Democrazia, consenso e Stato sociale

Written by Valentino Larcinese Friday, 21 March 2008 14:07 Print

Il modello sociale europeo viene spesso rappresentato come un fortino assediato. La globalizzazione e la concorrenza dei paesi emergenti ne esporrebbero la natura disincentivante e l’incapacità di competere sulla scena internazionale. I cambiamenti demografici e l’invecchiamento della popolazione lo renderebbero insostenibile, mentre i costi crescenti e gli sprechi lo renderebbero indesiderabile agli occhi di una classe media sempre più attratta da soluzioni privatistiche e di mercato. Questo è, quanto meno, il quadro che alcuni circoli accademici e buona parte dei mass media tendono a dipingere.

In un’ottica di lungo termine, invece, il successo e la popolarità dello Stato sociale sono impressionanti. Il rapporto fra spesa pubblica media e PIL nei paesi economicamente più sviluppati era pari all’8% nel 1870, al 28% nel 1960, al 43% nel 1980, al 46% nel 1996. Una parte consistente di tale crescita è dovuta all’espansione delle prerogative dei governi e, in particolare, all’introduzione di programmi di protezione sociale praticamente inesistenti presso qualunque civiltà precedente: la spesa per pensioni, salute, sussidi e benefici di disoccupazione rappresentava nel 1990 circa il 23% del PIL delle democrazie industrializzate. La Tabella 1 riporta il rapporto fra spesa sociale e PIL in alcuni paesi OCSE dal 1880 al 1995. La spesa sociale ha cominciato lentamente a crescere nel corso del Diciannovesino secolo per poi divenire impetuosa nel secondo dopoguerra, quando si costituirono i programmi cardine dello Stato sociale. A questa impressionante crescita ha fatto da contraltare (e ha contribuito) l’introduzione di sistemi di tassazione progressiva del reddito, con finalità esplicitamente redistributive. Anche negli ultimi decenni, e nonostante i molti proclami in senso contrario, lo Stato sociale ha dimostrato una impressionante capacità di resistenza. La crescita della spesa sociale è continuata, benché a ritmi più lenti, anche negli anni Ottanta e Novanta. Emblematico è il caso del Regno Unito che, sotto i governi superconservatori della Thatcher e di John Major ha aumentato il rapporto fra spesa sociale e PIL dal 16,94% del 1980 al 22,52 del 1995.

 

3_2007.Larcinese.Tabella1


Non poche sono le teorie che cercano di spiegare l’introduzione e la spettacolare crescita dello Stato sociale nel corso del Ventesimo secolo. Ancora di più sono gli scritti fioriti sulla crisi che ha investito lo Stato sociale negli ultimi due o tre decenni. In questo contributo ci si concentrerà su un solo elemento: il legame con la democrazia elettorale. Infatti, benché funzionale alle stesse esigenze delle élite industriali, non può sfuggire che la crescita della spesa sociale segue a distanza ravvicinata l’espansione dei diritti democratici: in particolare, l’introduzione del suffragio universale. Esiste dunque un legame rilevante fra democrazia e Stato sociale: quest’ultimo si è fondato sul consenso di larghi strati della popolazione che l’hanno richiesto e sostenuto dal momento in cui hanno ottenuto rappresentanza nelle sedi decisionali.

A prescindere dunque da considerazioni di carattere normativo, ossia concernenti l’adeguatezza o meno dello Stato sociale nelle sue forme attuali, si illustreranno a grandi linee, e nei limiti di ciò che si è finora riusciti a comprendere, i complessi rapporti che intercorrono fra rappresentanza democratica, creazione del consenso e modalità di implementazione dello Stato sociale. Verrano utilizzati esempi e studi condotti in altri paesi, dove le indagini di carattere sociale sono meglio finanziate e più frequenti che in Italia, nella speranza che maggiori finanziamenti alla ricerca italiana, e alle scienze sociali in particolare, possano in futuro anche offrirci una migliore conoscenza del nostro paese utile, fra l’altro, per poter migliorare e riformare il nostro modello sociale nell’interesse di una vasta maggioranza di cittadini.

