Storici come baby-sitter? A proposito di Georges Lefebvre e dell'uso pubblico della storia

Written by David Bidussa Thursday, 01 November 2001 02:00 Print

I due passi che qui si riproducono sono tratti dalle parti finali del volume Quatre-vingt-neuf che Georges Lefebvre scrive in occasione del 150° anniversario della Rivoluzione francese nel 1939. Il motivo per cui vale la pena rileggerli è che essi costituiscono un esempio canonico di uso pubblico della storia senza scadere all’interno di una comunicazione propagandistica. L’Ottantanove è un libro che nasce con dei connotati precisi. È un testo pensato per il grande pubblico, e infatti è un testo senza note e con nessuna indicazione bibliografica.

 

I due passi che qui si riproducono sono tratti dalle parti finali del volume Quatre-vingt-neuf che Georges Lefebvre scrive in occasione del 150° anniversario della Rivoluzione francese nel 1939. Il motivo per cui vale la pena rileggerli è che essi costituiscono un esempio canonico di uso pubblico della storia senza scadere all’interno di una comunicazione propagandistica.1 L’Ottantanove è un libro che nasce con dei connotati precisi. È un testo pensato per il grande pubblico, e infatti è un testo senza note e con nessuna indicazione bibliografica. È un testo concepito per «quadri», ovvero procede come un’opera teatrale dove ogni scena ha una sua compiutezza, ha attori propri, e dunque è contemporaneamente parte di un complesso, ma anche vive per la propria specificità. È un testo che esce con il crisma del testo pubblico e infatti è il testo ufficiale sponsorizzato dal governo nell’ambito delle celebrazioni dell’anniversario. In breve, è un testo che proprio per le caratteristiche operative nasce come operazione politica e di pedagogia pubblica da parte di un organismo pubblico e per esser più precisi da parte dell’esecutivo centrale di un paese che è alla vigilia di un conflitto da cui sarà scosso e travolto in dimensioni considerevoli per non dire totali. Proprio per come si presenta a noi quel testo è la dimostrazione delle grandi possibilità che la scrittura storiografica ha, da un lato, di agire come macchina retorica e persuasiva – e dunque da ogni punto di vista di rispondere ai criteri dell’uso pubblico della storia – e, dall’altro, di sottrarsi alla dimensione propagandistica attraverso la quale sempre più spesso, in Italia oggi in maniera particolare, si pretende di servirsi strumentalmente della narrazione storiografica come macchina persuasiva.

Lefebvre in questo suo testo non nasconde i suoi intenti. Il passo che abbiamo riportato in corsivo e che non compare nell’edizione italiana del 1949 dimostra a sufficienza a cosa mirasse Lefebvre quando scriveva quelle pagine nella primavera del 1939. E non a caso insiste sul grido «Viva la nazione!». Non è il richiamo di Valmy («Vivere o morire»), quello che Lefebvre rievoca, ma  più prosaicamente, ma anche più direttamente l’appello che Jean Zyromsky, deputato della sinistra socialista, pubblica su «Le Populaire» il 30 maggio 1939, contro Marcel Déat, che all’inizio dello stesso mese su «L’OEuvre» (4 maggio) si era chiesto se valeva la pena morire per Danzica. Che poi Lefebvre nel 1949 togliesse quelle righe e fermasse il testo italiano al tema del coraggio è a sua volta un nuovo modo di reiterare la questione dell’uso pubblico della storia, ricordando i milioni di francesi in fuga spasmodica per la vita nelle strade di Francia lungo l’asse Nord est – Sud ovest nel giugno 1940, quando un intero popolo raccoglie le poche cose che ha e si mette in marcia. Una popolazione che consuma in quell’andirivieni se stessa, in preda allo smarrimento, al panico e alla desolazione, in cerca prima di tutto di un luogo mentale e carismatico in cui riconoscersi, senza più una guida o un punto di riferimento pubblico a cui guardare o da cui ricevere conforto ed esempio. Una fuga che è per la vita, ma che è anche il rendiconto drammatico e tragico di un decennio di deleghe, di malumori, di rabbia e di scollamento tra governanti e governati. E che è la sconfitta di una generazione che consuma nell’arco di un ventennio un capitale morale e politico rilevante, una generazione di umiliati, come avrebbe scritto Bernanos.2 Una fuga, tuttavia, che costituisce, anche, la sintesi di una dismissione dalla responsabilità di tutta la società francese come avrebbe sottolineato Marc Bloch.3 Una società in cui la destra abbandona l’idea di interesse nazionale e la sinistra non la matura mai; dove una borghesia è troppo presa dai propri interessi, una piccola borghesia è completamente reclinata su se stessa e la classe operaia non ha mai maturato la fuoriuscita dal suo corporativismo, al cui interno non giunge mai a compimento un processo di reale assunzione di responsabilità nazionale e che, al di là della conclamata «beatificazione» di Jaurès, ha continuato a provare una profonda sintonia con il discorso politico di Guesde (un confronto simbolico e di immaginario sociale che se indagato direbbe molte cose anche della natura politica della sinistra italiana).

