Multilateralismo, una strada obbligata. Per una politica europea dell'energia

Written by Valeria Termini Sunday, 02 March 2008 20:33 Print
Si vogliono qui portare alla riflessione comune due temi: il primo riguarda i limiti della politica europea per l’energia, il secondo la necessità di un coordinamento soprannazionale per la gestione delle risorse energetiche o, in altri termini, l’opportunità che si presenta oggi di costruire su questo terreno un percorso istituzionale basato su relazioni multilaterali.

Si vogliono qui portare alla riflessione comune due temi: il primo riguarda i limiti della politica europea per l’energia, il secondo la necessità di un coordinamento soprannazionale per la gestione delle risorse energetiche o, in altri termini, l’opportunità che si presenta oggi di costruire su questo terreno un percorso istituzionale basato su relazioni multilaterali.

I limiti della politica energetica europea emergono considerando i due binari di intervento dell’Unione: uno rivolto ai paesi membri, l’altro verso l’esterno. Per i paesi membri il modello europeo prevede tutti i passaggi istituzionali propedeutici alla liberalizzazione dei mercati nazionali dell’elettricità e del gas, con l’obiettivo di costruire un mercato unico europeo dell’energia. Per la «politica estera energetica», invece, che investe i rapporti con i paesi produttori di fonti primarie, l’Unione sembra navigare a vista, anche a causa dell’insufficienza di deleghe. Di conseguenza, mentre la liberalizzazione è oggetto del coordinamento europeo, la sicurezza energetica e la delicata responsabilità politica di garantire l’approvvigionamento di fonti primarie ricadono interamente sui governi nazionali. Questa condizione non poteva che rinvigorire i comportamenti protezionistici nazionali che abbiamo conosciuto in questi anni, a discapito della condivisione degli obiettivi di lungo periodo e di un’ottica soprannazionale; essa genera inoltre quelle contraddizioni tra obiettivi di sicurezza e di liberalizzazione che concorrono a spiegare i ritardi e le difficoltà lamentati recentemente dal commissario Kroes, in relazione all’indagine conoscitiva sui risultati delle politiche di liberalizzazione.

Sul piano internazionale, nonostante gli Stati Uniti siano i primi produttori mondiali di energia, seguiti da Russia e Cina (Grafico 1), l’Unione europea e gli Stati Uniti non sono autosufficienti per quanto riguarda la disponibilità di risorse energetiche: il bilancio energetico americano è in crescente deficit (Grafico 2),[1]  mentre l’Unione europea importa più del 50% delle fonti primarie (Grafico 3).[2]

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La produzione di gas e di petrolio si svolge per la maggior parte in aree politicamente assai sensibili, che comprendono il Medio Oriente (Arabia Saudita, Iran, Iraq, Kuwait ed Emirati Arabi), la Russia (Kazakhstan e Azerbaijan per le riserve di petrolio), l’America Latina (Venezuela), il Messico e alcuni paesi africani (Nigeria, Libia, Ciad, Angola), alle quali si aggiunge l’offerta di paesi meno a rischio, come Canada e Norvegia.[3] Per la gestione delle fonti primarie non si può dunque che individuare un coordinamento soprannazionale, il quale tuttavia è ancora lontano dalla realtà, poiché sia l’Unione europea che gli Stati Uniti sono distanti da una impostazione multilaterale dei problemi energetici. La politica europea espone così i paesi membri a difficoltà e contraddizioni difficili da superare nella attuale cornice istituzionale internazionale.

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La politica europea per l’energia (e i suoi limiti) Per la riflessione sui limiti della politica energetica europea utilizzerò due esempi, uno riferito al gas, l’altro all’energia elettrica: il primo riguarda le indicazioni per la liberalizzazione e la sicurezza energetica dei paesi membri, che si trovano nel Green Paper del marzo 2006,[4] evidenziando le implicite «prescrizioni di free riding»; il secondo esempio riguarda la politica estera dell’UE in relazione agli accordi di Kyoto e le contraddizioni insite nei suoi strumenti attuativi.

