Per un nuovo spazio pubblico del sapere

Written by Andrea Ranieri Friday, 01 November 2002 02:00 Print

Il sistema della scuola, dell’università, della ricerca, della cultura italiana, sta vivendo un momento di fortissima preoccupazione per il proprio futuro. Nelle scuole le scelte improvvisate e controriformatrici del ministero stanno generando un clima di incertezza preoccupante per gli studenti e per le famiglie, tale da generare – come ci avverte un recente sondaggio – un clima di disaffezione verso il proprio lavoro e la propria funzione sociale da parte della maggioranza dei docenti. La ricerca pubblica è messa sotto tiro da una linea che contrappone assurdamente, e in controtendenza con tutti i paesi sviluppati, il privato al pubblico, la ricerca applicata a quella di base, i realizzi a breve sul mercato alle prospettive a medio e lungo termine del lavoro scientifico.

 

Il sistema della scuola, dell’università, della ricerca, della cultura italiana, sta vivendo un momento di fortissima preoccupazione per il proprio futuro. Nelle scuole le scelte improvvisate e controriformatrici del ministero stanno generando un clima di incertezza preoccupante per gli studenti e per le famiglie, tale da generare – come ci avverte un recente sondaggio – un clima di disaffezione verso il proprio lavoro e la propria funzione sociale da parte della maggioranza dei docenti. La ricerca pubblica è messa sotto tiro da una linea che contrappone assurdamente, e in controtendenza con tutti i paesi sviluppati, il privato al pubblico, la ricerca applicata a quella di base, i realizzi a breve sul mercato alle prospettive a medio e lungo termine del lavoro scientifico. Nell’università si tende a rimescolare le carte della riforma appena varata e a rimettere in discussione la stessa autonomia degli atenei. Su tutto grava il pericolo di ulteriori tagli delle risorse, derivanti dalla percentualizzazione dei fabbisogni del sistema sulla base di una previsione del governo di crescita del PIL del tutto immaginaria e dalla priorità tremontiana attribuita alla riduzione della pressione fiscale rispetto ad ogni altro obiettivo di crescita sociale e civile del paese. L’insoddisfazione degli operatori del sistema sta aumentando visibilmente, e comincia ad emergere in forme di straordinaria unità e maturità politica, come quella che ha visto come protagonisti gli scienziati italiani nella manifestazione al CNR del 10 settembre scorso. I rettori delle università italiane hanno manifestato la volontà di dimettersi tutti insieme se non verrà rapidamente corretta la legge finanziaria. Gli insegnanti hanno manifestato, con scioperi di categoria e con la grande partecipazione allo sciopero generale della CGIL, contro i tagli e il ridimensionamento del ruolo della scuola pubblica del nostro paese.

Di fronte a questi fatti, che denunciano il rischio di un rapido decadimento del sistema pubblico nazionale, non possiamo però limitarci alla denuncia e alla difesa dell’esistente. La scuola, l’università, le strutture della ricerca e della cultura italiana, hanno comunque bisogno di cambiare per affrontare le proprie carenze strutturali, per rispondere ai cambiamenti dell’economia e della società. La scuola continua a disperdere il 30% dei giovani prima dei 18 anni; i laureati e i ricercatori sono assolutamente al di sotto della media di tutti i paesi sviluppati, sia nei luoghi della ricerca che in quelli in cui si producono beni e servizi; lo scarso livello di scolarità – e di capacità di leggere e di fare di conto – della nostra popolazione adulta rappresenta un limite enorme sia per poter imboccare la strada dell’innovazione e della qualità nella produzione di merci e servizi, sia per il decollo di consumi pubblici e privati più complessi e più alti, più personalizzati e più ricchi di intelligenza progettuale. Le riforme che abbiamo varato nella scorsa stagione governativa hanno cominciato ad affrontare con decisione queste questioni, avviando a un processo riformatore di grande valore e coerenza, ma è mancata la capacità di sostenere le riforme con risorse adeguate, di farne davvero la priorità nelle nostre concrete politiche di spesa. Vi è stato dunque un divario tra le priorità predicate – la scuola, l’università, la ricerca, la cultura, come nodi fondamentali per l’Italia e l’Europa, dentro l’economia globale della conoscenza – e le priorità effettive emerse dalle politiche di spesa ma anche dalla nostra narrazione politica di fase. Occorre allora ragionare insieme su come impedire il degrado del sistema, e su come ridefinire su questi temi il profilo della sinistra, a fronte dei cambiamenti straordinari in cui siamo immersi.