Alla ricerca del centro Sarà bene partire da una considerazione di carattere generale: i processi democratici di scelta hanno spesso, anche se non necessariamente, la tendenza a convergere su posizioni centriste. Questo avviene in un sistema proporzionale perché chi è al centro può più facilmente stabilire alleanze sia a destra che a sinistra e dunque può ottenere di più in fase negoziale. Avviene però anche in un sistema maggioritario, in cui la ricerca di voti spinge i partiti e le coalizioni a cercare il consenso del «cittadino medio» o, più precisamente, di quello che nella letteratura di public choice si chiama «elettore mediano». Per quel che ci riguarda, occorre notare che, nelle democrazie occidentali, l’elettore mediano di solito è un beneficiario netto dell’azione redistributiva dello Stato. Ciò può spiegare la resistenza che incontra chiunque voglia apportare cambiamenti radicali al sistema attuale di protezione sociale. Il concetto di centro, però, non è politicamente così ben definito come lo può essere in geometria. In particolare, occorrerebbe forse chiedersi più spesso: centro rispetto a che cosa? Se la dimensione più rilevante per le scelte di voto del cittadino è quella della redistribuzione e della protezione sociale, allora l’elettore «di centro» avrà un interesse a proteggere un sistema di cui è, nel complesso, beneficiario. E tuttavia non è affatto ovvio che quella economica sia l’unica o anche la più importante delle tematiche su cui viene condotta una campagna elettorale. Questioni quali i diritti civili e le libertà individuali, la politica estera, la sicurezza e la criminalità, la moralità nella gestione della cosa pubblica possono in talune circostanze guadagnare la ribalta; per il futuro, possiamo immaginare un ruolo sempre più rilevante per i temi di carattere ambientale. Quando la competizione elettorale si intreccia su più questioni non correlate fra di loro, il concetto di centro può diventare evanescente: un individuo può essere di sinistra, di centro o di destra a seconda della dimensione che si considera. In una democrazia rappresentativa, però, non si può ottenere quello che si vuole su tutte le questioni: si vota invece per un «pacchetto» di proposte e per rappresentanti che saranno incaricati di attuarle. In questi casi i candidati avranno un ovvio incentivo a porre in evidenza le questioni sulle quali riescono a occupare il centro e ad essere maggioranza, ignorando invece quelle sulle quali sono percepiti come più estremi e di minoranza. Il gioco in tal caso non è dunque più quello di raggiungere il centro, ma piuttosto quello di evidenziare all’elettorato le questioni politicamente più convenienti.

Secondo una interpretazione sempre più ricorrente di quello che sta accadendo nell’opinione pubblica dei paesi occidentali, i cosiddetti «valori morali» si stanno da qualche tempo imponendo a scapito delle più tradizionali questioni economiche. Ciò è particolarmente vero negli Stati Uniti, dove sarebbe in corso una vera e propria «guerra culturale».1 Ad esempio, nelle ultime elezioni americane, si è notata una maggiore salienza di temi quali il matrimonio gay, l’aborto, il ruolo della religione nelle scuole e così via. Ciò porterebbe individui poveri, e che di fatto sarebbero beneficiari di una maggiore redistribuzione, a votare per partiti conservatori, che si pongono come garanti dei valori tradizionali. Così facendo, essi voterebbero contro il proprio interesse economico, perché appagati invece dalla difesa di tali valori. Si tratta, se vogliamo, di una novella versione della tesi dell’«oppio dei popoli», ma a proporla stavolta non è Marx, ma una serie di studiosi americani.

Questa interpretazione, così spesso raccolta dai media e diffusa presso il grande pubblico, è in realtà tutt’altro che convincente. Quello che emerge dalle indagini a campione è che la stragrande maggioranza dei cittadini americani è moderata ma non conservatrice, sia sui temi economici sia su quelli morali. Inoltre, l’analisi statistica dei dati mostra che il peso dato alle questioni economiche nelle scelte di voto è di molto superiore al peso dato alle questioni morali. Per dirla con le parole di tre studiosi del MIT, «anche i protestanti evangelici e gli elettori delle zone rurali danno più enfasi all’economia che alle questioni morali».2 Anche in Italia, nonostante i ripetuti tentativi di accrescere la salienza dei valori morali presso l’opinione pubblica, il peso dei temi economici nelle scelte di voto è preponderante. Usando dati ITANES dell’Istituto Cattaneo è possibile stimare che, nel determinare le scelte di voto degli italiani, il peso degli orientamenti e delle opinioni su temi economici è di molto superiore a quello delle questioni di carattere morale: questo è ugual- mente vero per gli elettori di centrodestra e per quelli di centrosinistra.3

Se così stanno le cose, il dibattito sullo Stato sociale continuerà ad avere un peso preponderante nel futuro della politica italiana, a meno di un diffuso cambiamento di prospettiva di una buona parte dell’opinione pubblica. Forse è anche possible spiegare in questo modo i sempre più frequenti tentativi dei partiti conservatori di portare i «valori tradizionali », le questioni identitarie, le questioni religiose al centro del dibattito pubblico: ciò darebbe probabilmente un vantaggio elettorale a coloro che si pongono come tutori della tradizione e dei valori, riducendo il conflitto generato da eventuali tagli alla spesa sociale.