 

L’«Energy policy for Europe»: una tela di Penelope? L’adozione del Green Paper da parte del Consiglio europeo (Energy Policy for Europe, EPE) è stata accolta da alcuni come una svolta nella politica energetica comunitaria. Tuttavia, non è così. Le differenze che caratterizzano i mercati dell’energia dei paesi membri (per geografia di approvvigionamento, fonti primarie, liberalizzazione ed efficienza energetica) rendono le parole d’ordine di quel modello dei veri e propri ossimori, difficilmente coniugabili in modo armonico da parte dei paesi membri nell’attuazione degli indirizzi. I tre cardini dell’EPE sono: sicurezza, ambiente e mercato interno unico (quest’ultimo da costruire attraverso la liberalizzazione dei mercati nazionali). La sicurezza richiede che si diversifichino le fonti energetiche sia per quanto riguarda la loro tipologia che la loro collocazione geografica,[5] che si rafforzino le infrastrutture transeuropee (le TEN),[6] che si contenga e si renda più efficiente la domanda di energia. La questione della tutela dell’ambiente è affrontata ribadendo l’opportunità di utilizzare strumenti di mercato – i permessi di inquinamento negoziabili (Emission trading allowances-ETs)[7] – per stimolare i produttori, in particolare di energia elettrica, che sono i maggiori responsabili delle emissioni di ossido di carbonio, ad abbattere l’inquinamento e quindi il surriscaldamento del pianeta, secondo i meccanismi individuati negli accordi di Kyoto;[8] infine, il terzo pilastro, la liberalizzazione dei mercati nazionali, richiede l’unbundling delle infrastrutture di rete dalla filiera produttiva del gas e dell’energia elettrica ed enfatizza il peso della libertà di approvvigionamento dei consumatori finali, tutti liberi in teoria di scegliere il proprio fornitore entro il 2007.[9] Nella attuale congiuntura internazionale, in assenza di una politica estera energetica di cooperazione tra aree, queste indicazioni rischiano di creare una transizione incompatibile per i paesi membri, di stimolare politiche di free riding e di protezione nazionale. Un esempio di queste difficoltà è offerto dalla condizione dell’Italia nel mercato del gas, da un lato impegnata a garantire da sola la propria sicurezza di approvvigionamento dopo le crisi del 2005-2006 e di conseguenza impegnata in una politica di contrattazioni bilaterali con i paesi produttori, e dall’altro intenta a completare la liberalizzazione richiesta secondo gli indirizzi dell’EPE. Allo scopo di garantire la sicurezza energetica del paese, Putin e Prodi, Gazprom ed ENI, Scaroni e Miller, sono al lavoro in questi mesi per rafforzare i rapporti bilaterali e gli acquisti di gas russo sul lungo periodo da parte dell’ENI. L’Italia tende quindi ad allungare i contratti di acquisto di gas dal 2007 al 2017;[10] la Russia chiede in cambio garanzie per un accesso privilegiato alla distribuzione in Italia e nel Mediterraneo e forse si spinge a chiedere l’accesso di Gazprom nella governance della rete (Snam Rete Gas).

Di fatto, Italia e Russia stanno trattando per ottenere accordi che irrobustiscano un rigido oligopolio e la spartizione del mercato (e delle rendite) da monte a valle. La Russia infatti, ben lontana dagli obiettivi di liberalizzazione dell’UE, tende ad integrare la propria filiera con il mercato downstream, stringendo accordi diretti con gli importatori per assicurarsi una congrua partecipazione alla rendita. Naturalmente a ciò si associa l’uso delle risorse energetiche come strumento di influenza politica, del quale Putin non ha fatto mistero.[11]

Al riguardo è interessante ricordare le argomentazioni dell’amministratore delegato dell’ENI, secondo il quale ENI non deve essere indebolita per poter contrattare da pari con i giganti russi. Ma questa tesi mette in luce una straordinaria debolezza e la mancanza di coordinamento nella politica energetica: il punto debole è la scelta di delegare alle imprese – sottoposte per di più alle incertezze del difficile percorso di liberalizzazione necessario per aprire alla concorrenza il mercato dell’energia – la funzione strategica di garantire la sicurezza energetica. Infatti, mentre le relazioni bilaterali in corso tra Gazprom ed ENI si riferiscono al problema della sicurezza energetica del paese, in ottemperanza agli indirizzi dell’EPE sulla liberalizzazione, l’Autorità per l’energia, nella sua Relazione annuale del luglio 2006, e il governo, nel disegno di legge Bersani, prescrivono misure che vanno in una direzione di politica energetica opposta e contraria rispetto a quella auspicata dall’amministratore delegato dell’ENI. La flessibilità che sarà data al mercato italiano del gas dai dieci rigassificatori autorizzati e non ancora attivati – solo quello di Rovigo è in dirittura di arrivo – potrà garantire una maggiore diversificazione dell’approvvigionamento di gas via mare, ridurrà la dipendenza del paese dai gasdotti russi, potrà rafforzare il progetto di costruire un hub per il gas sul territorio italiano spostando l’asse dell’energia verso Sud-Est, ma certamente danneggia l’ENI. La danneggia economicamente, poiché non è più sicuro che la domanda assorba l’intera offerta procurata dai con tratti take or pay, e la danneggia «politicamente », poiché riduce la forza di contrattazione di un produttore che non può più garantire al fornitore upstream uno sbocco sicuro di domanda.