Il punto di forza delle politiche neoliberiste – quello che può dare senso persino alle improvvisazioni tremontian-morattiane – deriva dal fatto che il farsi «informazionale» dell’economia, per usare la terminologia di Manuel Castells, è avvenuto contestualmente alla perestroika capitalistica, iniziata a metà degli anni Settanta e tuttora in corso, la quale ha risposto alla crisi del vecchio modello con la deregolamentazione e lo smantellamento del contratto sociale tra capitale e lavoro. Le nuove tecnologie dell’informazione, la flessibilità e l’adattività che esse permettono sono state il motore della globalizzazione della produzione, della ricerca scientifica e dei mercati. Ma la ricerca in ogni luogo delle condizioni più vantaggiose per la realizzazione dei profitti, è andata spesso a scapito della protezione sociale e delle regole a tutela dell’interesse pubblico. La stessa finanziarizzazione crescente dell’economia, la possibilità per il capitale di rendersi indipendente dai territori e dalle concretezze dell’economia «reale», di spostarsi da una parte all’altra del globo, sarebbe impensabile senza la rete informatica e telematica, senza l’«informazionalismo». L’economia delle reti ha aggredito in ogni parte del mondo – ma in ogni parte del mondo in maniera diversa, intrecciandosi con le diverse forme della statualità e della socialità di ciascun paese – le regole ella vecchia economia fordista e keynesiana, ha messo in discussione il compromesso sociale che aveva assicurato stabilità e sicurezza sociale alla precedente fase di sviluppo. Quella che oggi appare drammaticamente in crisi non è l’economia delle reti e il peso crescente del sapere come valore economico, ma la sua connessione con gli spiriti della deregolazione e del neoliberismo, l’aver eroso il valore delle vecchie regole senza la capacità di produrne nuove.

La prima scelta che dovremmo fare è proprio questa. Auspicare il riattrezzarsi sui vecchi, collaudati parametri del capitalismo «civilizzato» degli Stati nazione e dell’economia «reale» contrapposta all’economia virtuale delle reti; oppure ragionare sulla nuova civilizzazione di un capitalismo che ha espresso inedite ed eccezionali potenzialità di sviluppo, facendo esplodere contemporaneamente nuove laceranti contraddizioni che attendono di essere indagate e governate. Sul primo fronte troviamo una folla variegata e pericolosissima, dall’unilateralismo americano, ai riscopritori delle virtù dello statalismo, a chi lavora per riprodurre vecchie logiche imperialistiche, a chi ne sogna il ritorno per riscoprire la propria identità nella semplificazione dello scontro, nella riscoperta chiara e unilaterale del nemico. Questa è al tempo stesso una illusione e una follia: nessuna guerra è in grado, come estrema continuazione della politica, di riprodurre, in quanto tale, nuovi equilibri (l’economia e la società delle reti non hanno messo in crisi solo Ford e Keynes, ma anche Von Clausewitz), ma d’altra parte non basterà riprodurre i partigiani della pace, rieditare un «pacifismo con nemico», per dare uno sbocco positivo alle contraddizioni della nostra epoca. Credo che dovremmo collocarci con chiarezza sul secondo fronte. Quello che riconosce il salto epocale, il cambio di paradigma che l’economia e la società globalizzate e il ruolo crescente del sapere, della comunicazione e dell’informazione nella produzione di valore hanno fatto fare al genere umano, per porre a quel livello la nostra proposta alternativa, la stessa possibile apertura di una speranza di pace per i popoli del mondo. Non abbiamo davanti uno scontro fra l’economia reale e quella virtuale, ma una sola nuova realtà arricchita di nuove, inedite possibilità, di nuovi, inediti rischi, che dobbiamo riconoscere e indirizzare.

