglie e i servizi dello Stato.

L’Europa non anglosassone, soprattutto i paesi appartenenti al nucleo originario dell’Unione, appare ripetere, per certi aspetti, le caratteristiche del modello anglosassone in una versione più debole. Anche in questi paesi le disuguaglianze sono aumentate, la quota di reddito assegnata al lavoro è sensibilmente diminuita, quella assegnata alla rendita è aumentata, è aumentato il rapporto fra valore del patrimonio e PIL, che in Italia ha raggiunto il livello record di sette a uno. Anche in questi paesi l’indebitamento degli Stati è molto aumentato, soprattutto negli anni Ottanta, e sta aumentando quello delle famiglie, che in alcuni di essi, vedi Germania, ha raggiunto livelli di tipo anglosassone.

L’indebitamento sull’estero non aumenta, ma il livello della domanda interna a stento ha consentito di realizzare la metà della propria capacità di crescita potenziale. Il modello distributivo di questi paesi appare perciò non meno difettoso di quello anglosassone e oltre all’aumento delle disuguaglianze comporta una maggiore disoccupazione come conseguenza della scarsa crescita.

Rispetto a tale stato di cose la vera eccezione in Europa è rappresentata dal blocco dei paesi scandinavi che, a prescindere dai governi in carica, hanno sostanzialmente mantenuto il modello socialdemocratico. Essi hanno i più alti livelli di pressione fiscale e di spesa pubblica e registrano i tassi di crescita più elevati e i tassi di disoccupazione più bassi. Anche nel contesto dell’attuale processo di globalizzazione, dunque, è possibile essere competitivi pur mantenendo un forte controllo politico della distribuzione del reddito che consente di realizzare appieno le potenzialità di crescita del paese senza dover ricorrere all’indebitamento sull’estero e di contrastare la spinta alla crescita delle disuguaglianze. Anche nei paesi asiatici una determinante della crescita delle disuguaglianze è la redistribuzione fra capitale e lavoro. Qui le retribuzioni reali sono cresciute notevolmente negli ultimi anni, ma la crescita della produttività del lavoro è stata ben maggiore, sicché la quota delle retribuzioni sul PIL è diminuita. Il tasso di risparmio, che in Cina raggiunge il 50% del PIL, è in buona misura alimentato dai risparmi delle imprese. Ma in questi paesi il fattore principale di aumento delle disuguaglianze è quello territoriale: l’inserimento nel processo di globalizzazione riguarda solo una parte del paese e la maggioranza della popolazione ne resta fuori, il che sta già alimentando conflitti e rivolte nelle zone escluse.

Questo stato di cose induce a qualche considerazione sul rapporto fra disuguaglianza e sviluppo. Il punto chiave è che si tratta di considerare il tema della crescita delle disuguaglianze non solo dal punto di vista, pur molto importante, della giustizia sociale, ma, soprattutto, dal punto di vista della funzionalità del meccanismo distributivo rispetto alle esigenze di sviluppo economico. Il tema non è nuovo e il pensiero economico conservatore lo aveva risolto in questo modo: poiché i ceti più abbienti hanno una maggiore propensione al risparmio, l’aumento delle disuguaglianze provoca un aumento del tasso di risparmio e degli investimenti e perciò del tasso di crescita e una diminuzione della disoccupazione, sicché un aumento delle disuguaglianze tornerebbe a vantaggio anche dei meno abbienti. Questa tesi è tornata in auge con l’affermarsi del pensiero e delle politiche neoliberiste e ha influenzato anche la sinistra, essa viene espressa, in genere sostenendo che « il problema non è la distribuzione del reddito, ma la crescita». A sinistra si aggiunge che, in ogni caso, bisognerebbe cercare di dare a tutti pari opportunità, ma si ignora che, se la distribuzione del reddito diventa più disuguale e la ricchezza si concentra sempre più, le opportunità di vita non possono che ulteriormente divergere.

La tesi conservatrice è stata criticata, e vittoriosamente, all’inizio del Novecento dal pensiero socialdemocratico e keynesiano. A parte la contestazione keynesiana della tesi che sia il risparmio a trainare gli investimenti e la crescita, tesi smentita ancora dai fatti recenti, visto che negli ultimi anni una liquidità in eccesso non ha impedito che il livello mondiale degli investimenti risultasse il più basso da cinquanta anni, la critica riformista alle disuguaglianze poggia su due argomenti. Innanzitutto forti disuguaglianze possono dare alla domanda interna una conformazione non adeguata alle esigenze di sviluppo. In secondo luogo, nel medio-lungo periodo, se il reddito e la ricchezza continuano a concentrarsi nella fascia più ricca, una parte crescente della popolazione sarà privata della possibilità di realizzare le proprie capacità e, più in generale, la struttura sociale e i mercati diventeranno più rigidi e inefficienti.

