Una controriforma economica

Written by Nicola Rossi Friday, 01 February 2002 02:00 Print

Varata la legge finanziaria, approvati i decreti legge che la sostengono, presentate le deleghe al governo in materia sociale e fiscale, il quadro della politica economica governativa può considerarsi in larga misura completato. È possibile, quindi, darne oggi una valutazione complessiva. Legata non a questo o a quell’aspetto di un singolo provvedimento, ma riferita alla strategia economica del centrodestra italiano nel suo complesso. Capace di distinguerne gli aspetti di breve da quelli di medio-lungo periodo. Tesa ad individuare permanenze e discontinuità nella condotta della politica economica. Per quanto riguarda gli aspetti congiunturali, è negli ultimi giorni di ottobre che si concretizza con chiarezza il cambio di rotta rispetto al più recente passato.

 

Varata la legge finanziaria, approvati i decreti legge che la sostengono, presentate le deleghe al governo in materia sociale e fiscale, il quadro della politica economica governativa può considerarsi in larga misura completato. È possibile, quindi, darne oggi una valutazione complessiva. Legata non a questo o a quell’aspetto di un singolo provvedimento, ma riferita alla strategia economica del centrodestra italiano nel suo complesso. Capace di distinguerne gli aspetti di breve da quelli di medio-lungo periodo. Tesa ad individuare permanenze e discontinuità nella condotta della politica economica. Per quanto riguarda gli aspetti congiunturali, è negli ultimi giorni di ottobre che si concretizza con chiarezza il cambio di rotta rispetto al più recente passato. Con la Nota di aggiornamento al Documento di programmazione economico-finanziaria, il governo accoglie in pieno le tesi «revisioniste» avanzate sull’onda degli avvenimenti seguiti all’11 settembre e torna a guardare al tasso di crescita di breve periodo dell’economia come a un obiettivo da perseguirsi con gli strumenti a disposizione del governo. Si ripropone così, sul finire del 2001, ciò che sembrava un oggetto di modernariato: il fine tuning, l’utilizzo puntuale della politica economica a fini anticiclici. Al di là della spicciola polemica politica – essendo tutti i provvedimenti di stimolo all’economia stati pensati prima dell’11 settembre, dobbiamo riconoscere al governo italiano anche capacità divinatorie! – è il caso di domandarsi se questa inversione di rotta fosse giustificata e se, in particolare, lo fosse in Italia e se potesse esserlo in Europa. E non è facile trovare argomenti a favore. La situazione della finanza pubblica negli Stati Uniti era (ed è tuttora) ben diversa da quella europea. Se lì si trattava (e ancora si tratta) di spendere un avanzo di bilancio, o quasi, qui si tratterebbe, invece, di tornare direttamente al deficit spending. E diverso era ed è ancora il contesto istituzionale delle due economie, con l’economia europea visibilmente irrigidita da un’insufficiente capacità decisionale e di coordinamento nel campo della politica fiscale. E molto diversa era (ed è tuttora), infine, anche la situazione della finanza pubblica europea rispetto a quella italiana. I risultati degli ultimi anni non devono portarci a dimenticare che sull’economia (e sulla società) italiana grava ancora il peso di un debito pubblico che eccede largamente, in quota del prodotto, la media e gli obiettivi europei. Ricondurre quel debito – ed il conseguente drenaggio di risorse – a dimensioni compatibili con la struttura dell’economia italiana rimane (dovrebbe rimanere) un obiettivo di fondo della politica economica italiana.

Ma c’è un motivo anche più generale per guardare con molta prudenza a una nuova stagione di politiche anticicliche. Gli argomenti che avevano portato a dubitarne non sono stati superati dagli ultimi eventi ma anzi permangono. Se possibile rafforzati. La tempestività e la flessibilità delle politiche fiscali è ancora quella, ridotta, di un tempo così come non è mutata la possibilità che il settore privato possa vanificare in tutto o in parte gli effetti di una qualche iniziativa anticiclica. E non è mutata, di conseguenza, la performance tutto sommato deludente di queste iniziative. Non sarebbe stato meglio contribuire a mantenere fermo lo spirito del Patto di stabilità e crescita, secondo cui i governi definiscono un quadro di politica fiscale di medio periodo permettendo agli stabilizzatori automatici di operare al suo interno e senza fare ricorso ad interventi discrezionali non marginali? Non sarebbe stato meglio capire che quello spirito può ancora giovare all’Italia anche più che ad altri? Pur in presenza di un significativo peggioramento del quadro congiunturale come quello intervenuto dopo l’11 settembre, era veramente opportuno tornare indietro nel tempo? E per giustificare poi cosa? La decisione – presa in altro momento congiunturale, pervicacemente difesa contro ogni evidenza e considerata chiaramente inefficace nella fase attuale dalla stessa Banca d’Italia – di incentivare i piani di investimento delle imprese. E, nel contempo, la decisione di non sostenere, più di tanto, le scelte delle famiglie. Aumentando, è vero, le detrazioni IRPEF per carichi familiari ma nel contempo sospendendo le previste riduzioni delle aliquote IRPEF o, in alternativa, evitando di restituire il drenaggio fiscale. Procedendo ad un incremento di alcune pensioni minime ma nel contempo sospendendo la prevista eliminazione di alcuni ticket sanitari ed inducendo le Regioni ad una generalizzata revisione verso l’alto delle aliquote IRPEF. Appostando risorse insufficienti per il rinnovo dei contratti del pubblico impiego e della scuola. Abrogando le riduzioni di accise sulla benzina in vigore da ormai quasi due anni. Invertendo, in altre parole, la tendenza del più recente passato con il risultato che le più attendibili previsioni – ivi incluse quelle dell’Unione europea – segnalano per il 2002 una sia pur leggera crescita della pressione fiscale rispetto al 42,1% del 2001.

