La sovranità in mezzo al guado: il dilemma europeo

Written by Giulio Sapelli Sunday, 02 March 2008 20:02 Print

Il saggio di Giuliano Amato «Ha un futuro la Costituzione europea?»1 ha l’autorevolezza duplice dello studioso e del testimone e merita un commento che affronti il nodo del problema che esso solleva. Tale problema è quello della legittimità di una architettura costituzionale che, prima che porsi dinanzi alla sovranità, si pone in rapporto con la meccanica della decisione politico-istituzionale. Il racconto dell’iter delle riunioni del Consiglio dell’Unione europea, dove gli ambasciatori surrogano la decisione politica con l’attività di compensazione degli interessi affinché la regola dell’unanimità non blocchi qualsivoglia iniziativa, bene disvela gli arcani imperi della decisione sovranazionale e intrastatuale, che tutto è, tranne che democratica. Perché questo è il problema.

Come riprodurre la debole poliarchia nazionale in un livello così astrattamente separato dalla volontà dei cittadini e financo dei loro rappresentanti quando si costruiscono istituzioni che ricercano tanto la legittimazione quanto la legittimità, oltre e al di fuori della sovranità che – come Amato ricorda – ha forti radici nazionali. Quello che accade nel Parlamento europeo, nel Consiglio e nella Commissione va letto come un segmento di un processo molto più generale di cui l’Europa è un sismografo sensibile quanto inefficace per via del suo relativo declino. A partire dagli anni Ottanta, in tutto il mondo industrializzato e postindustrializzato si assiste, infatti, ad una profonda trasformazione dell’assetto economico e politico-istituzionale. In questi anni è venuta alla luce una sorta di neocorporativismo pluricefalo. Si tratta di un assetto istituzionale in cui i poteri lottano senza ricomporsi, perché vogliono dotarsi delle prerogative dello Stato medesimo e insieme delle libertà della società civile. Ma sono l’un contro l’altro armati, nel crollo della cuspide dell’obbligazione politica della sovranità generale. Si tratta di una trasformazione della sovranità e della legittimità ormai senza più impedimenti e senza precedenti, che ora appare sotto i nostri occhi. Tale trasformazione promana dal basso, ossia dall’intersezione «spungiforme» tra Stato e mercato nella disgregazione dell’unità dell’ordinamento giuridico dello Stato, che è culminata con l’avvento dell’assetto europeo-continentale. Del resto tale trasformazione promana anche dall’alto, ossia dal configurarsi, ormai, degli Stati nazionali come subsistemi condizionati e dipendenti, anziché come sistemi autoreferenziali, ma tuttavia ancora dotati di una estenuata e tuttavia potentissima forza residuale che blocca ogni trasformazione degli assetti istituzionali in conformità con lo sviluppo delle forze produttive.

In tal modo la globalizzazione economica, e in primis per il processo espropriativo di competenze decisionali proprio del meccanismo dell’unità europea, costruisce poteri senza legittimazione, legalità senza autorità. O meglio, il percorso per costruire una legittimità sovranazionale e quindi un’autorità che sia fondamento di libertà è ancora assai lungo e complesso. Si pensi alla vicenda del diritto europeo. Esso, comune come dottrina più di altri internazionalmente considerati, si rifà ai diritti in vigore nei singoli Stati dell’Unione. Pur non trattandosi né di una confederazione né di uno Stato federale, i singoli Stati conoscono limitazioni nella loro sovranità e nei loro poteri del tutto analoghe a quelle che conoscono gli Stati di uno Stato federale a favore di un ordinamento «autoreferenziale», da quando la Corte di giustizia europea lo qualifica come ordinamento. Ma è proprio questa autoreferenzialità che evidenzia la discrasia tra forza e autorità, tra razionalità strumentale e legittimità autorevole. Lo stesso Predieri, che pur affrontava il problema in un’ottica diversa, aveva sottolineato che la norma comunitaria è benefica per gli effetti che può produrre in un contesto scarsamente pervaso dalla razionalità legal-strumentale e dall’efficacia decisionale. L’ordinamento europeo sviluppa i suoi effetti propulsivi e somma la persuasione al potere autoritativo, in una comunità che pur resta largamente improntata alla persuasione, soprattutto in una società come la nostra, in cui vale di più il peso che non il numero dei voti.

È precipuamente questo il problema. La scarsa istituzionalizzazione politica, e quindi la irrisolta tensione tra rappresentanza territoriale – politica appunto – e rappresentanza funzionale, non solo si sposta a livello sovranazionale, ma diviene elemento costitutivo invisibile della decisione per la lontananza dal cittadino del potere che la sovradetermina.

Di più: ad aprire la strada all’autentico inveramento, al trionfo della rappresentanza non politica è il rifiuto di confrontarsi con il problema della rappresentanza funzionale non politica, corporativa ma interrelata con quella politica e non avulsa da essa, come accade nelle dittature. È questo il problema della Costituzione europea che Amato solleva. È un problema inquietante e terribile.