È questo livello, più precisamente quello del venir meno della fedeltà al patto non scritto ma identitario della Francia moderna, che Lefebvre legge in controluce la Francia dei suoi giorni nelle pagine de L’Ottantanove. Opportunamente uno storico dei nostri giorni ha osservato come «nessuno potrà mai ricostruire scientificamente quello che passava per la testa di 20 milioni di francesi durante la rivoluzione del 1789, né all’interpretazione di questo evento si potrà arrivare per mera induzione».4

Lefebvre non ha mai avuto questa pretesa nella sua lunga pratica storiografica. Eppure proprio la sensibilità a indagare la morfogenesi delle folle e dei movimenti di folla urbani e rurali5 di cui resta uno dei più grandi storici, permette a Georges Lefebvre di leggere in controluce, attraverso la storia degli eventi della Rivoluzione francese, il proprio tempo. Il suo è lo sguardo di chi, attraverso le parole del Robespierre patriottico, guarda con pessimismo e dolore alle divisioni interne alla nazione e che Lefebvre legge attraverso le parole che l’«incorruttibile» pronuncia il 25 settembre 1793 alla Convenzione.6 Tuttavia, la parola di Robespierre non è nella mente di Lefebvre solo nella chiusa e nell’esortazione a vivere liberi, è anche nella lezione di orgoglio e di fedeltà che si sa di aver sottoscritto. In breve nei patti che devono essere onorati.

È significativa la scelta della narrazione delle giornate dell’ottobre 1789. In quelle due pagine in cui Lefebvre condensa il ritorno del Re a Parigi, ciò che conta, infatti, è la capacità evocativa che esse determinano. Ha scritto Alessandro Galante Garrone, nell’introduzione alla versione italiana del libro di Lefebvre che «lo sguardo di Lefebvre è sempre lucido e fermo, non appannato da vaporosità sentimentali [...]. Una volta sola si percepisce, nel suo racconto in apparenza impassibile, una vibrazione più calda e commossa, indubbiamente bella. Ma è soltanto sul chiudersi del racconto, quando, al termine delle giornate di ottobre, il popolo riaccompagna il re da Versailles a Parigi, suggellando così il crollo definitivo dell’Antico Regime»7. Forse lo stile dà ragione a Galante Garrone, ma la finalità di Lefebvre è un’altra e in essa si colloca proprio quella dimensione dell’uso pubblico della storia che spesso costituisce un problema per gli storici. Quello che Lefebvre condensa in queste pagine non riguarda il nesso tra azione ed evento, ma tra azione politica ed effetto, intendendo con essa il contenuto metaforico stesso dell’agire politico. È il tema del passaggio delle mani sul potere, ovvero della tenuta dello scettro. Esso si configura come una sottrazione delle prerogative politiche dell’attore principale. Se il contenuto è intorno alla sanzione del testo della Dichiarazione, il contenitore è intorno al luogo dove si deposita e si conserva la sovranità. In questa scena non conta tanto ciò che accade, ma conta invece e moltissimo, come un lettore del 1939 avrebbe colto e rivissuto, attraverso la propria esperienza o la propria competenza, quella scena.

