Il Partito ritrovato: il dibattito precongressuale dei Democratici di Sinistra

Written by Pasquale Cascella Thursday, 01 November 2001 02:00 Print

I Democratici di Sinistra hanno scelto il segretario che potevano già avere. Forse già al momento della scelta di Walter Veltroni di candidarsi al governo della capitale, se la decisione dell’allora segretario non fosse già stata vissuta da una parte del partito come una sorta di segnale di «rompete le righe» più che come espressione di un impegno solidale di un gruppo dirigente coeso. Poi, all’indomani della bruciante sconfitta alle elezioni politiche del 13 maggio, se il timore che un passaggio di consegne in quelle condizioni potesse essere interpretato come addebito di responsabilità allo stesso segretario rimasto in corsa per il ballottaggio al Comune di Roma non avesse consigliato il «tutti zitti e pancia a terra». Ancora, dopo la rimonta capitolina e nelle competizioni delle maggiori città, se l’evidenza di una sconfitta non del tutto ineluttabile per il centrosinistra non si fosse scontrata con le ragioni profonde della crisi politica ed elettorale del maggior partito della sinistra. E una settimana, un mese, due mesi dopo, man mano che le ragioni individuate dagli uni diventavano i torti dell’altro, e viceversa, in una spirale di resa dei conti che faticosamente il congresso è riuscito a rimontare.

 

I Democratici di Sinistra hanno scelto il segretario che potevano già avere. Forse già al momento della scelta di Walter Veltroni di candidarsi al governo della capitale, se la decisione dell’allora segretario non fosse già stata vissuta da una parte del partito come una sorta di segnale di «rompete le righe» più che come espressione di un impegno solidale di un gruppo dirigente coeso. Poi, all’indomani della bruciante sconfitta alle elezioni politiche del 13 maggio, se il timore che un passaggio di consegne in quelle condizioni potesse essere interpretato come addebito di responsabilità allo stesso segretario rimasto in corsa per il ballottaggio al Comune di Roma non avesse consigliato il «tutti zitti e pancia a terra». Ancora, dopo la rimonta capitolina e nelle competizioni delle maggiori città, se l’evidenza di una sconfitta non del tutto ineluttabile per il centrosinistra non si fosse scontrata con le ragioni profonde della crisi politica ed elettorale del maggior partito della sinistra. E una settimana, un mese, due mesi dopo, man mano che le ragioni individuate dagli uni diventavano i torti dell’altro, e viceversa, in una spirale di resa dei conti che faticosamente il congresso è riuscito a rimontare.

Sei mesi sono lunghi, e l’incalzare degli eventi interni e internazionali hanno confermato essere troppi anche per una prova di democrazia inedita nel partito sorto dalle ceneri del vecchio PCI, aduso com’era al centralismo democratico. E però solo il tempo è riuscito a sfiancare la rincorsa di personalismi, incomprensioni e deformazioni e ad aprire la strada a un confronto democratico che ha riconsegnato al partito un segretario con l’investitura di quasi i due terzi degli iscritti.

È Piero Fassino, il segretario che i DS avrebbero potuto avere subito, ad aver raccolto la maggioranza assoluta tra gli iscritti nelle sezioni. Con il leale riconoscimento del suo più diretto competitore, Giovanni Berlinguer, già a metà degli scrutinî, che ha allontanato il rischio di «ridurre tutto a contrapposizione» che avrebbe solo svilito una prova di vitalità democratica preziosa per ricostruire e rinsaldare il rapporto del partito con la società. Si è potuto, così, riprendere il filo unitario senza pagare ulteriori prezzi alla chiarezza della linea politica. Del resto, la stessa ampiezza del consenso alla mozione che ha espresso la candidatura di Fassino ha retto il confronto con l’80% che nel febbraio del 2000 sancì la conferma di Veltroni alla segreteria, se si considera che era scaturita dall’interno della grande maggioranza di Torino ma ne aveva anche subìto la scomposizione con il passaggio dei «nuovi riformisti» (come in un primo momento si erano definiti Pietro Folena, Fabio Mussi, Giovanna Melandri e quant’altri) e altre espressioni individuali e non (da Sergio Cofferati a Cesare Salvi e Antonio Bassolino) all’alleanza con la sinistra che al Lingotto si era collocata all’opposizione raccogliendo il restante 20%.La «lezione» di Torino, in qualche modo, è servita. Se, strada facendo, si era rivelata eccessiva la pretesa di lasciare il Lingotto con un «ombrello», per usare una definizione di Mussi, troppo grande per reggere di fronte alle intemperie a cui la sinistra si trovava esposta, si è almeno evitato di arrivare a Pesaro a gruppi irreggimentati sotto tre fragili ombrelli ricavati dallo stesso materiale statutario. Il meccanismo elettorale, infatti, è rimasto quello delle mozioni legate alle candidature. Interpretato un anno e mezzo fa come elezione dal basso del segretario, quindi da rispettare e mettere al riparo (Achille Occhetto docet) da qualsivoglia tentazione, malcontento o gioco nel segreto dell’urna, quel collegamento si è però dovuto misurare, nella nuova competizione tra mozioni diverse, con la dichiarata volontà di favorire la ricomposizione unitaria. 

