PD e PdL: il soggetto conta più della sceneggiatura?

Written by Gianni Cuperlo Tuesday, 13 May 2008 19:51 Print

Si può individuare, a meno di scelte di parte, un discorso politico che possa essere considerato il più importante della storia italiana? Partendo da questo interrogativo, si può avviare un’analisi dei toni e dei contenuti della campagna elettorale appena conclusa di PD e PdL. Se il PD ha puntato sulla scelta di andare da solo, su un programma curato e leggibile e sull’evidenziazione delle fratture culturali presenti nello schieramento avverso, la campagna elettorale del PdL si è caratterizzata per l’accentuazione dei segni di continuità tra il governo uscente e la proposta veltroniana, per una nuova svolta tremontiana e per una variazione nei toni e nei messaggi.

Qual è, se c’è, il discorso politico più importante della storia italiana? O almeno della nostra storia recente, della sessantennale stagione repubblicana? Difficile rispondere, a meno di privilegiare una scelta di parte. Ad esempio, la sinistra in senso lato potrebbe citare l’orazione sull’austerità di Enrico Berlinguer sul palco del teatro Eliseo. Eredi e orfani del socialismo, l’atto d’accusa parlamentare di Craxi contro quel sistema che egli riteneva complessivamente responsabile dei reati che stavano travolgendo il suo partito. Altri, e con buone ragioni, il “testamento” di Aldo Moro dinanzi ai gruppi parlamentari della Democrazia Cristiana riuniti a Roma poche settimane prima della strage di via Fani. Potremmo aggiungere alcuni tra i popolarissimi sfoghi del presidente Pertini. E, per i più colti, le testimonianze di civismo e cultura che attraversarono, a più riprese, i lavori dell’Assemblea costituente. E ancora, risalendo nel tempo, alcuni interventi di Gramsci, Sturzo, Gobetti. Ma questo gioco di rimandi ci porterebbe fuori strada, perché attingeremmo a quel patrimonio di teorie e visioni che molto hanno pesato nel formarsi della coscienza politica di milioni di persone ma poco, relativamente poco, hanno inciso nel forgiarsi di una retorica civile del paese, delle sue élite, del suo sostrato popolare. Col risultato che un vero discorso sull’Italia e degli italiani non c’è. Non lo possediamo. Mentre diverse e spesso convergenti, seppure non identiche, sono tracce e riferimenti a storie separate. A memorie distinte. Il che non è irrilevante se lo scopo è comprendere almeno in parte l’evoluzione della nostra comunicazione politica. Anche di quella più vicina a noi.

Altrove non è così. Prendiamo gli Stati Uniti e la più dolorosa delle pagine vissute di recente da quel paese e dalla comunità cosmopolita che lo abita. E prendiamo la data simbolica, altamente simbolica, del primo anniversario di Ground Zero. Come ricostruisce Emilio Gentile nel suo bel saggio sulla “Democrazia di Dio”,1 nessun discorso m e m o r a b i l e venne pronunciato nell’occasione da alcun esponente politico.