Internet, che della società delle reti e dell’economia del sapere è il simbolo più forte ed evidente, nasce dalla commistione di scelte strategiche militari (un forte investimento pubblico!), di cooperazione dell’alta scienza universitaria (che allargherà a fini propri, di rinnovamento della comunicazione e della metodologia scientifica, le richieste dello Stato maggiore), e di un vero e proprio movimento di innovazione controculturale, sorto per promuovere comunicazione orizzontale e egualitaria, contro la verticalizzazione delle grandi corporations dell’informatica e dell’intrattenimento. L’imprenditorialità tecnologica è impensabile senza una forte connessione di questi tre elementi, anzi nasce nel contesto – la California anziché l’Est, sede della grande industria – in cui questa commistione era più semplice e spontanea. Intervento pubblico, alta scienza «disinteressata», gusto libertario dell’innovazione, sono la premessa del salto economico che internet farà fare al valore del sapere e dell’informazione nei processi economici. Ma le possibilità economiche divenute disponibili a seguito di questa scoperta e la sua rapidissima utilizzazione nei percorsi di finanziarizzazione dell’economia e di destrutturazione degli spazi pubblici di regolazione, entrano rapidamente in contraddizione con le sue stesse basi fondative: il tempo reale dell’economia e della finanza mal si concilia coi tempi della ricerca scientifica disinteressata; la finalizzazione rapida alla realizzazione di valore economico dei risultati della ricerca erode quegli spazi di libertà e di autonomia necessari alla scoperta innovativa e alla stessa organizzazione strutturata dell’informazione e della comunicazione. Il potere della tecnologia è usato per servire e rafforzare la tecnologia del potere: si apre la caccia ai tempi morti nella storia delle imprese e in quelle delle persone, attraverso un uso neotayloristico delle possibilità aperte dallo sviluppo scientifico.

Nel recente saggio di Daniel Cohen «I nostri tempi moderni», il cui significativo sottotitolo recita «Dal capitale finanziario al capitale umano», l’autore paragona la rivoluzione informatica «a quella che fu l’abbandono del maggese all’alba del XVIII secolo, quando i contadini impararono a effettuare la rotazione delle colture per evitare di lasciare, ogni tre anni, le terre incolte».1 Oggi si cerca di evitare di mettere a maggese le risorse umane. Ma il mondo che ne deriva, come ci ammonisce lo stesso «The Economist», rischia proprio per questo di diventare «un mondo tossico» che impedisce la riproduzione di quello stesso sapere che lo ha fatto nascere. Il sapere per svilupparsi, nei luoghi della sua produzione e della sua riproduzione, come nei luoghi del lavoro e della vita in cui è messo alla prova, ha bisogno di autonomia e di libertà. Queste parole compaiono ossessivamente anche nelle prediche dei guru neoliberisti, e persino nelle sortite su questo terreno del ministro Moratti. Ma la libertà e l’autonomia è garantita, in quella logica, esclusivamente dal mercato. Si è liberi nella misura in cui il nostro lavoro è immediatamente redditizio; si è autonomi se ci si confronta con le leggi inesorabili del mercato. È a partire da qui che appaiono le coppie contrapposte di privato contro pubblico, di ricerca applicata contro ricerca di base, oltre ogni evidenza del reale stato delle cose, e nonostante i ripensamenti in corso nella stessa patria del neoliberismo, dove il presidente Bush afferma essere «la ricerca di base il patrimonio competitivo fondamentale del paese». Ed è a partire da qui che il lavoro per produrre sapere, come il lavoro che utilizza sapere, viene precarizzato, messo a disposizione, dichiarato autonomo poiché si rifiuta ogni responsabilità per curarlo e farlo crescere. Anche contro ogni logica vera di produttività e di flessibilità.

Un recentissimo studio americano indica che la produttività scientifica è correlata alla stabilità e alla continuità dell’applicazione; e d’altro canto, da una recente ricerca sui call center emerge che i centri dove il lavoro è più precario e instabile sono quelli più rigidi nei confronti delle domande dell’utenza, mentre quelli più flessibili, più attenti alla soddisfazione del cliente, sono quelli che possono contare su manodopera più stabile, il cui sapere è internalizzato nei moduli organizzativi dell’impresa. Dobbiamo affermare con estrema chiarezza la necessità di un grande spazio pubblico della ricerca, dell’educazione, della formazione, come garanti di prima istanza delle esigenze di libertà e di autonomia di cui il sapere ha bisogno per riprodursi ed innovarsi, e di cui hanno bisogno le stesse imprese che scelgono per la competizione la strada dell’innovazione e della qualità. Questo spazio pubblico è oggi lo snodo fondamentale del rapporto fra Stato e mercato, oltre le logiche puramente redistributive e risarcitorie che hanno caratterizzato il welfare state dell’epoca fordista. Uno spazio pubblico nazionale, ma immediatamente aperto a una logica sovranazionale ed europea. Uno dei punti fondanti, come indicò Jacques Delors, dell’identità europea.