Nell’attuazione nazionale della politica energetica europea convivono dunque due linee che si indeboliscono l’un l’altra. Chi meglio interpreta gli indirizzi dell’EPE? Chi chiede rigassificatori per liberalizzare il mercato utilizzando la «regola aurea» secondo la quale le prescrizioni europee consentono di varare riforme difficili per il paese e cercando di spostare l’asse della politica energetica verso il Sud-Est e verso il gas africano, o ha ragione l’amministratore delegato dell’ENI che tende ad ingessare l’oligopolio del gas con la Russia per garantire la sicurezza energetica del paese dalla Russia? Entrambi, naturalmente, ma la costruzione del mercato europeo dell’energia, così, non può essere che una tela di Penelope.

È necessario sottolineare che non si tratta di un «problema italiano», dal momento che la Francia per l’elettricità, la Spagna per entrambi i mercati, la stessa Germania, affrontano un simile problema di attuazione degli indirizzi dell’EPE, in assenza di un coordinamento europeo per la sicurezza energetica.

 

La politica estera europea e gli strumenti degli accordi di Kyoto: incentivi per chi inquina? Il secondo esempio riguarda la politica estera energetica, nell’unica parte in cui l’Unione europea ha assunto un ruolo centrale: lo sviluppo sostenibile e la tutela dell’ambiente negli accordi di Kyoto. In questo caso la formulazione degli obiettivi è importante e condivisa; tuttavia, gli strumenti considerati idonei allo scopo sono estrapolati da modelli costruiti per mercati concorrenziali, e la loro applicazione a mercati oligopolistici non ha dato e non potrebbe dare i risultati auspicati.

Come è noto, il quadro di riferimento degli accordi intergovernativi è la Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCC), firmata tra gli altri da Stati Uniti e Unione europea. In essa si stabilisce che: «Nel lungo periodo, le emissioni di gas-serra (Green Gas Emissions-GHG) non devono superare la capacità degli oceani di assorbire GHG dall’atmosfera (circa due gigatonnellate di carbone per anno, e questo è meno di un terzo delle attuali emissioni di pari a 7 gigatonnellate) »,[12] e che nel breve periodo una svolta nelle emissioni globali può essere impressa solo a condizione che i paesi industrializzati assumano

la leaderhip delle politiche ambientali. L’UE si è data questo compito attraverso il ruolo svolto nel Protocollo di Kyoto, promuovendo un sistema regionale di certificati negoziabili di diritti di emissione in sostituzione delle tradizionali riforme fiscali indirizzate alla riduzione dell’inquinamento. L’EU Emission Trading Scheme è un meccanismo di mercato volto a disincentivare l’uso di impianti inquinanti attraverso la variazione dei prezzi relativi degli input, promuovendo cioè l’utilizzo delle fonti a minore dispersione di CO2, come le rinnovabili e il nucleare, a discapito dei combustibili fossili, che risultano penalizzati da un sovrapprezzo connesso al costo dei diritti di emissione di cui le imprese sono obbligate a dotarsi per ogni singolo impianto che inquina. Il tetto complessivo di diritti di emissione scambiabili sul mercato è stabilito dagli accordi intergovernativi, come pure i settori produttivi soggetti al Protocollo, e ripartito tra i singoli Stati.[13] In teoria, in condizioni di mercato concorrenziali, le imprese che massimizzano i profitti dovrebbero accrescere la quota relativa dell’energia prodotta dagli impianti meno inquinanti; non così se le imprese operano in condizioni di oligopolio. Purtroppo questo modello, studiato per mercati concorrenziali, è stato introdotto in Europa in mercati dell’energia «semi-liberalizzati», e l’esito della sua applicazione è ben distante dai risultati attesi, come è facilmente verificabile dall’esame dell’indagine conoscitiva della Commissione intitolata «ETS I Phase results», resa pubblica il 15 maggio 2006.