La cronaca dell’evento in questo è significativa. Alle 8.46 del mattino, dopo un minuto di raccoglimento, il governatore di New York, George Pataki, recitò il discorso di Lincoln a Gettysburg. Poi l’ex sindaco Giuliani iniziò a scandire i nomi delle vittime. Lettura che proseguì per circa tre ore e che vide alternarsi al microfono voci e volti noti e sconosciuti. A chiusura il governatore del New Jersey lesse la Dichiarazione di indipendenza. Infine, ma solo nel pomeriggio, giunse sul sacrario il presidente Bush, che non pronunciò alcuna orazione. Dunque, due testi. La Dichiarazione di indipendenza e il discorso di Lincoln a Gettysburg. Quest’ultimo in particolare è forse il discorso più noto e studiato della retorica americana. “Uno dei testi sacri della religione civile” di quel paese. Sintesi perfetta e insuperata della commemorazione per i caduti di ogni guerra. Una preghiera laica. Invocazione solenne al tributo di vite che l’America, nel tempo, ha sacrificato e santificato nel nome della libertà propria e di quella altrui. Cosa colpisce? A dirlo con semplicità, il fatto che in un’epoca segnata dal primato dei simboli, nella politica e nella comunicazione, in un evento dalle profonde implicazioni emotive e identitarie, l’oratoria istituzionale non abbia sentito il bisogno di un prodotto originale ma si sia affidata a una retorica antica, e in quanto tale identitaria. Fatte le debite differenze, di cultura e di stili, qualcosa del genere sarebbe potuto accadere in casa nostra? Probabilmente no. Probabilmente gli eventuali protagonisti istituzionali di una simile commemorazione (che ci auguriamo di non dover mai celebrare) avrebbero saccheggiato un vocabolario contemporaneo e costruito la propria simbologia. Con perizia, magari. Ma soprattutto con l’ansia di lasciare un segno nella cronaca e forse nella storia. A conferma di quella miscela di fragilità della nostra identità di nazione e forza delle individualità che lungo gli anni e i decenni ha reso traballanti e a volte evanescenti le élite assunte nel loro insieme, ma brillanti e talentuose le performance dei singoli.

Se le cose stanno così, la differenza non è da poco. Perché ci racconta qualcosa sulla natura del nostro “messaggio” politico.

E in particolare sulla base di riferimento – sulle fondamenta comuni – che ne sorreggono l’impianto. È prematuro (queste note sono state scritte a urne chiuse da poche ore) trarre conclusioni analitiche sulla recentissima campagna elettorale, ma la premessa sull’esistenza o meno di un “discorso nazionale” si intreccia con lo spettacolo al quale abbiamo appena assistito. E partiamo dal neonato Partito Democratico. Veltroni ha scelto consapevolmente di giocare la carta dell’unità e dell’orgoglio nazionale. Ne ha fatto derivare un tratto della stessa simbologia elettorale: sobrietà e costanza cromatica del palco, leggio trasparente, Tricolore esposto e inno d’Italia a chiudere ogni evento popolare così concepito. Spesso la triade “Noi, l’inno e la bandiera” veniva “raccontata” nel corso della manifestazione, come a rivendicare una scelta di campo che interrompeva la logica decennale della frattura ideologica, dell’ostilità verso il “nemico”. Si è detto di una campagna dai toni morbidi. I fischi spesso zittiti dal palco («Noi non siamo quelli che fischiano gli avversari. E non siamo quelli che stracciano i programmi degli altri»). Non era la polemica di merito a risultare assente, anzi. Ma si è scelta una modalità dell’offerta che mirava a distinguersi dai precedenti. Più o meno tutti. Scelta tutt’altro che banale, perché dietro c’era l’idea di un paese che poteva riscoprire le virtù del proprio senso civico. L’irrazionalità dei venti secessionisti. L’inevitabilità di una visione nazionale dei problemi e delle soluzioni. La stessa lettera-manifesto spedita dal leader del PD al suo diretto competitore una settimana prima del voto e centrata sull’impegno comune a una «lealtà repubblicana» (fatta nuovamente del richiamo all’indissolubilità della nazione, al ri- spetto dell’inno e del Tricolore) è suonata come la conferma di un investimento strategico. Fare dell’italianità una issue della comunicazione elettorale e accentuare la distinzione piuttosto marcata tra una parte e l’altra su di un piano che potremmo definire meta-politico. L’operazione è riuscita? In parte sì.

Nell’altro campo forse mai come questa volta toni e forme della campagna sono risultati diversi. Berlusconi, salvo rare eccezioni, ha rinunciato alla propria immagine. Poca la cartellonistica. Scarse le gigantografie del “capo”. Limitati anche i richiami alla piazza che per altro, quando mobilitata, ha risposto in maniera blanda se raffrontata all’impatto del pullman veltroniano. Una campagna low profile?

