Contro il terrore, più Europa e più sviluppo

Written by Redazione Thursday, 01 November 2001 02:00 Print

Tra i leader socialisti europei, Antonio Guterres è colui che può vantare il merito di avere interrotto prima di altri il ciclo di governo conservatore. La sua prima vittoria elettorale risale al 1995, confermata poi da una maggioranza ancora più larga nel 1999, e i suoi anni di governo hanno fatto compiere al Portogallo considerevoli passi avanti nel campo dell’europeizzazione del paese e dell’innovazione dello Stato sociale. Cattolico praticante sin dalla gioventù e oggi presidente dell’Internazionale socialista, Guterres testimonia anche personalmente la molteplicità di culture di cui si alimenta il riformismo europeo. Italianieuropei lo ha intervistato ad un mese di distanza dai fatti dell’11 settembre, in seguito ai quali anche il Portogallo sta vivendo la difficile responsabilità di sostenere la risposta della comunità internazionale al nuovo terrorismo.

 

ItalianiEuropei intervista Antonio Guterres

Tra i leader socialisti europei, Antonio Guterres è colui che può vantare il merito di avere interrotto prima di altri il ciclo di governo conservatore. La sua prima vittoria elettorale risale al 1995, confermata poi da una maggioranza ancora più larga nel 1999, e i suoi anni di governo hanno fatto compiere al Portogallo considerevoli passi avanti nel campo dell’europeizzazione del paese e dell’innovazione dello Stato sociale. Cattolico praticante sin dalla gioventù e oggi presidente dell’Internazionale socialista, Guterres testimonia anche personalmente la molteplicità di culture di cui si alimenta il riformismo europeo. Italianieuropei lo ha intervistato ad un mese di distanza dai fatti dell’11 settembre, in seguito ai quali anche il Portogallo sta vivendo la difficile responsabilità di sostenere la risposta della comunità internazionale al nuovo terrorismo.

Come valuta i nuovi tipi di minacce a cui la comunità internazionale deve fare fronte dopo l’11 settembre, e con quali strumenti ritiene che si possa tutelare la sicurezza europea e internazionale?

Concordo pienamente con i molti analisti ed esponenti politici che attribuiscono ai recenti eventi negli Stati Uniti, di fronte ai quali esprimo una ferma e risoluta condanna, l’espressione di un nuovo tipo di minaccia per il mondo intero alla quale è necessario fornire risposte appropriate soprattutto di natura preventiva. L’azione, che non deve essere necessariamente di natura militare sebbene questa non possa essere esclusa, va diretta verso quei paesi che offrono ospitalità e sostegno al terrorismo. Vi sarà inoltre bisogno di una maggiore condivisione di informazioni e di intelligence, di maggiore collaborazione per quello che riguarda la sfera giudiziaria perché i circuiti finanziari che alimentano il terrorismo vengano colpiti alle radici.

Si può ipotizzare che gli attentati dei fondamentalisti abbiano come conseguenza la diffusione di un sentimento di ostilità verso l’intero mondo musulmano?

Ritengo quanto mai pericoloso dividere semplicisticamente il mondo in due categorie: noi, i buoni e loro, i cattivi. Non metto in dubbio che esistano gruppi terroristici fondamentalisti islamici, ma ricordiamoci che l’Europa è stata vittima di attacchi di matrice terroristica anche da parte di gruppi europei. Attribuire al mondo islamico la responsabilità per quanto è accaduto negli Stati Uniti sarebbe un errore senza precedenti. Talvolta la povertà, la disperazione, la sensazione – che sia fondata o infondata non fa alcuna differenza – di essere vittime di ingiustizie, insieme all’ignoranza, alimentano forme di fanatismo capaci di sfociare in atti terroristici. Questo vale per qualsiasi area geografica nel mondo. E tuttavia ciò non giustifica certo alcuna forma di terrorismo, che anzi deve essere sempre e in ogni caso condannata. Su questo punto è importante non transigere e non mostrare alcuna ambiguità, ma è fondamentale che ci si renda conto che un mondo più giusto è la condizione perché il terrorismo venga sconfitto.

Lei ha affermato che la globalizzazione è lo snodo di un «duplice obiettivo»: quello di garantire la globalizzazione dei mercati, della cultura e dell’informazione e al tempo stesso di assicurarne la governabilità. Qual è la sintesi ideale che può contribuire a raggiungere questo scopo?