Alcuni sostengono che il caso statunitense convaliderebbe le tesi conservatrici: la crescita delle disuguaglianze si è accompagnata con una forte crescita economica. Tuttavia, come si è visto, non è stato un aumento del tasso di risparmio dei cittadini statunitensi ad alimentare la crescita, quanto l’importazione di risparmio altrui e questo, a livello mondiale, è un gioco a somma zero. D’altro canto, è proprio negli Stati Uniti che Paul Krugman ha sostenuto «la scomparsa dei ceti medi», mentre i dati ci dicono che la mobilità sociale sta sensibilmente riducendosi. D’altro canto, oltre l’esperienza attuale dei paesi scandinavi, l’esperienza della generalità dei paesi occidentali avanzati ci dice che negli anni successivi alla seconda guerra mondiale essi hanno conosciuto il periodo di crescita più intenso e prolungato, mentre le disuguaglianze venivano dappertutto ridotte. E, a livello di grandi aree, si può constatare che il complesso dei paesi asiatici, che ha un tasso di disuguaglianza nettamente inferiore a quello del complesso dei paesi dell’America Latina, ha avuto, rispetto ad essi, negli ultimi cinquanta anni, una crescita molto più sostenuta.

Una recente ricerca molto sofisticata condotta negli Stati Uniti, presso il Centre for Economic Research, rileva che, negli ultimi 10 anni, il 10% più ricco della popolazione si è accaparrato la stragrande parte dei rilevanti guadagni di produttività realizzati dal sistema economico. Di quello strato di popolazione fanno parte i top executive delle imprese e gran parte della gente che ruota intorno al mondo dell’intrattenimento e della comunicazione. La gran parte dei lavoratori, compresi quelli che svolgono i lavori più dotati di conoscenza, è rimasta all’asciutto. E questo ci dice qualcosa a proposito della famosa «economia della conoscenza»: benché indubbiamente l’importanza della conoscenza sia molto cresciuta, tutto ciò non si è ancora riflesso nella distribuzione del reddito e del potere. Commentando la citata ricerca sul «Financial Times» del 10 febbraio, Leon Brittan, che fu ministro nei governi della Thatcher, osserva che «Tony Blair (…) una volta disse che riducendo i guadagni di una star come Beckham non era una priorità. Ma se gli equivalenti di Beckham nelle grandi società contano per una quota sostanziale del reddito nazionale, il problema si pone diversamente». Questa è la polemica di un liberaldemocratico contro la tendenza a minimizzare l’impatto macroeconomico della crescita delle disuguaglianze. Più di recente, l’«Economist» del 7 ottobre scorso, dopo aver sostenuto che la causa principale della scarsità dei talenti nel mondo dipenderebbe dall’aumento delle disuguaglianze, sostiene che «la maggior parte delle società tollereranno l’idea che i vincitori vengano premiati nella misura in cui vi sarà uguaglianza nelle opportunità (…). Una meritocrazia globale è nell’interesse di tutti. Preparatevi a lottare per questo». Da ultimo Larry Summers, che fu ministro del tesoro con Clinton, constatando sul «Financial Times» del 30 ottobre l’impoverimento dei ceti medi che deriva dall’attuale modello distributivo sostiene che: «far fronte ai bisogni dell’ansiosa classe media globale è la sfida economica del nostro tempo» È piuttosto disturbante che la ripresa del confronto sul tema delle disuguaglianze e sulle sue conseguenze negative sullo sviluppo provenga piuttosto dal pensiero liberaldemocratico che da quello della sinistra. Il capitalismo è già stato in passato riformato: lo si è fatto con l’edificazione dello Stato sociale e le politiche per la piena occupazione e un pilastro di quell’approccio fu la messa in opera di un meccanismo distributivo funzionale agli obbiettivi perseguiti. Questo è un passaggio ineludibile anche nel nuovo contesto generato dalla globalizzazione e richiede di ridiscutere e riformare i principali meccanismi distributivi – politiche dei redditi, politiche fiscali, politiche previdenziali, composizione del bilancio statale – anche per rendere meno sbilanciata la distribuzione del reddito e del potere. Si tratta di un’operazione difficile, ma non impossibile. D’altro canto, senza di questo cosa sarebbe il riformismo?