Tuttavia, si tratta ancora di un inveramento e di un trionfo occulto, non trasparente e non efficace di quella rappresentanza non politica, perché tracimante nella lobby, oppure nella sottrazione di potere al legislativo.

Questo viene poi affidato ad una tecnocrazia spesso tale solo di nome e permeata da tutti i guasti delle società civili prestatualizzate: ossia non incivilite dalle regole poliarchiche e non promananti dalla dignità della legge e dall’etica del buon cittadino, ma solo dal potere del denaro e della consanguineità.

Questo processo, che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, si unisce all’inefficacia razional-strumentale delle strutture amministrative, le quali hanno un pesante risvolto nei sistemi di senso dei cittadini che si confrontano con lo Stato e quindi con il ruolo della burocrazia. In tal modo, questo processo si configura come nocciolo costitutivo dell’anomia crescente nei confronti delle istituzioni legislative.

Tale anomia inizia per un complesso di concause molto più profonde di quelle richiamate dalle «vulgate» politologiche che hanno enfatizzato i fallimenti della politica e quindi delle classi politiche. Si tratta, invece, come ha acutamente sottolineato Cesare Pinelli, della rottura della relazione simmetrica e congruente tra rappresentanti e cittadini: questa era espressa dal principio di responsabilità, che davanti agli elettori aveva creato il senso dello status activae civitatis e, con esso, la costruzione della nozione di cittadinanza.

Come spiega Pinelli, la rinuncia alla deliberazione politica si è inve- rata quando i requisiti di ordine temporale e spaziale del circuito di responsabilità di fronte all’elettorato, che avevano strutturato a lungo una vita politica ordinata, si sono sregolati. Questi processi mettono in discussione quella relazione tra rappresentante e rappresentato che io ho chiamato di «obbligazione politica» verso colui che si riconosceva «migliore» dell’elettore e che quindi per tal ragione veniva prescelto, secondo un tipico atto d’instaurazione del processo di autorevolezza che temperava la stocasticità dell’allocazione delle competenze. Allocazione stocastica che avviene in forma pura se il processo elettivo si presenta privo dell’obbligazione morale prima che politica: e quindi con attributi carismatici o clientelari oppure, ancor più, nell’immediatezza decisionale dei fenomeni referendari.

Tuttavia, la crisi della responsabilità è esplosa quando alle classi politiche sono state sottratte le decisioni di lungo periodo e le decisioni dirette a garantire la regolazione dei sistemi economici in situazioni di scarsità di risorse e di necessità di percorrere vie non inflazionistiche della crescita, ammesso e non concesso che di durature ne esistano altre.

Il primo esempio di ciò sono state, come è noto, le autonomie autoregolative affidate alle banche centrali. Si è trattato certo di una innovazione costituzionale di grandissima portata. Essa è un riflesso della fine di un’altra sincronia: quella tra Stato nazionale e democrazia, e tra governo visibile dell’economia e potere delle classi politiche. A fianco di queste ultime sorgono classi di governo, con poteri pervasivi: oggi esse si richiamano sempre più spesso al mercato perfetto come guida mimetica nell’azione, le chiamerò «classi del mercato». Esse inoltre si presentano come tecnocratiche e come portatrici di interessi non soltanto non rappresentabili dalle classi politiche, ma che, per la loro stessa natura, debbono essere a quelle classi politiche sottratte. Mi riferisco alla crescita non inflattiva, agli interessi generali della trasparenza dei mercati e dell’affidabilità contrattuale ecc. La sfida «paretiana» della democrazia del futuro è di riconoscere l’effettività o la non effettività degli interessi generali: dovrà inoltre scoprire se dietro il velo ideologico con cui essi si presentano non si annidino, invece, interessi particolari e che tutto sono meno che «impersonali ». Rimane il fatto che la decisionalità e l’agenda delle politiche perseguite dalle nuove classi di governo dei mercati e degli Stati sono autoreferenziali: esse sono sottratte, lo ripeto, al principio di responsabilità elettivo territoriale, politico. Questo è il messaggio implicito e inquietante del mite scritto di Giuliano Amato, il quale, del resto, così termina il suo saggio «Si può (…) pensare alle democrazie come ai sistemi solari, nei quali vi sono tanti corpi, che hanno ciascuno un proprio movimento, ma secondo regole comuni che salvaguardano l’insieme. Le democrazie che si ammalano sono come i sistemi solari in cui i corpi in movimento si frantumano, i frantumi cominciano a muoversi in proprio, le orbite impazziscono e l’unica alternativa alla deflagrazione è la centrifugazione del sistema (con il possibile incontro di qualche buco nero)».2 Per un elitista studioso delle poliarchie – democratiche e non – si tratta di una verità già da tempo rilevata nel corso della storia.

 

[1] G. Amato, Ha un futuro la Costituzione europea?, in «Italianieuropei», 5/2006, pp. 15-20.

[2] Amato, op.cit., p. 20.