Nessuno può negare che la globalizzazione sia di per sé un fenomeno positivo e un progresso per l’umanità. E al progresso corrisponde un maggiore benessere diffuso. Il problema rimane di quale globalizzazione stiamo parlando. Se per globalizzazione intendiamo un processo che comporta una maggiore disparità fra ricchi e poveri, maggiori disuguaglianze ed esclusione, un rafforzamento di coloro che sono già in una posizione privilegiata, allora io dico no. Ma se per questa intendiamo invece una migliore redistribuzione delle risorse, soprattutto nella sfera della conoscenza e dell’istruzione, la volontà di condividere con tutti i paesi del mondo l’incredibile massa di informazioni e di know-how che le nuove tecnologie ci offrono, un commercio più equo, processi decisionali più democratici, allora dico sì. Ho più volte affermato che necessitiamo di un’economia globale regolata e di un ordine politico strutturato. In assenza di ciò non possiamo che aspettarci ulteriori tensioni internazionali e la crescente povertà che a queste fa da alimento. La globalizzazione deve essere al servizio delle gente e non viceversa. La globalizzazione di per sé non può essere considerata un obiettivo ma piuttosto uno strumento per un mondo più giusto e migliore.

In un contesto mondiale di crescente interdipendenza e multipolarità, come crede che l’Europa debba affrontare la questione della crescita sostenibile e del debito dei paesi in via di sviluppo, considerando che nell’ultimo decennio si è assistito a una progressiva riduzione degli aiuti comunitari per lo sviluppo in proporzione all’economia dell’Unione europea?

In tutta onestà penso che la diagnosi, così come i possibili rimedi, per i diversi problemi che affliggono il continente africano siano questioni affrontate ormai da tempo. Quello di cui oggi c’è bisogno è un’azione politica decisa che coinvolga l’Europa e l’Africa, attraverso la quale si possano offrire reali prospettive di cambiamento. Non vi è dubbio che in assenza di uno Stato di diritto dove si garantisca il rispetto dei diritti umani, e in presenza di conflitti e regimi dittatoriali, sviluppo e crescita economica rimarranno obiettivi quanto mai difficili per l’Africa. D’altra parte, l’Europa dovrebbe offrire un aiuto più consistente a quei paesi africani che hanno optato in modo chiaro per la democrazia e per un modello di benessere per i propri cittadini all’altezza degli standard odierni, soprattutto in relazione alla questione della cancellazione del debito e alle politiche di investimenti. Allo stesso tempo politiche di collaborazione nella sfera dell’istruzione e della sanità rivestiranno un’importanza fondamentale; l’innalzamento del livello di istruzione della popolazione africana e un maggiore impegno nella lotta contro malattie come l’AIDS, la malaria o la tubercolosi dovrebbero rimanere obiettivi prioritari. Altrettanto essenziale sarà aiutare questi paesi a dotarsi di istituzioni più trasparenti, oneste, che godano di maggiore legittimità, continuando a tenere presente la specificità delle tradizioni culturali e politiche africane. Pensare che poter applicare «modelli» europei al continente africano possa bastare è infatti un errore. È mia speranza che l’iniziativa presentata di recente da parte di un gruppo di eminenti leader africani, con l’intento di trovare una soluzione agli squilibri e ai problemi a cui ho fatto riferimento, possa ricevere il giusto sostegno e fare qualche passo in avanti; allo stesso modo confido che una nuova generazione di politici, intellettuali e artisti africani possa dare un contributo decisivo per garantire un futuro migliore al proprio continente.

In assenza di un ordine politico mondiale strutturato che regoli il processo di globalizzazione, lei ha spesso fatto riferimento alla necessità imperativa di riformare e migliorare le organizzazioni internazionali politiche ed economiche. Quale ruolo dovrebbe avere una società civile europea e internazionale nella costruzione di un nuovo ordine mondiale?

Alle organizzazioni internazionali spetta un ruolo importante da giocare se si rifiutano – come penso sia giusto fare – unilateralismo e isolazionismo. Dobbiamo porci come obiettivo prioritario l’adattamento delle organizzazioni esistenti, create e sviluppatesi in circostanze assai diverse da quelle odierne, alla nuova realtà internazionale, trasformandole negli organismi ultimi di riferimento di un mondo multipolare in cui ogni paese e organizzazione di natura regionale abbia la possibilità di esprimere un proprio parere su scelte future. Organizzazioni regionali forti che interagiscano politicamente, economicamente, socialmente e culturalmente sono la condizione di un mondo multipolare capace di garantire prospettive di pace e di stabilità. Allo stesso tempo dovremmo prestare maggiore ascolto alla società civile per permettere che questa partecipi appieno alla costruzione di un nuovo ordine mondiale. Forse l’Europa non avanza con la rapidità che vorremmo proprio perché manca un’opinione pubblica europea organizzata e portatrice di un’idea ben definita dell’Europa e della direzione del processo unitario europeo. I governi europei tendono a prendere posizione sulla base di considerazioni di carattere nazionale perché sanno che l’opinione pubblica a cui si rivolgono è in gran parte «nazionalista». Tuttavia, se non saremo in grado di creare uno «spazio per un’opinione pubblica europea» temo che l’Europa continuerà a rimanere prigioniera delle sue contraddizioni. Detto questo, aggiungo che le organizzazioni della società civile hanno il dovere di esprimersi in modo razionale e costruttivo.