Come è spesso accaduto in passato, l’attivismo anticiclico intervenendo nel momento sbagliato con lo strumento sbagliato finisce, nella migliore delle ipotesi, per lasciare le cose come stanno. Mutamenti di rotta di non minori dimensioni sono riscontrabili anche rivolgendo lo sguardo al medio termine ed ai temi della competitività del paese che tanta parte avevano avuto in campagna elettorale. In questo campo, infatti, le scelte governative sembrano rispecchiare da vicino gli obiettivi e le necessità di quella parte del (per fortuna, non di tutto il) mondo produttivo italiano che è disposta a rischiare, sempre e comunque, il meno possibile. La stessa parte che nei mercati esposti alla concorrenza sceglie di competere esclusivamente sui costi e non anche sulla qualità e sull’innovazione, e che nei mercati non esposti alla concorrenza chiede di poter scremare la parte più redditizia della clientela lasciando al pubblico il resto. L’inversione di rotta è, anche in questo caso, indubbiamente netta. Tanto negli interventi presenti nella legge finanziaria per il 2002 e legati ai temi della ricerca e dell’innovazione, della qualità della Pubblica amministrazione e delle sue infrastrutture legali. Quanto nei tre disegni di legge delega – accolti, com’è noto, con condizionato favore dalla Confindustria e con motivato dissenso invece da parte dei sindacati – che prevedono interventi marginali, ma non per questo privi di significato, in campo sociale ed una ampia revisione, invece, del sistema fiscale.

La delega al governo in materia di occupazione e mercato del lavoro ripropone questioni (e relative parole d’ordine) ben note agli addetti ai lavori: dalla trasparenza ed efficienza del mercato del lavoro (leggi: servizi per l’impiego), alle politiche della occupabilità (leggi: ammortizzatori sociali), alla adattabilità delle imprese e dei lavoratori (leggi: flessibilità per questi ultimi), ai rapporti bilaterali (leggi: extragiudiziali) fra organizzazioni di rappresentanza. E lo fa, per quanto riguarda il primo punto e cioè la riforma del collocamento, con un coraggio che certamente è mancato nella precedente legislatura. Ma, purtroppo, questo è quanto. Sugli altri versanti, e nel migliore dei casi, la delega ripercorre strade già battute in passato con scarso successo. Due, in particolare, i punti deboli. In primo luogo, è a tutti evidente che il limite fondamentale del nostro mercato del lavoro è dato dalla sua eccessiva frammentazione. Sotto questo aspetto la delega, lungi dall’affrontare la questione, la rende ancora più grave. Introducendo nuove tipologie contrattuali ma non solo. Intervenendo anche sulla disciplina dei licenziamenti per giusta causa in maniera tale da consentire, sia pure temporaneamente, che nella stessa fabbrica, alla stessa macchina possano simultaneamente lavorare due lavoratori dipendenti ambedue a tempo indeterminato ma caratterizzati da sistemi radicalmente diversi di protezione del posto di lavoro. Al contrario, il mercato del lavoro italiano avrebbe bisogno di essere riportato ad unità e di tornare a veder definiti i caratteri di una cittadinanza del lavoro. In secondo luogo, dopo il prolungato e purtroppo inutile dibattito degli anni passati, si sperava che fosse ormai chiara la necessità di considerare congiuntamente i temi del mercato del lavoro e quelli della protezione sociale. La delega torna invece, sfortunatamente, a riproporre una strategia di interventi separati il cui unico risultato è di consentire che simultaneamente si possa auspicare una nuova stagione di prepensionamenti e, nel contempo, ipotizzare una ridefinizione della disciplina vigente in tema di ammortizzatori sociali.