È in corso oggi un’accesa discussione sulla rigidità del Patto di stabilità. Prima che questo diventi il modo per supplire alla palese impossibilità delle politiche neoliberiste di raggiungere i risultati per cui erano state varate – lo sviluppo attraverso la deregolazione, il risanamento abbattendo il carico fiscale – è necessario mettere in campo una nostra proposta, in cui la flessibilità del Patto sia collegata alla necessità di forti investimenti sul terreno della ricerca e della formazione, dell’infrastrutturazione materiale e immateriale del continente, alle condizioni necessarie e imprescindibili perché il Patto di stabilità diventi veramente un Patto per la stabilità e lo sviluppo. Uno spazio pubblico radicato sul territorio, ma che parla al mondo. Le università, i centri di ricerca, le scuole, possono essere – come già succede in molti casi – i luoghi in cui il sapere locale si fonde con il mondo, la connessione indispensabile per trasformare in prodotti, in servizi, le idee e le scoperte che circolano nelle reti globali del sapere, e per rendere universalmente fruibili i saperi espliciti ed impliciti che costituiscono l’identità del territorio. Uno spazio pubblico da riaffermare, ma anche da rivisitare e riformare profondamente, se vogliamo interagire col salto di qualità che l’economia e la società del sapere ci propongono.

Di fronte al ruolo decisivo che scienza e cultura stanno sempre più assumendo nella produzione di valore economico e sociale, forte è la tentazione per chi produce sapere di ritirarsi negli spazi collaudati in cui l’autonomia coincide spesso con l’autoreferenzialità. La vecchia società lo permetteva. Lo permetteva la solida divisione del lavoro che distingueva la ricerca di base dalle sue applicazioni tecnologiche e industriali; la scuola per chi è destinato a pensare da quella di chi è destinato a eseguire; le rigide distinzioni e gerarchie fra i saperi e le discipline. Gli effetti sul lavoro e sulla vita dell’essere ricercatori o insegnanti poteva essere quasi messo fra parentesi. Ma oggi non è più così, sia per la ricerca sia per la scuola. Ed è proprio il peso crescente del sapere sullo sviluppo dei paesi e dei continenti e sulla vita delle persone che mette in discussione l’autonomia come autoreferenzialità; e impone strumenti nuovi di governo del sistema, pena l’essere risucchiati nella pura logica del mercato e dell’individualismo competitivo. La progettazione del nuovo spazio pubblico della ricerca non può prescindere dal confrontarsi con l’evidenza che tutta la ricerca ha oggi una vicinanza molto maggiore ai contesti applicativi, che è caratterizzata da una marcata interdisciplinarietà, da una crescente eterogeneità degli attori e delle istituzioni coinvolte, e infine da un livello crescente di «riflessività» e di «responsabilità sociale». Lo spazio pubblico va ridefinito a partire da questi nodi. Le passate stagioni di governo indicarono nella triade programmazione-autonomia-valutazione la bussola per orientarci nel cambiamento.

Primo. Programmazione intesa come assunzione di un ruolo chiaro della politica nel definire le priorità su questo terreno, le ricadute di queste scelte sullo sviluppo, sull’ambiente, nella vita delle persone. Una politica che tenga assieme i diversi livelli di governo e la comunità scientifica, e che sappia coinvolgere la popolazione in un dibattito pubblico il più ampio possibile sulle ricadute sociali, sulle implicazioni morali, delle scelte che si fanno. La comunità scientifica deve assumere come proprio compito primario quello di rendere possibile ad una vasta «opinione pubblica» di intervenire sulle opportunità e sui rischi connessi al proprio operato. Secondo. Autonomia come assunzione di responsabilità piena di ciascuna istituzione di ricerca e di formazione per il conseguimento dei propri obiettivi, interfacciandosi ai contesti globali e locali in cui è inserita. Terzo. Valutazione come individuazione di parametri di misurazione della produttività di un lavoro, individuale e collettivo, che ha per fine primario quello di produrre e riprodurre liberamente sapere e cultura, ma di cui è essenziale definire i parametri proprio perché respingiamo l’idea del mercato come valutatore unico. Abbiamo su questi terreni esempi internazionali importanti. La Gran Bretagna di Blair ci consente di misurare la distanza dal liberismo deregolatore della Thatcher. Ma anche l’avvio di esperienze importanti nel nostro paese minacciate di essere spazzate via dal neoliberismo di ritorno del nostro governo che si avvia ad intraprendere la stessa strada che durante i governi Thatcher portò al collasso del sistema dell’università e della ricerca. Il rilancio di uno spazio pubblico così configurato ci consente di ragionare, nelle condizioni mutate, lo stesso rapporto fra scienze e discipline umanistiche, di riprendere il dialogo fra «le due culture».