Partecipazione e informazione La progressiva espansione del diritto di voto ai lavoratori, fino all’introduzione del suffragio universale, ha indotto nel corso del Ventesimo secolo una crescita impetuosa dei partiti di ispirazione socialista e popolare e ha spostato drammaticamente il baricentro politico dei paesi industrializzati. È stata questa la molla primaria che ha portato all’introduzione e all’evoluzione dello Stato sociale, nonché all’espansione dei diritti dei lavoratori e delle donne. In tale prospettiva si possono identificare due aree critiche per le democrazie moderne: la partecipazione dei cittadini alla vita politica e l’informazione di cui questi possono avvalersi nel fare le proprie scelte.

Per quanto riguarda la partecipazione, alta affluenza alle urne e interesse nella politica sono spesso associati all’affermazione delle forze progressiste. I paesi con una partecipazione elettorale più alta, inoltre, hanno solitamente una spesa sociale più elevata.4 La ragione può essere rintracciata nelle indagini condotte sugli elettori di tutti i paesi democratici: votano generalmente di meno i giovani, i poveri, le donne, le minoranze etniche e religiose, coloro che hanno un basso grado di istruzione. Queste persone, pertanto, e le loro istanze, ricevono di solito minore attenzione da parte dei politici. Una partecipazione aggregata bassa è quindi spesso indice di una partecipazione che non è rappresentativa della società. Il baricentro decisionale, pertanto, non riflette il «centro» della società nel suo complesso. È il caso eclatante della pur grande democrazia americana, dove a non votare sono soprat- tutto i poveri e le minoranze etniche. Una partecipazione aggregata più elevata, invece, indica generalmente che le parti più deboli della società sono state maggiormente coinvolte nel processo di decisione collettiva e, dunque, che le loro istanze verranno prese nella giusta considerazione. Ciò sposta a sinistra il baricentro politico e rafforza la domanda di spesa sociale.

La seconda area critica è rappresentata dall’informazione: l’elettore può non essere al corrente di essere un beneficiario netto dell’azione redistributiva dello Stato. Un esempio interessante viene offerto da un recente studio di Larry Bartels sui tagli fiscali introdotti durantre il primo mandato di George W. Bush.5 I tagli andavano a particolare vantaggio dei super ricchi e prevedevano la riduzione dell’aliquota per i redditi più elevati, la riduzione delle tasse sui dividendi e sui capital gains, la graduale abolizione dell’imposta di successione. Secondo le stime dell’Institute on Taxation and Economic Policy, le riforme dell’Amministrazione Bush porteranno nel 2010 ad una riduzione del 25% del carico fiscale sull’1% più ricco della popolazione americana, ad una riduzione del 21% per il successivo 4% più ricco, e solo ad una riduzione del 10% per il rimanente 95% della popolazione. Sempre nel 2010, l’1% più ricco della popolazione si approprierà del 51% dei risparmi fiscali generati dai tagli. Nonostante questo, tutti i sondaggi condotti nel periodo 2001-04 hanno regolarmente evidenziato un vasto consenso per la riforma fiscale di Bush, con percentuali di approvazione che andavano dal 50% ai due terzi degli intervistati a seconda dei casi. Lo studio di Bartels mostra che tre quarti degli americani ritiene, cor- rettamente, che la disuguaglianza sia cresciuta negli ultimi venti anni; circa il 40% (dunque una maggioranza di coloro che hanno una percezione corretta della realtà) giudica il fenomeno negativamente. Ciò contraddice la diffusa credenza che gli americani siano indifferenti alla disuguaglianza in quanto ritengono di vivere in una land of opportunities di cui le disuguaglianze sarebbero la naturale e accettabile conseguenza. L’aspetto più interessante che emerge dallo studio è però un altro, ossia la scarsa percezione del rapporto fra tassazione e spesa corrente o futura. Gli intervistati favorevoli ad un incremento della spesa pubblica erano anche più favorevoli della media ai tagli fiscali. Inoltre, una vasta percentuale degli intervistati si dichiarava favorevole all’abolizione della tassa di successione perché riteneva (erroneamente) che questa avrebbe portato ad una riduzione del loro carico fiscale (solo il 2% più ricco della popolazione pagava in realtà l’imposta di successione, che veniva applicata a patrimoni superiori ai 600 mila dollari).