Diverso e per certi versi anche più grave è il caso della delega in materia previdenziale. Se letta, infatti, congiuntamente al provvedimento di aumento delle pensioni minime, essa configura una vera e propria controriforma. Per l’Italia e per gli italiani era stato culturalmente rivoluzionario separare gli aspetti assicurativi dagli aspetti assistenziali. L’incremento generalizzato delle pensioni inferiori al milione, a prescindere dalla loro natura, annulla quel risultato e ci riporta indietro di oltre dieci anni: a quando si concedevano incrementi dei trattamenti pensionistici completamente slegati dalla storia contributiva. Ed era stata una svolta importante l’accettazione del principio della equità attuariale come principale criterio per determinare i trattamenti corrispondenti a diverse età di pensionamento. L’introduzione di incentivi (peraltro inefficaci) per posporre l’età di pensionamento ci riporta all’idea secondo cui un’iniquità è superabile solo creandone una ancora maggiore (possibilmente a carico dello Stato). E se poi gli incentivi al lavoro si sommano agli incentivi al pensionamento anticipato – come accade con la eliminazione del divieto di cumulo – allora la confusione è totale. E, ancora, era stato molto difficile ed anche significativo per gli italiani accettare di dover completare la riforma Dini estendendo a tutti il sistema contributivo e superando l’iniqua distinzione fra giovani e meno giovani contenuta nella disciplina transitoria di quella riforma. Ma dell’estensione pro rata del sistema contributivo non si fa nemmeno vaga menzione nella delega. E, infine, era stata un’innovazione importante l’idea che i cittadini conoscessero con regolarità lo stato del proprio conto previdenziale. Ma inventarsi la certificazione dei diritti acquisiti è tutt’altra cosa e la dice lunga sull’idea che degli italiani ha il nostro centrodestra. Rimane dunque la destinazione obbligatoria del trattamento di fine rapporto ai fondi pensione. Sempre che sia confermata: all’interno del governo si contano infatti, ad oggi, tanto autorevoli posizioni contrarie alla obbligatorietà quanto significative dichiarazioni in senso opposto. Se lo fosse, sarebbe una scelta difficile ma condivisibile visto che di una previdenza complementare robusta abbiamo, e da tempo, assoluto bisogno. Va da sé, però, che non si può chiedere ai lavoratori di versare obbligatoriamente il flusso annuo del trattamento di fine rapporto in fondi pensione a contribuzione definita senza offrire loro una qualche garanzia sul rischio e sul rendimento (e non sulla gestione!) del loro investimento. E deve essere chiaro, inoltre, che il decollo della previdenza complementare non può avvenire con oneri per la finanza pubblica che non siano contenuti. E sotto questo profilo i dubbi non devono essere pochi, se lo stesso Ragioniere generale dello Stato si è visto costretto ad esternarli.

Completa il trittico, come si è detto, la delega al governo per la riforma del sistema fiscale. Una delega caratterizzata, fra l’altro, da una evidente e non sempre comprensibile avversione nei confronti di una riforma fiscale che ha portato il carico fiscale delle imprese italiane – come ha rilevato la stessa Unione europea – sotto la media europea ed in particolare sotto la soglia del 30% per molte imprese. Si è scelta, invece, un’altra strada che potrebbe portare, per non poche imprese, a un aumento e non già a una diminuzione dei livelli di imposizione. Già oggi, infatti, non sono poche le società che vedono tassato il proprio reddito d’impresa con aliquote inferiori a quel 33% che è indicato dalla delega. L’elemento di maggiore novità è dato, comunque, dal radicale ridisegno dell’imposta personale che la delega immagina caratterizzata da solo due aliquote e da un complesso i deduzioni dall’imponibile tale da garantire una fascia esente legata alla linea di povertà. Vale però anche qui quanto osservato a proposito della delega sul mercato del lavoro. Una impostazione moderna, meno settoriale ed economicamente più informata, della delega avrebbe guardato, ad esempio, alle relazioni fra fisco ed assistenza ed avrebbe affrontato il tema dell’utilizzo dell’imposta personale a fini di sostegno del reddito. Su questa linea si stanno muovendo da tempo alcuni paesi occidentali (gli Stati Uniti, ad esempio, con il cosiddetto Earned Income Tax Credit o la Gran Bretagna con il Working Family Tax Credit). Ma naturalmente una scelta in questo senso avrebbe mutato significativamente la natura redistributiva della proposta di riforma. Una natura redistributiva abbastanza chiaramente caratterizzata da un trasferimento dalle fasce a reddito basso o medio alle fasce a reddito più elevato o, quantomeno, da una riduzione delle imposte relativamente più massiccia sulla fasce di reddito più elevate. Governare significa scegliere ed il centrodestra italiano sul fronte redistributivo ha indubbiamente scelto da tempo: dare molto ai pochi che hanno già molto e poco a pochi che hanno già poco.