Il risultato è che gli accordi di Kyoto costituiscono un passaggio importante nella prospettiva di incidere sulla cultura dei paesi industrializzati (e non) e di sensibilizzare governi e cittadini sui problemi relativi alla sostenibilità energetica. Ma sul piano dell’efficacia gli strumenti utilizzati e, in primis, lo strumento cardine promosso dall’UE (i certificati di inquinamento negoziabili-ETs) sono un evidente disastro. In sintesi, da un’analisi costi-benefici, emergono almeno due problemi che minano l’utilizzo di questo strumento. Il primo riguarda l’introduzione di elementi speculativi che rendono ancor più volatile il prezzo finale dell’energia, dal momento che i diritti di emissione sono quotati dal 2005 sulle prime borse dell’energia (Nord Pool, EEX, Powernext) e il loro prezzo è soggetto a fluttuazioni consistenti; la seconda ragione di insuccesso risiede nella applicazione di strumenti di mercato a mercati solo in parte liberalizzati e dominati da grandi produttori. Considerati dalle imprese un costo-opportunità, i prezzi dei diritti di emissione hanno potuto essere interamente trasferiti sui prezzi finali dell’elettricità dai grandi produttori di energia elettrica, sia che fossero stati acquistati, sia che fossero stati acquisiti gratuitamente nell’ambito dei piani nazionali di settore di distribuzione gratuita dei diritti (NAP).[14]

In queste condizioni, paradossalmente, le imprese che più inquinano ricevono un windfall profit connesso al loro livello di emissioni, almeno pari all’ammontare di diritti ricevuti gratuitamente nel piano annuale di allocazione nazionale; non hanno dunque alcun incentivo a ridurre l’uso delle fonti più inquinanti. Ciò concorre a spiegare sia la strategia di investimenti in impianti a carbone attuata ad esempio da ENEL dal 2005 (anno di introduzione del sistema di ETs in Italia) sia i recenti aumenti del prezzo finale dell’energia elettrica nel nostro paese, che sono stati attribuiti in parte al costo dei diritti di emissione. Rimanendo in Italia, le emissioni di CO2 sono aumentate del 19% in relazione al 1990, nel 2005, invece di ridursi del 6,5 % come previsto dagli accordi di Kyoto e dall’applicazione del sistema di ETs.[15]

Il sistema dell’ETs, dunque, teoricamente efficiente per ridurre l’inquinamento in condizioni di concorrenza ha generato nei mercati oligopolistici esistenti extra-profitti e windfall gains per i grandi produttori di energia elettrica che più inquinano e che infatti promuovono l’uso strategico del carbone in alternativa a gas e petrolio tra le fonti primarie per la produzione elettrica.

Infine, se si confrontano obiettivi, risultati e costi degli accordi di Kyoto con le esigenze di riduzione dei Green House Gas (GHG) per mantenere le condizioni di vivibilità del pianeta, non stupisce lo scetticismo della leadership americana – scientifica, economica e politica – nei con fronti di questa impostazione.[16] Contrariamente all’UE, gli Stati Uniti mirano ai risultati ottenibili dalla ricerca tecnologica per l’utilizzo di fonti energetiche alternative e, in parte, per il miglioramento nella efficienza energetica che questa promuove.[17] Le ricerche si sono concentrate sulla produzione di combustibili alternativi alla benzina e al diesel – i cosiddetti «biocombustibili» di tre tipi: l’etanolo, ricavabile dal grano e fortemente sostenuto dagli agricoltori; il metanolo, ricavabile dal legno; il combustibile ricavabile dai rifiuti. Queste annotazioni ci portano direttamente al problema della gestione delle risorse energetiche su un piano globale, ossia al secondo spunto di riflessione.