Per il neoliberismo la questione è semplice. Se i finanziamenti per la ricerca sono rapportati ad un utile immediato e alla spendibilità rapida sul mercato, le discipline umanistiche vedranno una rapida contrazione delle risorse a loro dedicate; le loro «applicazioni» – i libri, l’arte, il cinema, il teatro – troveranno anch’esse nel mercato un valutatore di ultima istanza, capace di discernere «ciò che è vivo e ciò che è morto» nel patrimonio culturale, passato e presente, del nostro paese. È indubbio che la cultura stia acquisendo un crescente valore economico. Sia nella produzione, connessa al valore dei linguaggi simbolici, dei fattori immateriali nella produzione delle «cose» sia nel consumo, per la «sete» di contenuti a cui attingere e da mettere in circolo, dell’industria dell’informazione e della comunicazione. Ma questo valore economico può essere salvaguardato solo se viene risolutamente difeso e rilanciato il valore «pubblico» della cultura, ovvero l’indipendenza e l’autonomia e il valore fondamentale che essa riveste per la crescita civile, sociale, politica del paese. Il nostro patrimonio culturale non può essere ridotto ai beni più immediatamente sponsorizzabili e vendibili, quelli capaci di attivare investimenti privati, isolati dai loro contesti e connessi dalla loro appetibilità e vendibilità. La peculiarità del nostro paese è proprio la grande diffusione del patrimonio culturale, la ricchezza del contesto in cui le grandi opere sono inserite. Un contesto fatto di opere minori, di manufatti di grandissimo valore artigianale e storico, di tessuti, di edifici, di paesaggi e di pietre che è stato preservato e reso visibile dall’intervento pubblico, e di un privato sociale non orientato al profitto. Questo patrimonio diffuso è un elemento essenziale del patto di cittadinanza che tiene insieme le persone su un territorio, su uno Stato e lega tra loro le generazioni. Ed è allo stesso tempo una risorsa su cui il territorio può contare per crescere civilmente ed economicamente e pensare il proprio futuro. Questo patrimonio è dunque una risorsa operante e viva perché poggia su una cultura pubblica della salvaguardia e della promozione.

Al contrario, la cultura neoliberista di questo governo rischia non solo di far perdere il passo con l’innovazione scientifica e tecnologica al nostro paese, ma anche di metterne in discussione il livello di sapere, di cultura, di bellezza. D’altro canto oggi l’arte, il cinema, il teatro, la musica e le parole non possono non fare i conti con il vasto mondo dell’audiovisivo. La televisione, internet, i linguaggi multimediali sono divenuti lo strumento più importante per la diffusione della cultura. Del carattere progressivamente meno elitario che la contraddistingue e la rende più aperta a un consumo vasto e popolare. Ma anche il modo attraverso cui il mercato – questo particolare mercato – seleziona e promuove, rende accessibile ed esclude. E questo mercato, così come oggi si presenta, ancora dominato dalla televisione generalista, tende inesorabilmente ad appiattire sugli standard della mediocrità la produzione dei contenuti, a ridurre a «format» le idee e le esperienze, a rispondere e a riprodurre un gusto «standard» che è il contrario della creatività e dell’innovazione. Un livellamento strisciante nella produzione dei contenuti che costituisce di fatto il limite maggiore al decollo di un consumo di audiovisivi più personalizzato e interattivo. I contenuti nuovi sono merce rara, e la merce oggi disponibile in abbondanza difficilmente può sorreggere il passaggio dalla televisione generalista alle nuove potenzialità che oggi le tecnologie rendono possibili.