Più precisamente attraverso quale altra scena vicina per processo di omologazione o opposta per processo di opposizione, quella scena del ritorno a Parigi del sovrano si sarebbe fissata nella mente del lettore contemporaneo a Lefebvre. La comprensione della storia del senso proprio degli eventi storici non è mai un problema di documenti è, invece, un problema di sensazione, di spessore dei sentimenti, del rapporto tra uno storico che scrive e un pubblico che legge. «Ogni epoca, ogni uomo – scrive negli stessi mesi del 1939 un grande storico francese, Marrou – si scelgono un passato, attingendo nel tesoro della memoria collettiva; ogni esistenza nuova trasfigurava l’immagine che si fa di tale passato attraverso il significato che vi scopre, scoprendosi essa medesima, essa ed il proprio avvenire».8 Lefebvre nel corso degli anni Trenta non si distingue da questo percorso. Quello che Lefebvre aveva intuito nel saggio sulle folle e poi nello studio sulla «paura» è che ciò che accade nell’ottobre 1789 è il passaggio da una condizione di somma di individui a folla attraverso una mutazione che fa cambiare di segno alle motivazioni che spingono gli attori in un luogo, tanto da caratterizzarne una nuova azione, o una azione non prevista.

Il tema delle folle, della mobilitazione che crea la storia, ritorna nelle giornate convulse della storia di Francia tra il 1938 e il 1940. Non è il tema della mobilitazione politica cosciente, ma è quella del sentimento che diviene comunicazione politica. Sono le folle in festa di Parigi dopo l’accordo di Monaco (dove ciò che si festeggia è la mancata osservanza di un patto d’onore nei confronti della Cecoslovacchia), ma anche le folle mute o perdute delle settimane di settembre 1938 come le descrive Victor Serge nelle sue Memorie.9 Sono le folle che attraversano la Francia nel giugno 1940 e che Bloch descrive come masse in fuga senza una direzione o una determinazione ma che legittimano Petain, affidandosi a una sorta di «grande padre» della patria e, contemporaneamente, rinunciando alla propria sovranità. Sono le stesse folle che ascoltano attonite l’ultimatum tedesco in Casablanca e che oscillano tra vergogna e orgoglio quando si riappropriano del proprio inno nazionale. Sono le folle il tema di Lefebvre, quelle che si mobilitano nel corso dell’Ottantanove e che riempiono le sue pagine; quelle che rimangono attonite negli anni che precipitano verso la guerra, e alle quali deve e vuole parlare mentre scrive quelle pagine. Ma non è solo un problema di mobilitazione o di violenza. È, anche, la sottolineatura della distanza tra una Francia che si presentava come capace di grandi azioni nella storia e una Francia attuale che si sottrae alla storia. È in questo continuo passaggio tra il passato e le incertezze o la distanza del presente da quel passato che si colloca l’uso pubblico della storia. Ovvero, nel considerare i cittadini non individui da istruire, ma soggetti che devono misurare la propria fisionomia politica, culturale e anche civica. È una dimensione che Lucien Febvre aveva capito con immediatezza. «Investiti del diritto di governare se stessi – osserva Febvre commentando Lefebvre10 – se essi [i cittadini] abusano del loro potere gli uni verso gli altri, e soprattutto se essi si rifiutano per egoismo personale di garantire la salvezza della comunità essa perirà e con essa la loro libertà, perfino la loro stessa esistenza».11 In altre parole, l’uso pubblico della storia prescinde da un dato di esposizione controfattuale di un evento, e non è un «catechismo» da accogliere in quanto verità rivelata. L’uso pubblico della storia presume un lettore emancipato, adulto e dunque si attua come scarto, come interrogativo inquieto al lettore nel presente. È quella dimensione che stenta a trovare cittadinanza quando si tratta di espletare la dimensione pubblica della storia. Una dimensione che non è illegittima, o che non è esercizio propagandistico. Ma che è, più precisamente, «provocazione» a un lettore altrimenti «coccolato» da uno «storico baby sitter» nel suo senso comune, sia esso la versione eroica e aproblematica della storia o quella, eguale e contraria, del fatalismo storico, per cui anche nelle più cocenti sconfitte, si consola pensando che «Addavenì Baffone!».