Le regole, è vero, non si cambiano a gioco iniziato. Ma, nella stessa partita, si è vista una parte almeno dei giocatori sfilarsi la vecchia maglietta e indossarne una diversa quando sul tabellone a fondo campo è apparso il risultato elettorale del 13 maggio, così cruento — appena il 16,6%, soltanto lo 0,4% in più di quando il nuovo partito aveva cominciato a risollevarsi dalle macerie del crollo dell’89 — da mettere in discussione il radicamento e i legami sociali di una forza di sinistra candidata alle stesse responsabilità di governo già assolte nella precedente legislatura, con la stessa guida dell’esecutivo con Massimo D’Alema. Già quel passaggio, come poi si è visto, era stato vissuto differentemente: un trauma per alcuni, un’opportunità per altri. Si dirà che il congresso di Torino avrebbe potuto essere l’occasione per elaborare il dilemma, anziché sacrificarlo sull’altare della parola d’ordine di «una più forte sinistra in un più grande Ulivo». Rassicurante, ma non risolutiva della visione riformista di un partito della sinistra europea né del suo ruolo nella coalizione di governo, se gli eventi politici (dalla prima sconfitta alle regionali che indusse D’Alema a passare il testimone a Giuliano Amato fino al tracollo delle politiche) hanno dovuto incaricarsi di riproporre l’identica questione di identità e di ruolo su basi rovesciate: una più debole sinistra in un più piccolo Ulivo.

 

Meglio tardi che mai, comunque. Si è dovuto, dunque, recuperare un congresso «vero», con una discussione con tanti elementi retrospettivi e altrettanti assilli sul futuro, senza cedere alla tentazione della recriminazione e reagendo ai rischi della regressione. Ma cosa rende «vero» un congresso? Ragionevolmente si sarebbe potuta convocare l’assemblea congressuale di Torino per eleggere subito il nuovo gruppo dirigente e passare a preparare il nuovo congresso nei tempi consoni a un approfondito confronto su opzioni politiche anche diverse ma inequivoche. O, in alternativa, accelerare i tempi del congresso vero e proprio per portare a compimento le scelte, di linea e di guida, negli stessi cento giorni che il centrodestra ha poi utilizzato per imporre la propria impronta al governo del paese. Ma forse era pretendere troppo da un partito sotto lo shock della sconfitta. In attesa delle mozioni sono in campo le emozioni. «Non possiamo fare un’altra assemblea basata sulla simpatia o sull’antipatia», avvertiva Cesare Salvi annunciando «battaglia» anche «a costo di rimanere da solo». «E che facciamo un congresso con il solleone?», chiedeva d’altro canto Claudio Petruccioli. Nel mezzo, Piero Fassino a cercare un punto di raccolta lungo una rotta su cui poter incontrare le altre forze disperse della sinistra a loro volta sollecitate da Giuliano Amato a rimettersi in movimento. Fino al punto di essere identificato con la stessa esigenza di raccordo propugnata, anche perché di raccordo era stato tutto il suo percorso dal PCI torinese alla svolta dei DS, e il lavoro teso ad ancorare il nuovo partito al socialismo europeo, e il rigore nell’azione di governo e lo stesso impegno nell’Ulivo a fianco di Francesco Rutelli. Caratteristiche personali e politiche rimaste immutate nella metamorfosi da candidato per la «transizione» a candidato della mozione che ha poi conquistato la maggioranza congressuale.

