Il sindacato alla prova del centrodestra

Written by P. Nerozzi, A. Ranieri, A. Reichlin e B. Trentin Friday, 01 February 2002 02:00 Print

Lo scenario politico apertosi nel 2001 ha posto tutto il sindacato italiano di fronte a sfide impegnative. L’intreccio tra la difesa e l’estensione dei diritti del lavoro si svolge oggi in condizioni segnate da un centrodestra particolarmente aggressivo proprio sui temi sociali. Mentre rimane ampiamente presente l’esigenza di raccogliere e rappresentare le nuove domande che salgono dal mondo del lavoro, confrontandosi con i nodi reali dell’innovazione sociale ed economica. E tutto ciò avviene nel quadro del processo di ricomposizione della sinistra politica e sullo sfondo dell’esperienza di governo di centrosinistra appena conclusa. Sono questi temi, tra gli altri, ad essere al centro del congresso della CGIL. E su di essi abbiamo chiesto un confronto a quattro esponenti del principale sindacato italiano e dei Democratici di Sinistra.

 

Una discussione tra Paolo Nerozzi, Andrea Ranieri, Alfredo Reichlin e Bruno Trentin

 

Lo scenario politico apertosi nel 2001 ha posto tutto il sindacato italiano di fronte a sfide impegnative. L’intreccio tra la difesa e l’estensione dei diritti del lavoro si svolge oggi in condizioni segnate da un centrodestra particolarmente aggressivo proprio sui temi sociali. Mentre rimane ampiamente presente l’esigenza di raccogliere e rappresentare le nuove domande che salgono dal mondo del lavoro, confrontandosi con i nodi reali dell’innovazione sociale ed economica. E tutto ciò avviene nel quadro del processo di ricomposizione della sinistra politica e sullo sfondo dell’esperienza di governo di centrosinistra appena conclusa. Sono questi temi, tra gli altri, ad essere al centro del congresso della CGIL. E su di essi abbiamo chiesto un confronto a quattro esponenti del principale sindacato italiano e dei Democratici di Sinistra.

 

Bruno Trentin

I temi del congresso della CGIL mi sembrano testimoniare un rafforzamento della capacità di difesa del lavoro in Italia, almeno per quanto riguarda il lavoro salariato. In questo vi è la possibilità di contribuire alla riflessione programmatica più generale della sinistra italiana che, per alcuni versi, rischia di apparire appiattita sulle ideologie dominanti proprio intorno ai temi delle trasformazioni della società e dell’economia. E questo è stato un grande merito della CGIL di fronte a ripetuti e superficiali attacchi, anche da esponenti della sinistra, alla strategia dei diritti del sindacato, che acquistava non minore ma maggiore rilevanza di fronte alle trasformazioni in atto.

Ma c’è anche dell’altro. Ho l’impressione che nel dibattito interno alla CGIL si sia rivelato un limite molto serio: la scarsa capacità di proporre un progetto adeguato al livello delle sfide che abbiamo di fronte, senza per questo accettare il terreno insidioso proposto dal padronato. Diversamente dal mio amico Sergio Cofferati, io non credo in un sindacato che ritorna al suo «mestiere» originario. Ho sempre creduto, e continuo a farlo oggi, in un sindacato che interpreta una funzione generale come soggetto politico. Che cerca di interpretare un interesse generale anche se muove da una rappresentanza inevitabilmente parziale. Oggi dobbiamo misurarci con la scomparsa della «naturale divisione del lavoro» tra sindacati e forze politiche, messa in crisi definitivamente dalle trasformazioni della società e dell’economia. Se un tempo potevamo pensare che il sindacato si occupasse del lavoro e che i partiti avessero il monopolio della decisione politica e programmatica, ormai da molti anni i partiti non possono non intervenire in prima persona sui temi del lavoro e dell’azione rivendicativa e i sindacati non possono non prendere posizione sulle politiche economiche dei governi.