Non è affatto chiaro con quali risorse si intenda varare la riforma. Il testo del disegno di legge esclude oneri aggiuntivi per il bilancio dello Stato e lascia pensare che – al netto delle risorse derivanti da una maggiore crescita tendenziale (tutta da dimostrare) – il governo intenda chiedere alle imprese di pagare per intero l’eliminazione dell’IRAP. E che intenda chiedere, invece, alle famiglie di pagare, sotto forma di minori pensioni o di una diversa scuola o sanità, la riduzione del gettito dell’imposta personale sul reddito. Dal momento che, tendenzialmente, sono i redditi medi e bassi a trarre il massimo beneficio da quei servizi pubblici è chiaro che, se così fosse, dovremmo prepararci ad una massiccia operazione redistributiva a favore dei più abbienti. E ad una trasformazione del nostro stato sociale che non è neppure lontanamente presente nei provvedimenti presi fino ad ora sulla sanità, nel disegno di legge delega sulla riforma del sistema previdenziale, nelle proposte di riforma della scuola dell’obbligo. Qualunque sia dunque il profilo dell’analisi, il giudizio non può che essere severo. È difficile discernere nelle scelte del governo una strategia che sia una strategia per il paese. E quando, per avventura, la si incontra è difficile riconoscervi l’immagine che del paese ha avuto nella passata legislatura, e pur con tutti i suoi limiti, il centrosinistra: un paese serio, teso a superare ritardi decennali per dare alla sua economia ed alla sua società il posto che meritano in Europa e nel mondo. In questo quadro, sembrerebbe rimanere un solo punto di continuità – tutt’altro che marginale – nelle scelte governative: quello relativo al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica concordati in sede europea e quindi al rispetto del percorso del risanamento della finanza pubblica già tracciato dai governi dell’Ulivo. Un rispetto apparentemente chiaro sin dal Documento di programmazione economico-finanziaria e apparentemente ribadito con la Nota di aggiornamento dello stesso Documento che mantiene per lo più inalterati gli obiettivi di finanza pubblica cifrati in un rapporto fra indebitamento netto delle Pubbliche amministrazioni e prodotto interno lordo pari allo 0,5% nel 2002 permettendo invece all’obiettivo del raggiungimento di un rapporto debito/prodotto inferiore al 100% di slittare al 2004. Rimane comunque confermato l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2003. Ma anche sotto questo profilo è lecito domandarsi se, al di là delle apparenze, le cose stiano proprio in questi termini. E se, anche in questo caso e nei fatti, non prevalgano i segni della discontinuità. L’impostazione della politica di bilancio governativa – caratterizzata da entrate temporanee ed incerte (dai proventi dell’emersione dell’economia irregolare, a quelli della cartolarizzazione degli immobili di proprietà pubblica, al condono per i capitali esportati all’estero) – sommata ai dubbi circa la natura fantasiosa di alcune coperture e alla incertezza del quadro macroeconomico ha già indotto molti istituti di previsione a considerare irrealizzabile l’obiettivo del pareggio di bilancio nel 2003. In questo quadro, sostenere l’ipotesi di una rimodulazione temporale del Patto di stabilità – come ha fatto in dicembre il Presidente del consiglio italiano – e di un trattamento differenziato delle spese in conto capitale per la difesa è atto a dir poco imprudente. Non è certo l’Italia – con il suo debito pubblico – a poter avanzare queste richieste! E del resto il silenzio che ha accolto la proposta del Presidente del consiglio è stato fin troppo eloquente. E poi, perché farlo se non per cercare fin d’ora una via d’uscita a una situazione che fin d’ora si prevede difficile?

Superato con facilità il 2001, grazie alla solida eredità ricevuta dai precedenti governi, il centrodestra ha scelto una strada che con ogni probabilità lo porterà – con un qualche aiuto da parte della Commissione – oltre il 2002 ma i cui limiti emergeranno con chiarezza quando si tratterà di definire gli equilibri di bilancio del 2003. Questo momento non tarderà a venire. Già nel giugno 2002 il governo dovrà conciliare le richieste provenienti dalla sua maggioranza, e relative ad una anticipazione della prima fase della riforma fiscale, con il venir meno di molte fonti transitorie di entrata e con il rispetto del vincolo del pareggio di bilancio nel 2003. Si misurerà lì, molto più che nelle dichiarazioni o nei dibattiti, la solidità dell’impegno europeo del governo Berlusconi. Oggi possiamo solo ricordare che il Ministro dell’economia ha già annunciato che se l’obiettivo del pareggio di bilancio non dovesse essere raggiunto nel 2003 egli lascerebbe il suo incarico. Ed il Ministro dell’economia, come Bruto, è uomo d’onore, no?