Georges Lefebvre

L’Assemblea si sciolse verso le tre del mattino. Era stata la sola a trarre un sostanziale  vantaggio da questi avvenimenti: il re aveva accettato i decreti costituzionali e riconosciuto implicitamente che la sua sanzione non era loro necessaria; una volta di più, una rivoluzione di massa aveva assicurato il successo della rivoluzione dei giuristi. Probabilmente la maggioranza se ne sarebbe appagata. Ma i Parigini non si erano disturbati per così poco: all’indomani, gli aristocratici potevano riprendere il sopravvento sul re; la stessa Assemblea si era mostrata lenta e molle; bisognava farla finita, e, portando il monarca e i deputati a Parigi, porli sotto la sorveglianza del popolo. Poiché molti dei dimostranti non avevano potuto trovare asilo, alcune centinaia di loro, fin dalle sei, si radunarono alle cancellate del castello. Poiché una di esse era rimasta aperta, la corte fu invasa e scoppiò un tafferuglio: una guardia del corpo fu messa a morte, poi un giovane operaio fu ucciso da un colpo di arma da fuoco; una seconda guardia fu massacrata. La folla raggiunse la scalinata che conduceva all’appartamento della regina e penetrò fino all’anticamera, respingendo le guardie del corpo, e uccidendo, o ferendo molte di loro. La regina dovette rifugiarsi dal re. Le guardie nazionali nulla avevano fatto per fermare gli invasori. Quando ormai era tardi, vennero a mettere fine al combattimento, e, impadronitesi dei posti di guardia interni, fecero sgombrare il castello. La Fayette, che aveva passato al notte al palazzo di Noailles, comparve a sua volta, riconciliò le guardie nazionali con le guardie del corpo e si mostrò al balcone con la famiglia reale. La folla, sulle prime indecisa, finì per applaudirli, ma gridando: «A Parigi!», e senza muoversi d’un pollice. Non c’era più da farsi nessuna illusione, e, dopo pochi minuti, il re cedette. Tuttavia, volle chiedere il parere dell’Assemblea; questa rispose soltanto che essa era inseparabile dalla persona del re, il che equivaleva a votare il trasferimento a Parigi.

All’una, al rombo del cannone, le guardie nazionali, con un pane sulla punta della baionetta, aprirono la marcia, seguite da carri di grano o di farina, adorni di fronde, scortati dai facchini del mercato e dalle donne, che portavano rami d’albero legati con nastri, alcune sedute o a cavallo dei cannoni. «Si sarebbe creduto di vedere una foresta ambulante, attraverso cui luccicavano i ferri delle picche e delle canne dei fucili», scrisse un testimone. Venivano poi i granatieri, che proteggevano le guardie del corpo disarmate; poi, il reggimento di Fiandra e gli Svizzeri; infine, la carrozza del re e della sua famiglia, con a fianco La Fayette a cavallo, e le carrozze dei cento deputati scelti a rappresentare l’Assemblea. Dietro ancora guardie nazionali e la folla. Si procedeva a stento nel fango; pioveva; e presto si fece buio. Insensibile alla tristezza dell’ora, il popolo per un istante placato e fiducioso, non pensava che alla sua vittoria, cantava e scherzava; riportava a casa «il fornaio, la fornaia e il garzoncello». Bailly accolse il re alla cinta daziaria, e lo condusse all’Hotel-de-Ville, dove vennero pronunziati dei discorsi. Soltanto alle dieci la famiglia reale rientrò alle Tuileries, abbandonate da più di un secolo [...].