Questo sposta le frontiere dell’autonomia e della rappresentanza, che riguardano sempre più l’autonomia culturale come capacità di proposta e la rappresentanza di un mondo del lavoro sempre meno distinto tra lavoro salariato e lavoro autonomo. È partendo da qui che il sindacato, ma anche i partiti della sinistra, devono ripensare la propria politica delle alleanze, non più in funzione di vecchie categorie come «imprenditori», «ceti medi», «lavoratori autonomi» ma guardando alla costruzione di una convergenza incardinata su orientamenti anche soggettivi rispetto ad un progetto per la società del lavoro. Una convergenza che sappia individuare le forze sociali più dinamiche e innovative, e quindi potenzialmente riformatrici, anche nel mondo dell’imprenditoria, e che sappia cogliere d’altra parte gli elementi di unità presenti nelle varie forme del lavoro contemporaneo. È su questi temi che occorre lavorare, superando anche alcuni elementi di pigrizia politica e intellettuale che ci derivano proprio da un insufficiente impegno sul piano progettuale.

 

Paolo Nerozzi

È proprio su questi temi che il congresso della CGIL è chiamato ad intervenire. E su questo vorrei esplicitare una differenza di opinioni rispetto a Bruno Trentin. A mio avviso il blocco sociale che il centrodestra sta costruendo è caratterizzato da una fortissima radicalità nell’attacco che sta portando alle libertà civili, sia con i provvedimenti di ordine generale (come la legge sulle rogatorie internazionali o quella sull’immigrazione) sia con i progetti relativi all’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Una radicalità espressa in termini ideologici e autoritari, che mira sostanzialmente a contenere il potere di autorealizzazione e sviluppo della personalità del lavoratore e a restaurare una sua condizione di totale dipendenza e nuova subordinazione. Sono le caratteristiche di questo blocco a costituire in questa fase il centro delle preoccupazioni della CGIL. Perché se non riusciamo a sconfiggere questo attacco, smontandone l’impeto ideologico, tutto il resto non può che diventare secondario. È questa la priorità assoluta che abbiamo di fronte. Esiste poi una questione relativa ai valori, sui quali il centrosinistra ha mostrato più di un’incertezza sia nelle ultime fasi del governo dell’Ulivo sia in questo primo periodo di opposizione. Sul tema dei valori, così come sul terreno del modello sociale, l’ultimo centrosinistra al governo non ha dato prova di grandi capacità di riforma. È facendo perno sull’intreccio tra diritti e valori che il sindacato deve lavorare per ricostruire un sistema di alleanze, perché sullo stesso intreccio il centrodestra sta di fatto riproponendo un modello classista di società. La CGIL sta dispiegando un’iniziativa volta all’articolazione di un sistema di alleanze esteso a settori diversi dal lavoro dipendente, come i movimenti giovanili e studenteschi e tutti quei soggetti sensibili ai temi dei diritti. È proprio su questi temi che il centrosinistra sta rischiando di mostrarsi latitante, così come rischia di non cogliere il bisogno di realizzazione e di garanzia dalla precarietà posto dai lavoratori interinali e parasubordinati.

 

Bruno Trentin

Ma detto tutto questo, e ribadita dunque l’esigenza di difendere, oggi più di ieri, dei diritti sacrosanti contro una generale caduta di autonomia culturale della sinistra di fronte all’offensiva ideologica della destra conservatrice e populista, non mi è chiara la direzione verso cui si sta muovendo la CGIL. Per cosa stiamo lavorando? Per quale modello di società? Con quali proposte, e non solo con quali rifiuti, si intende affrontare la crisi dello Stato sociale? Di fronte agli enormi problemi posti dal mutamento, mi pare che la CGIL non vada oltre una pur giusta posizione difensiva a tutela di diritti fondamentali. Mentre occorre necessariamente fare i conti con una società profondamente mutata e con i problemi che questi mutamenti propongono. Viviamo in un paese nel quale, ad esempio, solo il 25% di chi ha più di cinquantacinque anni lavora o solo il 30% delle donne ha un’occupazione. In un paese dove è occupato meno del 50% della popolazione totale. Siamo alla coda dell’Europa.