La conclusione di Bartels è che il supporto per i tagli fiscali di Bush non è basato sull’indifferenza degli americani verso la disuguaglianza, ma piuttosto su una erronea percezione dei vantaggi personali derivanti dai tagli, una scarsa comprensione dei vincoli di bilancio dello Stato, la non considerazione dei costi futuri che derivano da un crescente debito pubblico. Non sorprende allora che, indipendentemente dal reddito, il supporto per i tagli fiscali sia considerevolmente più basso fra i cittadini meglio informati.

Una considerazione importante è che i cittadini meno informati e meno capaci di individuare le politiche pubbliche a loro più favorevoli sono anche quelli che maggiormente beneficerebbero di una spesa sociale elevata. L’unica eccezione sono i pensionati: presso tutte le democrazie occidentali i pensionati, a parità di altre caratteristiche, sono meglio informati della media e hanno un elevato tasso di partecipazione elettorale; ciò contribuisce alle difficoltà di chi intende riformare i sistemi pensionistici e rende i pensionati una categoria estremamente influente in qualunque democrazia, particolarmente quando l’età media della popolazione comincia ad essere relativamente elevata.

Per concludere, il supporto di cui gode lo Stato sociale in generale, e alcuni programmi in particolare, dipende in modo cruciale dal tipo di informazione di cui dispongono i cittadini. Il pluralismo mediatico, la comprensione di alcune nozioni fondamentali di economia, meccanismi di deliberazione efficaci, fondati sul ragionamento e non sugli slogan, possono portare gli individui a fare scelte maggiormente in linea con il proprio interesse. E ciò può condizionare in modo rilevante il supporto popolare di cui gode lo Stato sociale. Benché sia difficile stabilire un rapporto di causalità, vale la pena notare che, a parità di altre caratteristiche istituzionali, i paesi con maggiore libertà mediatica sono anche quelli che hanno una maggiore spesa sociale.6

Modelli sociali e supporto per il welfare State Le caratteristiche di un programma di welfare che possono influenzarne la popolarità presso l’opinione pubblica sono molteplici, troppe per poter essere trattate in modo esauriente in questa sede. Ci si concentrerà pertanto su una sola di queste, la più importante nel presente contesto: il suo carattere universalistico.

Un programma di welfare può rivolgersi all’intera popolazione (sistema universalistico) o essere diretto unicamente a particolari gruppi in stato di bisogno (lo chiameremo «sistema selettivista»). Questa è una delle caratteristiche più significative per quanto concerne il supporto di cui lo Stato sociale può godere presso l’opinione pubblica. Un sistema universalistico include le classi medie e dunque trova supporto politico al «centro»: ciò rende il sistema (o uno specifico programma) politicamente sostenibile e garantisce una certa qualità nel caso dei servizi.7 Un sistema selettivista è invece concepito per una minoranza e sarà quindi spesso inviso ai più, che lo vedranno come una sorta di carità di Stato e che cercheranno di ridurlo al minimo dato che i fondi provengono comunque dalla fiscalità generale. Occorre inoltre tenere presente che le minoranze più bisognose sono anche le meno organizzate, le meno partecipative e le meno informate. Dunque l’impatto di programmi universalistici va ben oltre la semplice capacità di «catturare » il centro. Esso consiste anche nella mobilitazione in suo favore di cittadini meglio organizzati e meglio informati: tale effetto è tanto più ampio quanto più i benefici dello Stato sociale sono estesi anche a cittadini di condizione economica agiata. Affinchè ciò sia possi- bile occorre che i servizi forniti pubblicamente siano di buona qualità e/o che i benefici per i cittadini più abbienti siano comunque non marginali. Il sistema pensionistico rappresenta un buon esempio in questo senso. Anche il sistema sanitario italiano, nonostante i suoi limiti e nonostante la notevole visibilità mediatica dei casi di malasanità, continua a godere di notevole supporto popolare: il 63% degli intervistati nell’indagine ITANES 2001 si dice poco o per niente d’accordo con l’idea di privatizzare la sanità. Solo il 29% si dice molto o abbastanza d’accordo. Un altro aspetto importante distingue universalismo e selettivismo: il primo ha un effetto che potremmo definire «democratizzante». L’attivismo politico, l’interesse, la partecipazione alle attività della società civile, il senso di efficacia individuale, il livello di conoscenza delle questioni politiche sono influenzati dalle risorse di cui si dispone. Fornendo risorse agli individui (benefici monetari, salute, tempo libero e così via) si permette loro un maggiore coinvolgimento politico. Riducendo la diseguaglianza nell’accesso a tali risorse si permette un coinvolgimento più omogeneo della popolazione. Ad esempio, i sistemi pensionistici pubblici riducono le disuguaglianze nella popolazione anziana e permettono (anche grazie all’incremento di tempo libero) una partecipazione politica maggiore anche da parte degli anziani meno abbienti. Di conseguenza, le disuguaglianze nei livelli di partecipazione sono minori fra i pensionati che nel resto della popolazione. Nel caso dei sistemi selettivisti tale effetto non si manifesta perché il ricevimento di una prestazione pubblica che si rivolge solo ai più bisognosi può comportare stigmatizzazione e senso di non appartenenza al resto della società.8