Più in apparenza che in sostanza. Piuttosto, una spiccata sensibilità all’umore del paese. E l’attenzione a carezzare il pelo nel verso giusto. In fondo era difficile per la destra giocarsi ancora l’atout dell’innovazione (era la quinta rincorsa di Berlusconi a Palazzo Chigi). La stessa aggregazione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, aldilà del risultato auspicato, seguiva e non precedeva la fusione tra DS e Margherita sfociata nella nascita del PD. Sullo sfondo c’era la delusione verso il governo dell’Unione e un clima di insicurezza complessivo – sociale, economico, persino individuale – che ha suggerito per una volta una misura diversa. Certo, con sbavature come nel caso della citazione leghista sul ricorso ai fucili. O con l’esibizione di un repertorio classico e più consono al leader di quello schieramento come nella ventilata cordata nazionale su Alitalia.

Ma nel complesso la destra ha goduto di un traino che si è inserito su una tendenza preesistente. Qualcosa che da tempo agiva in profondità e che abbiamo faticato a scorgere in termini di tendenze culturali, propensioni, inclinazioni psicologiche. In un simile contesto, alla campagna di Fini e Berlusconi è bastato lasciar sedimentare quel senso comune che imputava agli ultimi due anni l’aggravamento delle condizioni economiche e non solo. La sceneggiatura a quel punto prevedeva un’azione leggera di accompagnamento. Perché a differenza di due anni fa non spettava a loro imprimere alla competizione una sterzata brusca. A loro bastava assecondare l’onda. Salirvi al momento opportuno e cavalcarla stando in equilibrio sulla tavola. Col senno di poi, l’operazione gli è riuscita.

Altri hanno approfondito e approfondiranno i flussi del voto. Alimentando, in particolare, un filone della politologia che si profila oramai quale genere letterario. Si pensi alle due fonti principali: il rigetto antipolitico e la dinamica del consenso al Nord. Passeremo mesi a fotografare la scena e intuire il retroscena, il che non è certo un male in sé. Ma forse converrebbe anche misurare il “tasso di realismo” della comunicazione elettorale. La sua adeguatezza a cogliere lo spirito del tempo e la congiuntura, anche quella psicologica, di un paese che non pochi descrivevano nell’ultima fase come “sull’orlo di una crisi di nervi”. Torna alla mente la citatissima sintesi mitterrandiana sul segreto di una buona campagna elettorale. «Vince chi racconta al suo popolo la storia che quello vuole sentirsi raccontare, a patto d’essere lui l’eroe di quella storia». E allora vediamo quali “storie” sono state raccontate. Perché l’impressione è che, soprattutto questa volta, il “soggetto” abbia contato più della “sceneggiatura”.

Dunque, tornando al Partito Democratico e alla sua istantanea del paese. In estrema sintesi, il PD ha puntato su tre opzioni. La prima è stata la semplificazione del sistema politico e della rappresentanza. “Andare da soli”, “liberi”. Basta con le coalizioni litigiose e forzate, tenute insieme dall’ansia di supremazia (numerica) nei confronti dell’avversario. Con il risultato che se ti va bene stappi spumante il lunedì dello scrutinio, ma già la mattina dopo sei paralizzato dai veti. Messaggio efficace e sintetico. Non a caso ha contrassegnato in positivo l’avvio, con largo anticipo, della campagna di Veltroni. Diciamo pure che si è trattato del vero effetto novità dell’insieme. Che seguiva l’altra discontinuità rappresentata dalla nascita del nuovo partito coi precedenti virtuosi delle primarie e di una campagna di adesione coronata ovunque da risultati più che lusinghieri. La rottura che ne è derivata e della quale Veltroni si è fatto interprete consapevole e coraggioso ha costretto gli altri attori, più o meno tutti, a fare i conti con la nuova offerta elettorale.