Si possono fare sei reti televisive più o meno simili, non duecento. Anche per questo, per confrontarsi col futuro e non solo per difendere il passato, è necessario che il pubblico abbia una politica volta a incentivare la creatività, la tutela della diversità culturale, a costruire l’ambiente favorevole all’espressione e allo sviluppo della cultura, senza sostituirsi ai soggetti o determinarne i comportamenti. Possiamo contare su esempi importanti, radicati nelle città, interpreti creativi dei processi di cambiamento. Basti pensare ai luoghi romani della creatività giovanile, a Macro, a Enzimi  per esempio, luoghi in cui si avvicinano e si confrontano culture diverse e lontane, o ai giovani torinesi dei Docks Dora, alla Fondazione Re Rebaudengo, luoghi in cui si ripensa attivamente la storia e il futuro della città industriale, in cui si coniugano tecnologia e creatività, valori civili nuovi e potenziali, valori economici.

Tenere aperte queste possibilità, la libertà e la creatività che le animano, costruire le reti che ne rendono possibile il collegamento in orizzontale, pensare a una trasformazione della struttura e del mercato dell’audiovisivo che di queste esperienze possa alimentarsi, ritengo che sia per la sinistra almeno altrettanto importante della difesa degli spazi «acquisiti» nella televisione verticale e generalista. La linea politica di chi ci governa ha una sua perversa coerenza. L’affidare all’erosione dei diritti e alla deregolazione il ruolo trainante per competere nell’economia globale è coerente con il taglio, nella finanziaria, delle risorse destinate alla ricerca, all’università, alla scuola pubblica. Altrettanto chiara e coerente deve essere la nostra risposta: solo un forte investimento in cultura, in ricerca, in formazione può garantire uno sviluppo di qualità, nei prodotti, nei processi, nei servizi, capace di tenere insieme economia e diritti di cittadinanza, crescita economica e sostenibilità sociale ed ambientale. Di reagire ai nuovi rischi dell’economia globale e della società della conoscenza, generando nuove sicurezze e nuove opportunità nel sistema e nella vita delle persone. Sapendo con chiarezza che un’economia e una società basata sulla conoscenza può essere portatrice di ineguaglianze, di insicurezze, altrettanto forti e terribili rispetto a quelle che ci siamo lasciati alle spalle. Ma proprio per questo la riaffermazione del valore dell’eguaglianza non può non assumere come priorità la tematica del sapere, sia quando contrasta il digital divide tra i paesi della terra, sia nel riparametrare gli indicatori del benessere, sfuggendo alla tirannia ideologica del PIL pro capite come misuratore unico dei livelli di sviluppo di un paese.

In «Sviluppo e libertà» Amartya Sen spiega perché il livello di istruzione, e più precisamente il livello di istruzione delle donne, è l’indicatore che meglio di ogni altro si correla con l’andamento demografico, la maggiore o minore mortalità infantile, la stessa possibilità di innestare circuiti virtuosi di microimprenditorialità autogestita, nei paesi più poveri nel Sud del mondo.2 La diffusione del sapere, l’assicurare a tutti la possibilità di crescere culturalmente e professionalmente, di cogliere le opportunità presenti nei rischi che il cambiamento porta con sé, è la condizione decisiva – non esaustiva, ma fondante – per rendere effettivi il diritto al lavoro, alla cittadinanza democratica, per tenere insieme, a sinistra, le idee forza della libertà e dell’eguaglianza. E ciò è stato sancito dall’Europa a Lisbona e confermato nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea adottata a Nizza, in cui la formazione estesa a tutto l’arco della vita, è indicata come l’architrave fondamentale per affrontare, congiuntamente e in modo socialmente sostenibile, il lavoro che cambia e la vita che si prolunga.