Rispetto al neo-liberismo che invoca le forze di mercato anche di fronte alle sfide poste dall’insicurezza e dalle disuguaglianze sociali, quali sono le risposte del socialismo europeo alle nuove emergenze poste dalla globalizzazione?

Non posso accettare l’atteggiamento di coloro che invece di proporre alternative a politiche esistenti si limitano ad atti di protesta senza offrire nuove idee. Tanto più che spesso ciò è fatto con modi assolutamente inaccettabili che non possono che incontrare la più ferma condanna. Al vertice di Lisbona del marzo 2000 i paesi dell’Unione europea raggiunsero un compromesso importante sulla base di due presupposti di fondo. In primo luogo, il mercato è il sistema migliore che conosciamo per la produzione e la distribuzione di un’immensa mole di prodotti e servizi. In secondo luogo, il mercato non è in grado di soddisfare un’ampia gamma di bisogni di natura sociale, culturale ed economica. Ed è per questo che necessitiamo di politiche di intervento pubblico decise e attive. Questo è quello che si intende con l’espressione – che sottoscrivo pienamente – «sostenere un’economia di mercato ma non una società di mercato».

Al vertice europeo di Lisbona del 2000, la necessità di un’economia della conoscenza dinamica e competitiva in grado di creare una crescita economica continua e una maggiore coesione sociale fu identificata come l’obiettivo strategico del prossimo decennio. Com’è possibile, tuttavia, conciliare questo aspetto con il fatto che l’economia della conoscenza sembra anche causa di nuove forme di esclusione? E come valuta gli sviluppi che sono seguiti al vertice di Lisbona?

La formula emersa dal vertice di Lisbona si basava sulla convergenza di alcuni principi: «fare dell’Europa l’economia più dinamica del mondo, garantendo maggiore coesione sociale e nel rispetto della diversità culturale». E la stessa condivisione di obiettivi riguarda anche le strategie e gli strumenti per conseguirli, come dimostrano i passi in avanti che si sono compiuti in diversi ambiti. Va da sé che una divergenza di opinioni sugli scopi delle politiche di coesione sociale così come nelle soluzioni nazionali adottate per farvi fronte non accresce la velocità del cambiamento. Ma è proprio questa una delle condizioni del progetto europeo deciso a Lisbona: il rispetto per la diversità culturale di ciascuno Stato. La nascita di una società della conoscenza è in gran parte il prodotto di forze che vanno oltre l’azione dei singoli governi. È il frutto di trasformazioni economico-sociali paragonabili nella loro forza dirompente alla rivoluzione industriale. Sarebbe dunque irresponsabile e insensato cercare di frenare tali processi; la sfida deve essere piuttosto rivolta contro il potenziale di esclusione che la società della conoscenza porta con sé, permettendo invece che i benefici insiti in essa siano accessibili a tutti secondo l’obiettivo che ci siamo preposti a Lisbona nel momento in cui abbiamo indicato la coesione sociale come una componente fondamentale della nostra strategia. In parallelo l’altro grande progetto di «fare dell’Europa l’economia più dinamica del mondo, garantendo maggiore coesione sociale e nel rispetto della diversità culturale» ha richiesto l’elaborazione di un pacchetto articolato di strategie e strumenti. Mi riferisco a politiche di promozione dell’innovazione tecnologica, della ricerca, politiche sociali e di formazione, ma anche a nuove modalità di collaborazione e a un ripensamento delle politiche comunitarie nella loro forma esistente. A questo riguardo è già possibile individuare importanti progressi in numerosi campi: nel campo delle riforme economiche, grazie ai processi di liberalizzazione del mercato europeo, alla priorità data all’integrazione dei mercati finanziari e allo sviluppo di nuovi prodotti come il venture capital; nelle «politiche d’impresa» che oggi s’incentrano sull’innovazione, la creazione di nuove società e l’accesso a nuovi mercati; nel campo delle politiche di «ricerca e sviluppo», con la creazione di un nuovo programma mirato alla nascita di un’area per la ricerca europea; nelle politiche per l’istruzione ripensate al fine di accelerare la diffusione di nuove competenze e l’istruzione permanente per tutti; infine nell’area delle politiche di coesione sociale, in cui a piani nazionali già esistenti per l’occupazione sono stati affiancati programmi, sempre di portata nazionale, di lotta alla povertà.