 

Geopolitica dell’energia: un terreno per il multilateralismo L’energia richiede necessariamente una visione politica d’insieme, per una gestione globale delle risorse. Esige l’immaginazione che portò a Bretton Woods i nostri padri (inglesi e americani) a definire una architettura istituzionale per il mondo intero, a istituire la Banca mondiale e il Fondo monetario, mentre ancora si concludeva la guerra in Europa. Il Piano Marshall fu certamente una donazione di egoismo intelligente e lungimirante per ricostruire in Europa un mercato per gli USA, ma questo non era tutto: sia Keynes che White individuarono le istituzioni necessarie per garantire la gestione cooperativa di risorse scarse, che allora si riassumevano nelle riserve valutarie di cui paesi in difficoltà avevano bisogno per crescere e finanziare uno sviluppo in deficit. L’energia richiede oggi una analoga visione lungimirante, per gestire con istituzioni multilaterali la dotazione di risorse scarse come le fonti primarie di energia o l’acqua; soluzioni istituzionali concepite sulla base del multilateralismo, che includano i grandi blocchi dei paesi industrializzati, ma anche i nuovi colossi asiatici come India e Cina e, ipotesi non minore, i paesi del continente africano. Paradossalmente, il momento di crisi lo consente; l’Africa potrebbe rappresentare un «futuro mercato» da costruire e gli Stati Uniti sembrano averlo recepito rivolgendo a Nigeria, Ciad, Guinea equatoriale la loro attenzione per diversificare la gestione delle risorse energetiche (i paesi africani forniscono oggi circa il 13% delle importazioni americane di petrolio e il 12% di quelle dell’Unione europea).[18]

Il problema centrale ruota tuttavia intorno alla capacità di Unione europea e Stati Uniti di compiere questo salto di visione, per intraprendere la via del multilateralimo. È utile ricordare che l’Euratom nel 1957 fornì una base di accordi istituzionali proprio in questa direzione. La costruzione di un «terreno intermedio in cui si radica il multilateralismo », per seguire la definizione di Walzer a proposito della guerra in Iraq,[19] richiede una visione dinamica, di lungo periodo e la progettazione di politiche di costruzione istituzionale che inglobino anche in Europa la politica energetica nella politica estera. È un’impostazione assai diversa da quella formulata nel Green Paper della Commissione del 2006, è pure assai lontana dall’impostazione dell’Energy Act approvato dal Congresso americano nel 2005.

Non è questa l’occasione per soffermarsi sulla posizione degli Stati Uniti, che sembrano procedere nella loro posizione unilaterale (talvolta mitigata da alleanze occasionali), basata sulla forza militare per il controllo delle aree più rilevanti per le fonti energetiche, avendo da sempre incluso l’approvvigionamento delle fonti primarie nella politica estera di sicurezza nazionale: una posizione militare che sta rivelando oggi i suoi limiti e le sue debolezze. Nonostante molti commenti positivi abbiano accolto l’Energy Act 2005 di Bush e il Green Paper 2006 della Commissione europea come una svolta strategica nella politica energetica delle due grandi aree, né gli Stati Uniti né l’Unione europea sembrano aver varcato la soglia di una concezione istituzionale di multilateralismo per la gestione delle risorse energetiche nel mondo. Sia Stati Uniti che Unione europea stanno elaborando la possibilità di agire anche sulla domanda, affidando allo sviluppo tecnologico la razionalizzazione dei consumi e il miglioramento dell’efficienza energetica; in entrambi i casi, tuttavia, le contrattazioni bilaterali per l’offerta (aperte, ad esempio, tra USA e Russia per lo stretto di Bering, o tra singoli paesi dell’UE e Russia per rafforzare il collegamento upstream/downstream della filiera del gas) indeboliscono l’obiettivo istituzionale di lungo periodo.

L’attenzione è qui focalizzata sulla prospettiva dell’Unione europea. L’Europa, con una condizione istituzionale oggettivamente assai più debole, segue la strategia volta a costruire un mercato interno unico dell’energia per assumere la posizione di chi, grande consumatore, considera l’entità della propria domanda come il principale strumento contrattuale nei confronti dei produttori cui garantisce uno sbocco, ma contemporaneamente si pone nella difficile posizione di competere con gli altri grandi consumatori per garantirsi la quota necessaria di risorse scarse. Non è certamente proficuo, nel medio periodo, cadere nella trappola della concorrenza tra paesi consumatori. Non è questa, del resto, l’arma politica agitata da Putin, che contrappone i due grandi flussi di domanda provenienti dall’Europa e dall’Asia?