Non può dunque che colpire l’assenza nella legge del ministro Moratti di ogni riferimento alla formazione permanente. Non si tratta di una mancanza da poco: l’idea di una rottura della rigida distinzione delle fasi della vita (l’età dello studio, poi quella del lavoro, poi quella della pensione), l’idea di una formazione che accompagni l’intera esistenza delle persone non solo per esigenze connesse ai cambiamenti del lavoro, ma anche per il gusto di crescere, per rendere più bella e libera la vita, deve ridefinire l’insieme dei percorsi formativi. La scuola, la formazione professionale, l’università stessa, non possono più pretendere di fornire al lavoro e alla vita prodotti finiti culturalmente e professionalmente, ma persone che abbiamo acquisito nella scuola il gusto per l’apprendere, e le conoscenze culturali e professionali necessarie per farlo. Da qui deriva la critica principale alla canalizzazione precoce, alla dualità rigida fra istruzione e formazione professionale che la Moratti propone nel suo progetto di legge: bloccare e impoverire le possibilità delle persone, limitare la loro libertà di cambiare e di scegliere, non solo nei percorsi formativi, ma per tutta la vita. Ma è necessario, anche da parte nostra, un salto di qualità. La logica della formazione permanente, che integra studio e lavoro, sapere e saper fare, che parte dalle qualità e non dalle carenze delle persone con cui si confronta, è la stessa che può costruire la scuola di tutti e di ciascuno nell’infanzia, evitare la dispersione nella scuola dell’adolescenza, assicurare a ciascuno il successo formativo possibile. E la formazione permanente è l’elemento chiave per ridefinire un nuovo patto sociale, e per ripensare la responsabilità sociale dell’impresa.

I fiumi, in molti paesi d’Europa, sono tutelati da una normativa che impone ai comuni attraversati di non aumentare il tasso di inquinamento, ma di esercitare un attivo ruolo per ridurne l’inquinamento. Perché non pensare che questo debba valere anche per le persone, che transitano per posti di lavoro diversi e vedono cambiare le loro occupazioni per effetto del cambiamento tecnologico e organizzativo? Un nuovo patto può partire da qui: l’impresa deve essere in grado di dimostrare – soprattutto quando dichiara esuberi, quando mette in mobilità le persone – di avere fatto tutto il necessario, con il concorso del sindacato e con il sostegno delle istituzioni pubbliche, per preservare e incrementare le professionalità di chi lavora. L’incivilimento del capitalismo, nell’economia della conoscenza e della personalizzazione del lavoro, forse può cominciare proprio da qui.

Nonostante Berlusconi, Tremonti, la Moratti, e nonostante D’Amato, sono tante le imprese, grandi e piccole, che hanno scelto la strada della innovazione e della qualità. È in Italia, nel Mezzogiorno, la StMicroeletronics, che è uno degli esempi più alti e riusciti di connessione fra impresa, ricerca scientifica e università, capace di affrontare in maniera vincente la sfida della globalizzazione, scommettendo sulla intelligenza diffusa del Mezzogiorno, più che sul basso costo del lavoro. Di recente sono stati varati, tramite accordi fra tutte le parti sociali, i fondi per la formazione continua, a dimostrazione di un bisogno reale, che resiste alle divaricazione e alle rotture della fase. Ed è in Italia che ENEA, CNR in collaborazione con l’università di Roma, progettano la svolta dell’idrogeno, connettendo strettamente ricerca di base e conoscenze applicative. Sono in Italia le università dell’autonomia che hanno cominciato a progettare il cambiamento, e resistono alle pressioni, ad un tempo deregolatrici e centralistiche, del governo in carica. E ancora è in Italia che la riforma della scuola vive in un proprio spazio, tutelato dal titolo V della Costituzione, che dà all’autonomia scolastica dignità costituzionale, e assegna compiti fondamentali alle regioni, alle province, ai comuni. E nonostante le proposte controriformatrici del ministero, sono tante le scuole italiane che sperimentano sul territorio l’integrazione fra istruzione e lavoro, fra cultura di base e cultura professionale; accolgono nelle scuole elementari bambini di etnie e di culture diverse, combattono il razzismo e il fondamentalismo.

La cultura riformatrice che abbiamo innescato con la precedente stagione di governo si dimostra su questo terreno, tenace e resistente. Costruire un programma non significa limitarci a enunciare le nostre mosse a breve termine se gli italiani ci richiameranno a governare, ma assumerci oggi tutte le nostre responsabilità a tutti i livelli per far durare e orientare il cambiamento in atto; assieme a quelli che oggi ne sono i protagonisti. Il popolo ci misurerà non sulla base di quello che prometteremo, ma sulla nostra capacità di evitare oggi il degrado e di dare – oggi – una sponda alle riforme che ci sono e avanzano nonostante gli sforzi del governo per cancellarle. Ed è soprattutto per questo motivo che è urgente elaborare un programma.

 

 

Bibliografia

1 Cfr. D. Cohen, I nostri tempi moderni. Dal capitale finanziario al capitale umano, Einaudi, Torino 2001.

2 A. Sen, Sviluppo e libertà, Mondadori, Milano 2000.