Vale infine la pena citare i diversi metodi e costi di amministrazione associati con i due sistemi. Un sistema universalistico ha minori costi di amministrazione perché le prestazioni sono automatiche e non c’è bisogno di accertare le condizioni di bisogno del ricevente. Per questo stesso motivo, viene anche ridotto il grado di discrezionalità dei burocrati, una variabile importante particolarmente in un paese come l’Italia, dove il sospetto di un uso privato delle prerogative pubbliche è sempre molto diffuso. Entrambi questi fattori spingono nella direzione di un maggiore supporto per lo Stato sociale nel suo complesso quando una parte consistente dei programmi ha carattere universalistico piuttosto che selettivista.

Un nuovo patto sociale La campagna elettorale del 2006 si impantanò in uno strano dibattito sulla proposta dell’Unione di reintrodurre l’imposta di successione: la questione centrale divenne per qualche giorno quale fosse il limite di esenzione. Nel centrosinistra si parlò di «molti, moltissimi milioni», nel centrodestra di «mani nella marmellata»: sembrava si stesse parlando di un furto, e probabilmente per questo motivo l’Unione perse qualche voto. Nessuno si presentò in pubblico ad argomentare, razionalmente, che una tassa su beni guadagnati da altri, anche se nostri parenti, è almeno tanto giusta quanto una tassa su risorse guadagnate da noi stessi. Nessuno parlò di familismo, non si citò il merito, che pure sembra essere tanto di moda a parole.

Ovviamente ribadire pubblicamente qual’è la ratio dell’imposta di successione sarebbe stato utile; ma forse si poteva fare anche di meglio. Appena qualche settimana prima era stata avanzata una proposta9 che consisteva nell’usare il gettito dell’imposta di successione per finanziare un equivalente italiano del britannico Child trust fund: per ciascun neonato lo Stato apre un conto corrente di risparmio su cui viene versata una determinata somma in ciascun anno. Il conto matura interessi ma è bloccato fino al compimento della maggiore età, quando l’individuo diventa libero di usare la somma accumulata come meglio crede. Rispetto al caso britannico, in cui il Child trust fund è finanziato attraverso la fiscalità generale, questa proposta prevede di aprire i conti di risparmio ripartendo il gettito dell’imposta di successione in un determinato anno fra tutti i nati di quell’anno. Si tratta di un meccanismo semplice, universalistico, che rende esplicita la ratio dell’imposta di successione e che potrebbe generare nuovo consenso intorno ad una imposta, quella di successione, la cui impopolarità, che può certamente derivare da molti fattori, è probabilmente acuita dalla erronea percezione dei vantaggi che porta con sé.