La concezione che emerge nell’UE volta a proteggere la propria sicurezza energetica con una competizione dei paesi consumatori è troppo angusta. Nel Green Paper 2006 si legge: «L’UE ha gli strumenti per intervenire. È il secondo mercato mondiale per l’energia, con oltre 450 milio ni di consumatori. Agendo compatta essa ha il peso per proteggere e far valere i suoi interessi. L’Unione europea non ha solo le dimensioni, ma anche la capacità politica per intervenire nello scenario energetico». Mancano molti passaggi alla costruzione di una visione di istituzioni multilaterali.

Anche il richiamo alla razionalizzazione del consumo energetico, seppure cruciale, non apre al problema di soluzioni istituzionali multilaterali.[20] La sicurezza energetica è per definizione materia soprannazionale, ma l’Unione europea non sembra poter vantare competenze specifiche in materia di energia; come vediamo in questi mesi, i singoli governi dei paesi membri si muovono sulla via della contrattazione bilaterale. È questa la contraddizione evidenziata in precedenza, sottolineando i rischi insiti nell’affidare l’onere della sicurezza energetica ad imprese nazionali, a loro volta investite dalla riorganizzazione del percorso di liberalizzazione del mercato energetico. Lasciati a se stessi nel delicato terreno della sicurezza energetica nazionale, i singoli Stati minano con comportamenti di free riding la possibilità di costruire una visione multilaterale istituzionale per la gestione delle risorse energetiche. La contrattazione bilaterale tra imprese non può che indebolire la politica comune di lungo periodo; non a caso, ad esempio, negli incontri di San Pietroburgo non ha trovato più alcuna voce, da parte della Russia, la discussione sulla Carta dell’energia,[21]  l’unico accordo vincolante di cooperazione intergovernativa nel settore dell’energia, firmato nel 1994, che disciplina tra l’altro il commercio dei prodotti energetici, l’accesso al transito e la risoluzione delle dispute. La Russia ha firmato il Trattato,

ma non l’ha ratificato, secondo una ragionevole interpretazione, per tutelare il proprio monopolio delle reti di trasporto del gas e del petrolio garantito da Trasneft, impedirne l’apertura a società straniere ed evitare di sottoporlo all’obbligo di garantire l’accesso alle reti per il transito. E la recente conduzione di accordi bilaterali tra Stati e ancor più tra grandi imprese nazionali, non ha certamente spinto la Russia nella direzione delle cooperazioni rafforzate.[22]

La stessa idea dell’UE di esportare in Russia i principi della liberalizzazione dei mercati energetici suona in modo discordante nella realtà russa, nonostante gli sforzi compiuti in questa direzione e i risultati conseguiti con i paesi del Sud-Est europeo attraverso il Trattato dell’energia (firmato il 25 ottobre 2005 e attivo dal luglio 2006), che ha coinvolto i paesi dei Balcani creando una base istituzionale in quei paesi per un mercato integrato con quello dell’Unione europea.

Per concludere, la sicurezza energetica non potrà essere lasciata ancora a lungo ai governi nazionali da parte dell’Unione europea, né alle imprese da parte dei governi nazionali, così da supplire all’assenza di una politica energetica estera europea.

All’Unione europea compete oggi il compito politico di costruire con gli Stati Uniti quel «terreno intermedio» di relazioni multilaterali su cui potrà fondarsi un’architettura istituzionale politica di riferimento per la gestione delle fonti primarie di energia; ai singoli Stati e alle loro imprese compete invece, la sfida tecnologica secondo le linee che ci ha insegnato Schumpeter. La seconda linea è quella di contribuire alla promozione di politiche per migliorare l’efficienza energetica (ad esempio nel settore dei trasporti), le quali rappresentano invece la «forza economica» che le imprese possono maturare con la promozione di nuove tecnologie: le imprese sono naturalmente tese a questi orizzonti, purché il quadro delle regole sia chiaro, definito e non contraddittorio negli obiettivi.[23]



[1] Nel 2005 gli Stati Uniti hanno importato il 34% dell’energia consumata, il 56% del petrolio e il 15% circa del gas naturale consumati.

[2] La dipendenza energetica europea è cresciuta al 56% nel 2005 (dal 54% del 2004); infatti, nonostante i consumi siano rimasti stazionari a 1.637 milioni di TEP (tonnellate equivalente petrolio), la produzione interna è scesa del 4,2%. Complessivamente, nel periodo 1995-2004 le importazioni europee di fonti energetiche sono cresciute del 29% (60% petrolio e 24% gas).