Il problema siamo noi, noi DS», avvertiva lucidamente Mauro Zani nell’estremo tentativo di spezzare la spirale di recriminazioni e contrapposizioni che già si indirizzava sull’elezione dei presidenti dei gruppi parlamentari. Esattamente alla vigilia del voto, il 29 maggio, rimbombava il no, «grosso come una casa» come è definito dall’intervistatore di «Repubblica», di Sergio Cofferati tanto all’ipotesi di una segreteria-pro tempore («Sarebbe uno schiaffo in faccia agli elettori») quanto al congresso prima dell’estate («Non esiste in natura»), in nome di un’analisi politica severa sulla perdita della «radicalità riformatrice della sinistra» e drastica nella contrarietà alle «ipotesi di formare nuovi partiti o nuove aggregazioni» come quelle prefigurate da Amato. È stata la prima irruzione nel dibattito congressuale del segretario generale della CGIL, indicato da tanti, dentro e fuori la sinistra (anzi, il primo è stato Giuliano Ferrara dalle colonne del «Foglio»), come soluzione per saldare la vecchia maggioranza o costruirne una nuova con la convergenza dell’anima più critica verso l’esperienza compiuta al governo con la sinistra. Per Salvi «è oggettivamente un candidato e oggettivamente interviene nel dibattito come tale». Ma lui, il «cinese» che Nino Bertoloni Meli sul «Messaggero» vede trasformarsi in «vietcong», ha continuato a rivendicare il buon diritto di prendere posizione, firmare una mozione intervenire puntualmente nel dibattito come «iscritto» sensibile al travaglio del partito ma non fino al punto di misurarsi in prima persona con la responsabilità di guidarlo fuori dalla crisi. O meglio, a credere a una confidenza di fine estate raccolta da Francesco Verderami sul «Corriere della sera», sarebbe stato pure tentato di accettare la segreteria del partito se gliela avessero offerta (chi e come?) prima delle elezioni, ma dopo la sconfitta elettorale ha ritenuto di non poter lasciare la guida della CGIL. Almeno fino a quando lo statuto della maggiore confederazione sindacale glielo consentirà, vale a dire «fino alla primavera del 2002». Una scadenza che pure sarebbe potuta diventare facilmente compatibile con la soluzione in due tempi dell’elezione di un segretario di raccordo con una elaborazione congressuale approfondita se Cofferati non l’avesse bocciata in partenza. Tant’è. Volente o nolente Cofferati, nel giro di ventiquattro ore la soluzione che al Senato ha confermato Gavino Angius alla presidenza del gruppo diventa impraticabile alla Camera dove l’uscente Fabio Mussi e l’ex presidente dell’assemblea Luciano Violante si confrontano con opzioni politiche distinte. Una prova non incolore, quella che ha assegnato la responsabilità del gruppo a Violante, ma nemmeno indolore. Tappa dopo tappa, come tante stazioni di una Via Crucis. Già: «Anche i partiti possono morire». È la cruda testimonianza di Miriam Mafai della prima riunione post-elezioni della direzione dei Democratici di sinistra, il primo giugno. Clima da resa dei conti e di preannuncio di conte, con il coordinatore Pietro Folena a lamentarsi di essersi «sentito incastrato tra l’errore di Walter di candidarsi a Roma e l’errore di Massimo di ritirarsi dal proporzionale», con Veltroni a spiegare la sua scelta come polemica con quanti avevano vissuto l’Ulivo «come un impaccio» e D’Alema a ricordare che «se si vuole fare un “Midas”», come quel blitz consumato da Bettino Craxi contro Francesco De Martino, «basta una notte, se si ha la forza, altrimenti non si fa in sei mesi». Ma non è questo scambio di accuse a spaventare la Mafai: «I Democratici di sinistra rischiano di morire non per la loro rissosità interna ma, al contrario, per la incapacità di affrontare apertamente i contrasti che li dividono e di operare le relative scelte». Vero, ma una verità a due facce. Si prenda la decisione di nominare ben undici reggenti, tra figure istituzionali e rappresentanti delle diverse sensibilità: nell’immediato immobilizza il partito nella ricerca di un minimo comune denominatore, ma segna anche la separazione e il definitivo superamento di una diarchia condizionata – per esplicita ammissione dei diarchi Veltroni e D’Alema – dal «riflesso antico di unità che ha fatto premio sulle esigenze di chiarezza politica». Lo stesso scontro tra «ulivisti» e «partitisti» costringe tutti a ridefinirsi almeno come tali e a cominciare a misurarsi non soltanto sulla base delle suggestioni e dei rancori del passato ma soprattutto sui rispettivi progetti per il futuro. Un equilibrio quanto mai precario, che sconta la divisione e, al tempo stesso, libera passioni, intelligenze e politiche. Tant’è che la stessa Mafai conviene, nemmeno un mese dopo, che è «un partito che non si rassegna a morire» quello che, nella nuova riunione della direzione, rivela i suoi contrasti più profondi ma anche la consapevolezza del pericolo incombente. C’è molta introspezione, con Mauro Zani che non nasconde il disagio di «girare in circolo, come nel gioco dell’oca, ritrovandosi al punto di partenza» e Massimo D’Alema che mette in guardia dall’«idea che siamo in preda a un tale processo di disgregazione che non se ne possa ricavare altro che materiali utili a costruire qualcos’altro». C’è molta critica nell’elenco degli errori che Sergio Cofferati addebita al partito e poca autocritica rispetto alla crisi dell’unità sindacale. C’è confusione e anche parecchio colore, tra un Bassolino che chiede se il partito debba rimanere «appeso come un caciocavallo appeso» e Fassino che ricorda come Marx «non disse ‘sfigati di tutto il mondo unitevi’». Fa capolino persino «l’utopia» di Giorgio Napolitano sulla «ricostruzione di un gruppo dirigente» e il richiamo affettivo di Pierluigi Bersani a «voler bene al partito». Ma soprattutto torna la politica, con opzioni che offrono l’abbozzo delle diverse mozioni, anche se solo Fassino esce allo scoperto dichiarandosi pronto ad assumersi «tutte le responsabilità che si riterranno utili».