Questa proposta non rappresenta di certo il cardine di un nuovo patto sociale, ma se ne è voluto qui parlare per fornire un esempio di ciò che si potrebbe fare. Lo Stato sociale necessita di riforme, che non coincidono con lo smantellamento del patto sociale che ha garantito prospe- rità e un minimo di equità alle democrazie occidentali nella seconda metà del Ventesimo secolo. Ma non consistono neppure in una semplice navigazione a vista in cui ogni tanto si aggiusta un parametro qua e là. Negli ultimi anni si è fatta spazio nella società un’idea di giustizia sociale definita in termini di punti di partenza piuttosto che di punti di arrivo. Tutti gli individui debbono, nei limiti del possibile, godere delle stesse opportunità alla nascita. Uno Stato sociale che intenda godere di un solido consenso popolare deve innanzitutto essere fondato su una nozione condivisa di giustizia sociale. Il welfare State delle pari opportunità dovrà pertanto dedicare più risorse alla formazione, a tutti i livelli, ma soprattutto durante i primi anni di esistenza di un individuo. Così facendo ridurrà il bisogno e il costo di interventi nelle fasi successive dell’esistenza, rendendo i cittadini maggiormente in grado di affrontare da soli le sfide del mercato. Ciò non significa che bisognerà rinunciare alla protezione universalistica contro i grandi rischi dell’esistenza, ma piuttosto che tale protezione potrà essere più simile ai modelli di flexicurity che hanno contribuito al notevole successo delle economie dei paesi scandinavi nell’ultimo decennio. Il compito di chi dovrà guidare lo Stato sociale attraverso i mari procellosi delle riforme non è semplice. Particolarismi e diritti di veto potrebbero continuare a farla da padroni ancora per molto, imponendo uno status quo che non giova al paese e non giova neppure ai ceti più deboli. Il rischio principale, però, è rappresentato dal populismo dell’antistato e dell’antitassa, quello dell’«egoismo male informato». Riprendendo gli argomenti che sono stati sviluppati in questo articolo, gli antidoti possono essere una più ampia partecipazione popolare alla vita politica, un sistema informativo libero e che favorisca un processo di deliberazione collettiva razionale, programmi di welfare diretti a strati ampi della popolazione, basati su procedure semplici, con meno costi amministrativi e con poca discrezionalità da parte dei burocrati. A questo si potrebbero aggiungere, infine, anche meccanismi di finanziamento che siano trasparenti e che forniscano la percezione che i soldi pubblici sono usati nell’interesse dei cittadini piuttosto che per le clientele di una ristretta élite politica e burocratica.

 

[1] T. Frank, What’s the Matter With Kansas? How Conservatives Won the Heart of America, Metropolitan Books, New York 2004.

[2] S. Ansolabehere, J. Rodden e J. M. Snyder Jr, Purple America, in «Journal of Economic Perspectives», 20/2006, pp. 97-118.

[3] V. Larcinese, The Channelled Italian Voters, in F. Padovano e R. Ricciuti (a cura di), Institutional Reforms in Italy: a Public Choice Perspective, Springer, Heidelberg 2007.

[4] Larcinese, Voting over Redistribution and the Size of the Welfare State: The Role of Turnout, in «Political Studies», 55/2007.

[5] L. Bartels, Homer Gets a Tax Cut: Inequality and Public Policy in the American Mind, in «Perspectives on Politics», 3/2005, pp. 15-31.

[6] La correlazione è stata stabilita usando i dati di Freedom House sul grado di libertà goduto dai mass media nei diversi paesi.

[7] Robert Goodin e Julian Le Grand mostrano come siano proprio le classi medie a beneficiare maggiormente dei programmi di welfare. Cfr. R. Goodin e J. Le Grand, Not Only the Poor: the Middle-Classes and the Welfare State, Routledge, Londra 1987. Si veda anche lo studio sull’impatto redistributivo della spesa universitaria italiana di Maria Pia Monteduro. Cfr. M. P. Monteduro, Gli effetti redistributivi della spesa pubblica universitaria: un´analisi empirica e metodologica, Econpubblica Working Paper, 27/1994.

[8] A. L. Campbell, How Policies Make Citizens: Senior Citizen Activism and the American Welfare State, Princeton University Press, Princeton 2003. Della stessa autrice si veda anche Campbell, Feedbacks and the Political Mobilization of Mass Publics, MIT Working Paper, 2007.

[9] Per maggiori dettagli si vedano Larcinese, L’imposta di successione per un fondo-giovani, www.lavoce. info, 6 marzo 2006 e Larcinese, Successioni: il gettito vada al baby-bond, in «La Repubblica», 29 maggio 2006.