Insieme alla Francia, alla Germania e all’Italia, il Portogallo è stato recentemente oggetto di un rapporto della Commissione europea in cui si sottolinea il rischio di una violazione degli impegni relativi al deficit di bilancio. Nonostante che il Portogallo abbia compiuto progressi notevoli per allinearsi agli standard europei, il suo paese continua ad avere il tasso d’inflazione più alto dell’area dell’Euro e un elevato livello di spesa pubblica. Come valuta quindi l’adesione del suo paese alla moneta unica e quali passi ritiene che il Portogallo debba ancora compiere per completare il processo di adeguamento ai parametri europei?

La posizione del Portogallo per ciò che riguarda il compromesso di medio termine raggiunto sulla politica di bilancio non è diversa da quella delle tre principali economie europee, appunto quelle di Germania, Francia e Italia. Tale situazione è stata in parte determinata dal rallentamento della crescita che ha colpito l’Europa, così come il resto del mondo, e dal suo forte impatto sulle entrate di bilancio. Stiamo facendo tutto il possibile per raggiungere gli obiettivi concordati ma ci è anche molto chiaro che tagliare gli investimenti e la spesa sociale renderà la ripresa economica ancora più difficile. Questo vale per il Portogallo ma anche per tutte la altre nazioni. Nel medio-lungo periodo, la questione più importante rimane la qualificazione delle nostre risorse umane. Abbiamo raggiunto risultati importanti in quest’area, per esempio per quanto riguarda la popolazione più giovane che ha già alti livelli di istruzione e di qualifica, ma nel complesso la nostra manodopera è ancora scarsamente qualificata. Per quello che riguarda l’uso delle risorse finanziarie, la sfida è quella di migliorare l’efficienza. Fare di più e meglio a parità di risorse richiede una gestione più attenta e accurata delle politiche di bilancio e una riforma graduale della pubblica amministrazione.

La questione dell’apparente inconciliabilità dell’esperienza di governo con alcuni tratti identitari della sinistra è stato uno dei punti centrali della discussione interna al centrosinistra italiano. Ritiene che si tratti effettivamente di un’antinomia non componibile?

Il dibattito sull’identità della sinistra si ripropone ormai da decenni in termini quanto mai simili. È possibile o no mantenere un’identità di sinistra una volta giunti al governo? È possibile, in altre parole, essere un «governo di sinistra»? La mia risposta è un sì senza alcuna condizione. Va da sé che vi sono nella «sinistra» alcune componenti non socialdemocratiche che non credono nell’opzione riformista come veicolo di cambiamento, e per le quali «governo» e «sinistra» non sono elementi conciliabili. Per me è chiaro che non solo è possibile essere un «governo di sinistra» ma soprattutto che le differenze fra questo e un governo di destra sono del tutto evidenti. Il governo portoghese ha agito fin dal 1995 dando priorità alle politiche sociali e alla coesione sociale. Quanti governi «di destra» avrebbero indicato priorità analoghe?

E quali sono i temi che la sinistra europea dovrebbe privilegiare per recuperare consenso?

Penso che la preoccupazione principale debba essere rivolta alla questione della coesione sociale. È evidente che il processo di crescita economica non è un processo neutrale ma impone scelte e conseguenze. Ritengo che la vera questione da risolvere sia come raggiungere alti tassi di crescita economica migliorando nel contempo gli standard di vita per tutti. La questione, rimane, in altre parole, come dare vita a un processo che non sia solo di «crescita economica» ma anche di «sviluppo».

Da uomo politico animato da una profonda fede cattolica, quale ritiene che sia la via migliore per conciliare in un’unica concreta identità politica le idealità socialiste e le convinzioni religiose?

La mia fede cattolica è un fatto personale e individuale. Molti nel mio partito credono in altro o non credono affatto. Il Partito socialista portoghese non si ispira a nessun credo religioso. Tuttavia è chiaro che la mia fede mi porta a guardare il mondo e a interpretare quanto succede intorno a noi in un modo ben preciso. Essenzialmente sono un uomo che crede che vi sia qualcosa di buono in ogni essere umano e pensa che più giustizia e solidarietà in ogni società siano possibili e necessarie. La mia azione politica individuale non può essere disgiunta dalla mia visione del mondo e dalle sfide che ci attendono. Sfide che mi propongo di superare nel miglior modo possibile.