È perfettamente vero che la Dichiarazione comporta un rischio, non meno, del resto, dell’assolutismo e della dittatura, sebbene d’altra natura, e i cittadini devono essere posti di fronte alle loro responsabilità. Investiti del diritto di governarsi da soli, se essi abusano del loro potere gli uni verso gli altri, e soprattutto se si rifiutano, per egoismo personale, di assicurare la salvezza della comunità, questa perirà, e, con lei, la loro libertà, se non la loro esistenza. Si raggiunge dunque qui il significato profondo della Dichiarazione. È una direzione programmatica: essa suppone per conseguenza nei cittadini un’intenzione pura cioè lo spirito critico, il patriottismo nel senso proprio del termine, il rispetto del diritto altrui, la ragionata devozione di sé alla comunità nazionale, la virtù, come dissero Montesquieu, Rousseau e Robespierre. «L’anima della Repubblica – scrisse quest’ultimo nel 1792 – è la virtù, è l’amore della patria, la devozione magnanima che confonde tutti gli interessi nell’interesse generale». La Dichiarazione, proclamando i diritti dell’uomo, fa dunque simultaneamente appello alla disciplina liberamente consentita, al sacrificio se occorre, alla cultura morale, allo spirito. La libertà non è affatto un invito al lasciar andare e alla potenza irresponsabile; non è la promessa di un benessere illimitato senza la contropartita del lavoro e dello sforzo. Essa suppone al contrario l’applicazione, lo sforzo perpetuo, il controllo rigoroso di sé, eventualmente il sacrificio, la virtù civica e privata. È dunque ben più difficile vivere liberi che vivere schiavi; per questo gli uomini rinunziano così spesso alla libertà; essa è in un certo senso un invito a vivere coraggiosamente e, in date occasioni, eroicamente, allo stesso modo che la libertà del cristiano è un invito a vivere santamente.

È dunque un errore grossolano interpretare lo spirito della Dichiarazione come un auspicio a vivere piattamente, nel godimento mediocre dei beni materiali, per ciò, per cancellarla dalla faccia della terra, è opportuno fare appello al senso del rischio e dell’azione che distingue i giovani. Giovani del 1939! La Dichiarazione è una tradizione, una gloriosa tradizione. Cogliete, leggendola, la voce degli antenati che vi parlano, coloro che hanno combattuto a Valmy, a Jemappes, a Fleurus, al grido di «Viva la nazione!». Essi hanno costruito la vostra libertà; apprezzate la nobiltà del presente: nell’universo solo l’uomo può esserlo. Essi vi ripetono che il vostro destino è nelle vostre mani e che da voi, da voi soli, dipende la sorte del mondo a venire. Cogliete il rischio: perché è un fascino per voi e non vi farà indietreggiare. Misurate la grandezza del compito, ma anche la dignità nell’assumerlo? Rinuncerete voi? I vostri antenati hanno fiducia in voi; presto sarete voi la Nazione: «Viva la nazione!»10

 

Chi è Georges Lefebvre?

Storico francese (1874-1959). Insieme a Albert Mathiez e Albert Soboul è stato il più grande studioso della Rivoluzione francese. Fondamentali i suoi lavori sul comportamento e sulla mentalità collettiva. Dal 1934 al 1954 è stato direttore della rivista “Annales historiques de la Révolution française”.

 

Bibliografia 

1 Devo a Sergio Luzzatto la suggestione di analizzare Quatre-vingt-neuf come testo esemplare di uso pubblico della storia.

2 G. Bernanos, Les enfants humiliés, Gallimard, Paris 1949, pp. 8-9.

3 M. Bloch, La strana disfatta, trad. it., Einaudi, Torino 1995.

4 R.J. Evans, In difesa della storia, trad. it., Sellerio, Palermo 2001, p. 51.

5 G. Lefebvre, La grande paura del 1789, trad. it., Einaudi, Torino 1953; Folle rivoluzionarie, in Id., Riflessioni sulla storia, Editori Riuniti, Roma 1976, pp. 127-149.

6 Maximilien M.I. de Robespierre, OEuvres, t. Xèm, Phénix Éditions, Ivry, 2000, pp. 116-122.

7 G. Lefebvre, L’Ottantanove, trad. it., Einaudi, Torino 1949, p. 17.

8 H.I. Marrou, Tristezza dello storico, trad. it., Morcelliana, Brescia 1999 p. 64.

9 V. Serge, Memorie di un rivoluzionario, trad. it., E/O, Roma 1999, pp. 292-293.

10  G. Lefebvre, L’Ottantanove, trad. it, Einaudi, Torino 1949, pp. 212-229. L’ultimo capoverso, in corsivo, è presente solo nell’edizione originale (G. Lefebvre, Quatre-vingt-neuf, Maison du Livre Français, Paris 1939) alle pp. 246-247.