 

Alfredo Reichlin

Dirò subito, da una posizione come la mia che non è interna al sindacato, che sono molto preoccupato per il modo come si sta svolgendo la discussione tra la CGIL e la componente maggioritaria della sinistra politica italiana. Vedo con quale difficoltà la sinistra si sforza di reagire alla grave sconfitta elettorale cercando di dar vita a un partito più largo, più saldamente ancorato al socialismo europeo, e soprattutto meglio in grado di contrapporsi a questa destra non solo criticando i suoi atti, che sono gravi, ma parlando al paese in modo tale da rappresentare una credibile alternativa di governo. Vedo al tempo stesso la forza del sindacato ma anche le sue serie difficoltà a fronte dei mutamenti sconvolgenti della struttura economica e sociale che sono in atto. Ebbene, a che cosa assistiamo? Invece che a uno sforzo comune volto a orientare l’insieme delle forze di progresso – pur nella diversità dei compiti e delle culture – contro un nemico che è comune, assistiamo a un dibattito che non mi preoccupa tanto per le sue asprezze, ma perché è dominato da una logica che non è quella di discutere le posizioni dell’altro (partendo sempre dal riconoscimento delle sue ragioni e delle sue verità), bensì quella di metterlo sotto accusa. Così noi non andiamo da nessuna parte. Dobbiamo uscire presto da questa situazione.

A mio avviso la prima cosa da fare è smetterla con questa contrapposizione in buona parte fittizia tra chi dipinge il sindacato come il centro delle resistenze conservatrici e chi dipinge il maggior partito politico della sinistra come arrendevole, disposto al compromesso, indifferente ai problemi del lavoro. È una contrapposizione che non sta in piedi, sia perché il sindacato è tutt’altro che un fattore di conservazione, sia perché per la stessa democrazia italiana è fondamentale che nel nostro paese si sviluppi e si affermi un forte partito riformista a vocazione di governo, con un pensiero politico forte, autonomo, non subalterno alle spinte radicaleggianti e populiste.

Se su questo siamo d’accordo, allora la questione è quella posta ora da Bruno Trentin: occorre compiere un salto di qualità nell’elaborazione di un progetto politico e di società che sia comune alla sinistra italiana, adeguato al livello dell’innovazione che abbiamo di fronte, e che al tempo stesso sia tale da garantire al sindacato confederale lo spazio grande che ad esso compete non solo come agente contrattuale ma come soggetto politico. Non credo utile teorizzare l’esistenza di due riformismi, l’uno debole e l’altro forte. Vedo invece per il riformismo italiano l’urgenza e la necessità di definire una piattaforma tale da consentirgli di intervenire nel nesso, oggi più forte che mai, tra politica ed economia. È la forza di questo nesso che rende ormai impossibile riproporre la vecchia distinzione dei ruoli tra partito e sindacato. Se è vero che la potenza dell’economia tende ormai a travalicare i confini della politica, è compito della politica affrontare la questione dell’innovazione in modo tale da non ridursi a un sottosistema rispetto alle grandi decisioni che sono prese da poteri oligarchici non sottoposti al vaglio democratico. Questo è lo sbaglio che può fare un riformismo debole il quale si riduca alla funzione dell’ospedale di una destra troppo crudele. Ma a una funzione altrettanto subalterna è condannato chi di fronte alle nuove sfide dell’innovazione si barrica a difesa del passato, oppure chi pensi di mettere il peso di uno scontro così profondo e così impastato di politica e di economia sulle spalle di una categoria sindacale.

È quindi la novità di questa situazione che ci obbliga ad una comune assunzione di responsabilità, che ci faccia uscire dalla contrapposizione fittizia a cui facevo riferimento. E che ci metta in condizione di rispondere al nuovo profilo che i diritti sociali assumono nel mondo nuovo che abbiamo di fronte. Perché una cosa deve essere chiara: la forza della destra è grande perché deriva dalle logiche di un mercato senza regole all’interno del quale i valori dominanti non sono certo la solidarietà e la giustizia. Ma detto questo non possiamo non vedere la sua incapacità di reggere la partita dell’integrazione europea e della modernizzazione dell’Italia. Anche il futuro del lavoro italiano e della sua qualità, si gioca in questa partita. È tutto ciò che ci obbliga, tutti insieme, a lavorare per un progetto riformista incardinato sull’interesse generale, e non solo su quelli di classe. E spero quindi che i compagni della CGIL vorranno dare una mano a un partito che cerca di interpretare il bisogno di politica e di innovazione proprio di un paese avanzato. Così come io faccio il tifo per una grande CGIL capace di ridefinire il terreno dell’autonomia e dell’unità sindacale.