Il passaggio di fase è affidato all’ «ascolto» del partito. Che indubbiamente si è fatto sentire, dalle sezioni alle feste dell’«Unità», con una partecipazione intensa e, tanto più, esigente di un colpo d’ala. Le mozioni sono maturate così, nel vivo di contraddizioni striscianti come quelle esplose a Genova tra un movimento pacificista sopraffatto dall’estremismo violento, in un Parlamento piegato dai colpi di forza del centrodestra, in un corpo sociale strattonato tra l’immagine e la realtà, su una scena internazionale dilaniata dal terrorismo fondamentalista. Una sequela di avvenimenti che volta a volta ha riproposto divisioni in una sinistra senza pace, imposto rattoppi e costretto tutti a rincorse affannose, tanto che ancora a congresso aperto molte risposte si sono dovute puntualizzare, se non rielaborare e arricchire. Ma quale migliore riprova che solo la capacità di misurarsi con il cambiamento, comunque e ovunque si manifesti, garantisce i valori e la vitalità di un partito?

Si è imposto così il recupero più vero dell’identità perduta, quella di un partito della sinistra europea che, certo, non muta nel passaggio dalla maggioranza all’opposizione. Le stesse diverse risposte alle ragioni della sconfitta, al di là del manicheismo del «più» (più sinistra, più opposizione, più tutto), al dunque sono state ricucite dal filo della vocazione riformista. La mozione assemblata dalla figura di Giovanni Berlinguer (per sua stessa ammissione «di transizione», sia pure «tra un congresso e l’altro»), si è trovata a fare i conti con l’ambivalenza della formula della «radicale svolta e discontinuità», nel momento in cui tanta radicalizzazione si è scontrata con i principi fondanti della svolta di dieci anni fa e della più avanzata elaborazione dello stesso PCIsulla lotta al terrorismo, la NATO e la collocazione internazionale del paese. Così come i liberal di Morando hanno dovuto prendere atto che non basta un pugno di regole per trasformare l’Ulivo in un soggetto politico unificante. E la mozione che si è riconosciuta in Fassino ha cercato le motivazioni ideali di una sfida sulla modernizzazione che viva nella società. Pericolo di deriva scongiurato, quindi? Sicuramente è finito il tempo dell’ambiguità ed è stata ritrovata la rotta per il partito che c’è. Resta da compiere una navigazione non meno perigliosa verso il più grande partito della sinistra. Che non c’è da ottant’anni, ma che non può non ritrovarsi.