[3] Cfr. il Grafico 1 per la produzione di energia per principali paesi produttori, il Grafico 4 per lo stock di riserve di petrolio, il Grafico 5 per le riserve di gas e il Grafico 6 per i flussi di consumo e produzione di petrolio suddivisi per paesi.

[4] Commissione delle Comunità europee, A European Strategy for Sustainable, Competitive and Secure Energy, cit.

[5] Si prospetta addirittura un obiettivo del 20% per le fonti rinnovabili al 2010. L’Italia si è impegnata per il 22%.
[6] Le Reti Transeuropee dell’energia (TEN–Energy) riguardano i progetti di interesse comune definiti e regolamentati nel 1996 e aggiornati negli anni successivi (1997, 1999, fino al 2003). Cfr. Trans-European Energy Networks. Policy and Actions, Lussemburgo 1997.
[7]  UE, Emission Trading Scheme, 2003/87/CE.
[8] Su questo punto si tornerà nel secondo esempio.
[9] Sarebbe opportuno interrogarsi sul senso di una indicazione di questo tipo nelle attuali condizioni

del mercato.

[10] Si tratta di contratti take or pay che vincolano l’acquirente italiano alle quantità ordinate, per il periodo stabilito, fino alla scadenza del contratto, anche se non ritirate per la vendita.

[11] L’EPE mira a concludere con la Russia il protocollo di transito e la ratifica della «Carta dell’Energia», ma non si intravedono risultati in questa direzione, poiché la Russia rifiuta di aprire le proprie reti e di firmare un trattato che preveda la garanzia di accesso ai terzi. I contrasti tra Russia e Ucraina sul prezzo del gas (poiché attraverso l’Ucraina passa l’80% delle esportazioni energetiche russe destinate all’Europa, in seguito a questi contrasti ad Italia, Francia, Ungheria, Austria e Repubblica Ceca è venuta a mancare una quota significativa di gas dalla Russia), seguiti dalle esplosioni ai gasdotti che collegano la Russia alla Georgia, evidenziano la valenza politica dell’interruzione delle forniture. Basti ricordare le difficoltà incontrate da Ucraina, Moldavia e Georgia, mentre la Bielorussia, che viene considerata interna alla sfera di influenza russa, non ha avuto problemi nell’approvvigionamento a «prezzi politici». Nella stessa direzione, si leggono le recenti minacce di Putin, di trovare mercati di sbocco per il gas russo alternativi a quelli europei, con riferimento ai paesi asiatici. Il fatto che l’Europa sia il mercato più importante per il gas naturale e il petrolio russo – le esportazioni energetiche costituiscono dal 20% al 40% delle entrate del paese – non sembra limitare la libertà di movimento della Russia, né moderare le preoccupazioni europee. Per un’analisi dettagliata di questa questione si rinvia a Senato della Repubblica, La sicurezza energetica nell’area atlantica, 46/2006, e J. Stern The Russian-Ukrainian gas crisis of January 2006, Oxford Institute for Energy Studies, Oxford 2006.

[12] Per una ricostruzione dettagliata si rinvia a C. Jaeger, M. Oppenheimer, Emissions Pathways to Avoid Dangerous Climate Change. A Trans-Atlantic View, SWP Berlin Intact, giugno 2005.

[13] Per un approfondimento e riferimenti alla letteratura sul tema rinvio a V. Termini, The EU Emission Trading Scheme. Critical aspects in an Italian perspective, 2006, paper presentato al convegno internazionale, Regulation and Liberalization, International Perspectives, Roma 26-27 ottobre 2006.