 

Andrea Ranieri

È vero che tutti noi, e intendo sia la CGIL sia i soggetti politici della sinistra, stiamo pagando il fatto di non avere affrontato con sufficiente forza alcuni nodi del mutamento economico e sociale già avvenuto nelle cose e di non avere riflettuto con sufficiente coerenza sulle nostra capacità. Perché non basta affermare che la situazione è grave. Occorre anche riflettere sul nostro profilo di riformatori. Anzi, più grave è il giudizio politico sugli scenari che abbiamo di fronte e più stringente è il dovere di domandarci se siamo davvero adeguati a rappresentare il cambiamento. Farò qualche esempio. Uno dei punti fermi della nostra riflessione sull’economia italiana, posta al centro degli accordi del 1996 e del 1998, era la qualità dello sviluppo. Diversamente da un’idea della crescita basata su parametri puramente quantitativi e di attacco ai diritti. Ma «qualità dello sviluppo» significa essenzialmente cambiamento sociale, forte e profondo. E molto spesso abbiamo mostrato più di una difficoltà nel mettere in chiaro cosa significhi «mutamento sociale» per il lavoro e per i lavoratori. Prendiamo il caso delle acciaierie Falck di Sesto San Giovanni: abbiamo definito un accordo di alto profilo, in base al quale la chiusura delle acciaierie doveva significare la nascita di un distretto per l’alta innovazione. L’operazione è riuscita. Oggi all’interno di quelli che erano i capannoni della Falck operano centinaia di giovani che lavorano con le nuove tecnologie. Ma non c’è più traccia del sindacato, perché quasi nessuno di questi giovani è iscritto. Lo scenario paradossale è che la nostra lotta per la trasformazione fa sì che se gli strumenti di rappresentanza non vengono adeguati ai cambiamenti, il cambiamento c’è ma il sindacato rischia di scomparire. E lì come altrove vi sono giovani caratterizzati da un fortissimo senso del proprio lavoro individuale, della propria autonomia e della propria responsabilità. Vedono nel lavoro, nell’aggiornamento e nella formazione la via per la realizzazione di sé. Così come preferiscono un lavoro professionalmente e culturalmente ricco rispetto ai tradizionali parametri di sicurezza.

Esiste quindi una personalizzazione del lavoro che non è affatto riassunta dal «contratto individuale» di Berlusconi ma che rappresenta un bisogno insopprimibile del «lavorare con intelligenza». Dobbiamo allora domandarci come tenere insieme la contrattazione collettiva, le garanzie collettive e un fenomeno di personalizzazione del lavoro che è ormai nelle cose e sempre più lo sarà. Io vorrei che di questo discutesse il congresso della CGIL: nelle tesi precongressuali questo tema è presente, anche se solo sullo sfondo, ma deve diventare il centro della nostra riflessione. Perché si tratta di un enorme tema politico e sindacale. E perché se l’opposizione a Berlusconi si struttura lungo la trincea di una contrattazione collettiva che non sa assumere questo tema, rischiamo di non riuscire affatto a spezzare il blocco sociale che si sta formando attorno al centrodestra. Occorre far comprendere a quei giovani che lo spazio collettivo può tutelare, in termini di trasparenza e di pari opportunità, un percorso lavorativo che sarà sempre più personalizzato. Ed è un bene che lo sia. Perché si tratta di una trasformazione del lavoro che noi dobbiamo volgere in positivo, facendo in modo di ritrovare «la persona» anche nel lavoro più banalmente esecutivo. E valorizzando la formazione, così come qualificando un’idea di carriera basata sull’apprendimento piuttosto che sugli inquadramenti rigidi. Perché il rischio è che a queste tendenze di mutamento e di crescita del lavoro non corrisponda una tenuta della sindacalizzazione. Io auspico un sindacato che indaghi le asimmetrie di potere e di sapere presenti anche in queste carriere, dando impulso ad una contrattazione collettiva basata anche su nuovi parametri fondamentali di riferimento. Perché non è vero che non c’è più bisogno di sindacato. Il bisogno è fortissimo, ma a questo non corrisponde un mutamento della nostra cultura che tramuti questi mutamenti in sue priorità. Le trasformazioni in atto ci spingono ad indagare anche le novità da apportare alla legislazione sul lavoro: un tema che ovunque in Europa è oggetto di riflessione prima di tutto da parte della sinistra. Dobbiamo interrogarci sui modi per arrivare ad uno statuto dei lavoratori assolutamente più inclusivo di quello attuale, che era dotato di molti pregi ma che era al contempo certamente legato ad un mondo del lavoro più strutturato di quello odierno. Non possiamo lasciare questo tema solo a Berlusconi.