La seconda opzione è stata rappresentata dal programma. Su quello si è puntato, e molto. A partire dalla cura della stesura e dalla sua leggibilità. Quattro i problemi irrisolti del paese, dieci gli indirizzi strategici, dodici le grandi riforme destinate a disegnare il futuro. Si è scelto un asse. Chiaro e inequivoco. Per semplicità lo definiremo “liberal” nella nozione che il termine è venuto assumendo in casa nostra. Dunque, una sana ricetta riformatrice arricchita dai contributi di poche fonti selezionate. Leggere per credere, in rapida successione, il programma del PD stilato da Enrico Morando e “Contro i giovani” di Tito Boeri e Vincenzo Galasso.2 A proposito di questa seconda opzione si potrebbe dire: messaggio confezionato bene ma poco empatico con un paese attraversato dal clima cupo sopra descritto. Della terza opzione si è detto. Sfruttare senza un’aggressione diretta le fratture culturali presenti nello schieramento avversario (il nazionalismo della destra tradizionale in opposizione al secessionismo padano) rivendicando a noi quel racconto della nazione, patria e madre, che altrove (dalla Francia agli Stati Uniti) ha regalato in tempi recenti gloria e consenso a quanti sono riusciti a posizionarcisi. Messaggio nuovo, almeno in parte, e anche atemporale. Diciamo valido a prescindere, ma forse poco in sintonia con l’allarme sociale in atto.

E nell’altro campo? Anche in questo caso qualcosa si è anticipato. Dovendo indicare le tre opzioni del PdL, si potrebbe dire così. La prima, troppo ghiotta per non essere colta, è stato il racconto del paese lungo l’asse memoria-continuità. «Ricordatevi di Prodi e del suo governo. Vogliono apparire nuovi ma sono gli stessi». Quella sintesi formale, “Rialzati Italia”, aveva esattamente questo significato. Stabilizzare il neonato PD nello stesso medesimo solco della storica alleanza di centrosinistra, accentuando ogni possibile continuità tra il “prima” e il “dopo”. Metabolizzare l’atto di rottura veltroniano rinchiudendo i protagonisti di quella discontinuità nel recinto vecchio. Candidarsi a riscattare gli anni delle vacche magre puntando risolutamente sullo scarso appeal degli uscenti più che sull’originalità degli entranti. A scorrere le analisi qualitative sulla memorizzazione degli slogan elettorali è ragionevole credere che l’operazione in buona misura abbia conseguito l’obiettivo. Nel senso che la sintesi è parsa più adeguata dell’immaginifica trasposizione del “Yes, we can” a dar conto dell’animus che accompagnava il paese nella sua strana e imprevista rincorsa elettorale.

La seconda opzione può riassumersi nella svolta tremontiana. L’illuminazione dell’uomo, polemista acuto, sulla via di Damasco e quel suo transitare dall’euforia liberista della fine degli anni Novanta alla ritirata protezionista e neocolbertista del suo ultimo libro (ormai giunto alla sesta edizione) conferma una delle chiavi vincenti della loro campagna. Che molto semplicemente è stata la “paura”. Paura come percezione di una insicurezza diffusa. Paura come reazione alla crisi e ai segnali recessivi di oltre oceano. Paura come rifugio psicologico e ricerca di una rappresentanza adeguata e solida. Si spiega così, anche così, una parte del successo leghista. In assoluta continuità coi caratteri di un movimento che alterna ritirate strategiche a poderose avanzate, ma sempre come riflesso di dinamiche sociali popolari e profonde. La terza opzione, anch’essa citata, ha riguardato il tono e il messaggio. È vero che Veltroni ha impresso una svolta al linguaggio, rivendicando rispetto e legittimazione dopo anni di scomuniche e strali.