[14] Ad esempio, in Italia, questa politica ha consentito a ENEL di imporre nel maggio 2006 un sovrapprezzo di 1.67£/MWh, attribuito al costo degli ETS, su tutti i contratti di acquisto di energia elettrica stipulati nel 2005, grazie ad una clausola contrattuale. Per rendere tollerabili alle imprese i tetti imposti all’inquinamento, si sono definiti Piani di allocazione nazionale (NAP) dei permessi di inquinamento gratuiti, sostenendo costi amministrativi elevati su scala nazionale (si sono aggregate per settore, per impresa, addirittura per impianto le emissioni storiche presso il MAP per comunicare le previsioni e la conseguente richiesta di certificati-Bruxelles); si è effettuato quindi un sostanziale trasferimento di ricchezza ai produttori del settore elettrico, che costituiscono circa il 73% dei grandi inquinatori nei settori inclusi nel Protocollo di Kyoto (i trasporti sono ancora esclusi). Tuttavia, la verifica della CE mostra che i NAP di alcuni paesi membri sono stati troppo alti rispetto alle loro reali esigenze. L’Italia pagherà invece un costo finanziario significativo (+19% CO2, invece del –6.5% CO2 relativo al 1990) che dipende naturalmente dal prezzo degli ETs. La capacità negoziale dell’Italia in questa occasione è stata quasi pari a zero.

[15] Naturalmente le ragioni del mancato raggiungimento degli obiettivi degli accordi di Kyoto per l’Italia sono assai più articolate. Su questo punto si rinvia a V. Termini, The EU Emission Trading Scheme, cit

[16] Per una discussione su questi aspetti si rinvia a C. Jaeger, M. Oppenheimer, op. cit.

[17] Nel Discorso sullo stato dell’Unione del 2006, il presidente Bush ha esplicitamente richiamato questo punto progettuale: «Il modo migliore per eliminare questa dipendenza (dal petrolio) passa attraverso la tecnologia. Dal 2001 abbiamo speso quasi 10 miliardi di dollari per sviluppare fonti alternative di energia più pulita, più economica e più affidabile. E siamo prossimi ad incredibili sviluppi. Perciò, questa sera, vi annuncio la Advanced Energy Initiative, un aumento del 22% della ricerca per energia pulita del Dipartimento dell’Energia allo scopo di compiere un passaggio rivoluzionario in due settori vitali. Per cambiare il modo in cui diamo energia alle nostre case e uffici, investiremo maggiormente il impianti a carbone ad emissione zero, in tecnologie solari ed eoliche rivoluzionarie e in energia nucleare pulita e sicura». La comunità scientifica americana ha da tempo dimostrato ad esempio che, apportando alcuni cambiamenti al motore e alla carrozzeria, i consumi degli autoveicoli potrebbero essere ridotti in modo significativo (per esempio, costruendo le auto con materiali ultraleggeri già disponibili sul mercato, oppure adottando motori ibridi, che associano tecnologie a combustione con tecnologie elettriche in grado di aumentare l’efficienza dei mezzi del 30-40%). Cfr. Senato della Repubblica, op. cit

[18] Negli ultimi anni, le compagnie petrolifere americane hanno stretto nuovi rapporti con paesi dell’Africa sub-sahariana (Angola, Nigeria, Ciad, Guinea equatoriale, Gabon, Sao Tomé e Gambia). Tuttavia gli attentati contro gli oleodotti in Nigeria (febbraio 2006), la corruzione e le ripercussioni sociali legate al nuovo oleodotto in Ciad, la guerra civile in Angola e la precaria stabilità dei regimi in altri paesi rendono l’Africa sub-sahariana un rischioso partner per gli Stati Uniti.

[19] M. Walzer, Sulla guerra, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 101.

[20] Cfr. Commissione della CE, Libro verde sull’efficienza energetica: fare di più con meno, giugno 2005, disponibile su https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/site/it/com/2005/com2005_0265it01.doc.

[21] Cfr. The Energy Charter Treaty and Related Documents, Energy Charter Secretariat, settembre 2004, disponibile su www.encharter.org/upload/9/12052067451571158192049714743532131935190860213f2543v3.pdf.

[22] Al contrario, forte della possibilità di accedere a valle, nella distribuzione verso i paesi del Mediterraneo che l’Italia rischia di offrire come merce di scambio per la sicurezza energetica nazionale, Igor Shuvalov ha potuto dichiarare a nome di Putin, nei preparativi del G8: «Il nostro obiettivo non è una associazione di produttori di gas, ma un mixed asset-management system attraverso il quale sia i consumatori che i produttori sono parte di una struttura economica integrata», e in caso questo non accada «non ci sarà sicurezza energetica». La stessa idea di uno scambio di asset fra upstream e downstream, in modo da cementare una comunanza di interessi fra venditori e compratori è stata descritta dallo stesso Putin.

[23] Sintesi della relazione presentata all'incontro di Europeos «Politiche comuni per l'energia», Roma 11 settembre 2006.