Rispetto alla strategia del Libro bianco di Maroni, che punta semplicemente a deregolamentare tutto l’esistente, dobbiamo costruire nuovi diritti connotati da un carattere più inclusivo. Su questo siamo stati paralizzati da due opposte alternative ideologiche: portare tutto il lavoro nuovo dentro lo statuto esistente, costruito per il mondo del lavoro di un tempo, identificando i nuovi diritti con i diritti già esistenti; oppure procedere alla semplice deregolamentazione. La convinzione prevalente nella sinistra europea è invece orientata a fissare i diritti fondamentali di tutti i lavoratori (autonomi, del lavoro sociale, parasubordinato, del lavoro riproduttivo e di cura, del lavoro dipendente) e di qui ricostruire le specificità dei diritti di ciascun tipo di lavoro. Distinguendo gli elementi comuni da quelli specifici tra i vari tipi di lavoratori, e cercando di affrontare così gli elementi davvero nuovi.

 

Bruno Trentin

Dinanzi a questi temi è giusto tornare ad una visione più d’insieme della sinistra politica e sindacale. Credo infatti che l’arroccamento difensivo del sindacato sia originato in larga misura dall’incapacità della sinistra di tematizzare la fine della società fordista e dai suoi ripetuti cedimenti di fronte alle ideologie alla moda che circolano in un mondo imprenditoriale anch’esso in larga misura ostile al cambiamento. Parlerei di un «male oscuro» della sinistra, di una sua difficoltà a concepire una sua funzione generale nella società di oggi. In questa nuova «rivoluzione passiva» subita dalla sinistra nell’attuale fase di trasformazione, si sono manifestati infatti dei cedimenti sul piano dei valori e della difesa di diritti individuali fondamentali, rispetto all’offensiva della destra. Troppo spazio, in questo vuoto, ha acquisito una strategia orientata esclusivamente alla presa del potere. Così come troppo spesso abbiamo confuso i temi portati avanti dall’offensiva della destra con la modernità in sé, o quelli della flessibilità senza sicurezze con la via verso la maggiore occupazione. Limiti che, in questo senso, abbiamo mostrato anche nella nostra esperienza di governo. Questa subalternità culturale della sinistra italiana rappresenta oggi un’anomalia rispetto alle altre forze della sinistra europea.

Ma anche nel sindacato vedo una vera crisi di subalternità, che sta aprendo la strada a riflessi di arroccamento e autodifesa che si accompagnano alla ricomparsa di vecchi «spiriti animali» del sindacalismo italiano. Dobbiamo lavorare di più e meglio per comprendere la trasformazione post-fordista, nel quadro di una stringente riflessione sui programmi e sui contenuti della nostra proposta politica, che metta al centro il tema dell’occupabilità e quindi della formazione lungo tutto l’arco della vita; della promozione di una società della conoscenza, con le priorità che ne discendono. La destra, di fronte a noi, sta affrontando le questioni poste dall’innovazione con una proposta che cerca di unificare il fronte imprenditoriale sulla linea autoritaria di un fondamentale minimo comune denominatore: la riduzione dei diritti e del costo del lavoro. Di fronte a questo noi dobbiamo essere capaci di mostrare una capacità di autonomia culturale e progettuale. Senza cadere nella tentazione di mimetizzarsi nei movimenti antiglobalizzazione, con i quali dobbiamo dialogare positivamente ma anche criticamente quando contengono forti elementi di conservazione e di autarchia.