Ma Berlusconi non è stato immobile su quello stesso terreno. Nel senso che lui, l’archetipo dell’esuberanza linguistica, ha privilegiato (con poche concessioni al vecchio copione) una tonalità più bassa. E formule inedite («non abbiamo la bacchetta magica», «agiremo progressivamente e nel rispetto delle compatibilità»). Quasi ad ammonire il paese sulle difficoltà del dopo e sul bisogno di un bagno di realismo che è quanto di meno adatto a descrivere natura e carattere della persona. Certo, la cosa non lo ha inibito dallo sciorinare qualche perla su bellezza e virtù femminili. E neppure gli ha tolto il gusto della sceneggiata mimica sulla mozzarella o dell’annuncio pomposo sul primo Consiglio dei ministri all’ombra del Vesuvio. Ma è nel complesso che la campagna del Cavaliere si è tinta questa volta di grigio. Con il particolare che era il colore prescelto e non, come a volte capita, frutto di un errore o di scarsa fantasia.

Ma tornando all’inizio di queste note, perché l’assenza di un vero discorso unificante sull’Italia e degli italiani può aiutarci a capire alcuni aspetti della vicenda più recente e persino della cronaca? Forse per una ragione confermata almeno in parte dalla campagna elettorale e dal voto che ha restituito alla destra la guida del paese. La si può riassumere in questo modo. C’è una narrazione della politica che deve sempre fondersi con la percezione che di sé e del proprio universo familiare, sociale, professionale hanno le persone e gli interessi organizzati ai quali ci si rivolge. Il che non vuol dire limitarsi a cavalcare l’onda, ma neanche poter pensare di sbarrare col proprio corpo il flusso della corrente. C’è sempre bisogno di coltivare la sintonia tra il messaggio scelto e la capacità di recepirlo.

Il PD, per dire, ha calcato sul tasto della semplificazione del sistema politico e nel fare questo (al di là dell’esito sul quale converrà tornare, soprattutto ragionando dell’esclusione dal Parlamento della Sinistra Arcobaleno), si è inserito in una faglia matura. Afferrando l’umore diffuso e una certa sensibilità che altri, in precedenza, non avevano avuto la forza o l’intuito per cogliere. Ma è stata poi difettosa la prontezza nel capire lo spirito del paese. La sua percezione di sé. E questo ha finito col divenire il problema di fondo. Che un richiamo giusto a un programma innovativo (le dodici grandi riforme) e uno nobilitante alla comune appartenenza di destino (“Noi, l’inno e la bandiera”) non sono bastati a risolvere. Ora la strada è obbligata.

Mantenere l’asse. L’investimento strategico sull’unità delle democratiche e dei democratici. Ma approfondendo i legami tra questa forza e la trama economica e sociale del paese. Tra noi e le persone. In uno sforzo di elaborazione culturale del pensiero politico del nuovo soggetto. Senza timori e reticenze. A partire da uno sguardo sul mondo e sull’Europa, perché se l’orizzonte coincide col pragmatismo del governare o col confine della provincia, gli altri hanno accumulato un vantaggio difficilmente colmabile. Quello che non può bastare è l’importazione, anche la più brillante e selettiva, delle buone idee e pratiche di altri. Di altre culture e tradizioni e storie. Perché, alla fine, è vero che la politica al pari dei mercati e della cultura tende a globalizzarsi, ma ciò non implica per forza di cose la sua omologazione nei tempi e nella maturazione dei processi storici. Per cui, ciò che funziona a una latitudine particolare non è detto funzioni allo stesso modo a qualche ora di volo. C’è una lunga marcia da fare. L’ennesima traversata del deserto, come a molti piace chiamarla. E la si farà, certamente. Bisogna sapere che questa volta, a differenza del passato più recente, ci siamo attrezzati a dovere. In termini di forza, di consenso e di un “popolo” che nel progetto del Partito Democratico ha mostrato di credere. Si tratta di fare il resto. Di dare a questa forza e al suo popolo un’anima e un traguardo. Comunque vada, sarà una bella avventura.

 

[1] E. Gentile, La democrazia di Dio: la religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Laterza, Roma-Bari 2006.

[2] T. Boeri, V. Galasso, Contro i giovani: come l’Italia sta tradendo le nuove generazioni, Mondadori, Milano 2007.