 

Paolo Nerozzi

Condivido questi riferimenti ai limiti dell’azione di governo della sinistra, che in più di un’occasione (e penso soprattutto alla scuola e alla sanità) ha mostrato uno scarso coraggio riformatore. Così come condivido l’esortazione a concentrarsi sul lavoro programmatico. Ciò che abbiamo di fronte oggi è un blocco conservatore particolarmente pericoloso, perché va oltre le figure tradizionali d’impresa e coinvolge anche ceti sociali deboli (i pensionati più dei giovani). E se progetto vuol dire anche modello di società, occorre affermare che proprio in ciò sono state in passato le maggiori mancanze, e che su questo punto il sindacato sta lavorando maggiormente. Nella CGIL è avvenuto ormai un cambiamento strategico: partendo dalla resistenza all’attacco autoritario, stiamo lavorando su valori e idealità coinvolgendo soggetti nuovi e bisogni di nuovo tipo. Nuovi settori della società si riconoscono in alcune battaglie di principio in cui si è impegnato il sindacato. Penso al legame instaurato con i movimenti giovanili, che esprimono un forte bisogno di cambiamento e ci offrono un esempio affascinante di cultura associativa. Nel sindacato si scorgono dunque segni innovativi di riflessione programmatica, che guardano alla costruzione di un nuovo scenario di speranza, e per questo non condivido un’analisi della CGIL in termini di arroccamento. Infatti l’impegno per la difesa dei diritti contiene i presupposti indispensabili dell’unità e della riflessione progettuale su una nuova idea di società.

 

Andrea Ranieri

È vero che nella CGIL ci sono forti elementi di cambiamento e di una chiara volontà di trasformazione, anche in termini di valori e idealità. Ma è necessario che la CGIL, a partire dal congresso, lavori affinché questi elementi di cambiamento acquisiscano una dimensione propriamente progettuale, cogliendo le opportunità presenti nello scenario di innovazione che abbiamo di fronte. La nostra capacità di intaccare il blocco berlusconiano, incardinato sull’esaltazione dell’individualismo di massa e del familismo amorale, dipende dalla nostra capacità di esplicitare una progettualità sociale che faccia rigorosamente i conti con l’innovazione. In passato il sindacato ha compiuto i più grandi passi avanti, anche in termini di unità, quando è divenuta chiara l’esigenza di superare l’arroccamento sulle vecchie e consolatorie culture. A tale proposito non deve bastarci il legame con i movimenti antiglobalizzazione, perché la cosa peggiore che potremmo fare è gareggiare tra di noi a chi mostra di essere più amico dei giovani che vanno in piazza. Il nostro compito, al contrario, è di indicare ai movimenti giovanili le trasformazioni che la nostra azione nel mondo del lavoro e della politica può concretamente realizzare.

 

Alfredo Reichlin

Ancora una volta, in conclusione, vorrei richiamare la necessità di individuare un obiettivo comune: aggregare attorno ad un progetto per il paese le forze che si oppongono al centrodestra sia nel mondo del lavoro sia nella politica. La frantumazione della sinistra e del sindacato in piccole isole di sopravvivenza non è una soluzione responsabile né adeguata alla gravità di questo momento. Occorre dunque concentrarci, come suggeriva Trentin, su un pensiero riformatore comune. È una questione che va molto oltre la vecchia politica intesa come mediazione tra gli esponenti di un ceto politico. Si tratta piuttosto di porre mano a un’agenda per il paese, invertendo la tendenza alla subalternità e all’ottica di breve periodo. Nessuno, neanche il sindacato, può ritenersi immune dalle possibili conseguenze di un immiserimento delle sorti del riformismo in questo paese. In questo senso occorre avere ben chiaro cosa sono stati gli ultimi dieci anni, in termini di buoni risultati, grazie all’azione riformatrice e alla modernizzazione innovatrice dell’Italia. Non è affatto vero che abbiamo sbagliato tutto. Il sindacato, del resto, è stato uno degli attori fondamentali di questa fase: esso non è quindi giudice, ma corresponsabile dei successi così come degli errori. Se guardiamo avanti, vi sono punti reali su cui far convergere un pensiero politico comune. Avanzano nuove soggettività, e il mutamento non consiste solo in un attacco ai diritti del lavoro ma esprime anche nuovi bisogni di politica. Così come non dobbiamo sottovalutare la forza della contraddizione insita nel fatto che l’economia tende a sfuggire alla sovranità politica, ma richiede al tempo stesso sempre più capitale sociale e umano avanzato. Quindi più politica, sia pure in termini nuovi. Sono solo alcuni esempi per affermare che sindacato e soggetti politici riformatori possono e devono trovare il terreno di una riflessione convergente.