Le disuguaglianze di genere. Un problema di equità e di vincoli allo sviluppo

Written by Chiara Saraceno Wednesday, 01 January 2003 02:00 Print

«Nel corso degli anni Ottanta e Novanta la questione dell’uguaglianza tra i sessi è stata largamente occultata, a causa dell’aumento delle disuguaglianze sociali e della disoccupazione ma anche delle rapide trasformazioni nella collocazione delle donne nella società e della soppressione degli arcaismi giuridici che in precedenza consacravano un trattamento disuguale degli uomini e delle donne (…). Tuttavia, malgrado miglioramenti incontestabili, l’uguaglianza di fatto tra donne e uomini è ben lontana dall’essere acquisita, tanto più che i mutamenti non sono lineari (…) e che i miglioramenti si accompagnano ad effetti perversi che rafforzano l’oppressione femminile.

 

«Nel corso degli anni Ottanta e Novanta la questione dell’uguaglianza tra i sessi è stata largamente occultata, a causa dell’aumento delle disuguaglianze sociali e della disoccupazione ma anche delle rapide trasformazioni nella collocazione delle donne nella società e della soppressione degli arcaismi giuridici che in precedenza consacravano un trattamento disuguale degli uomini e delle donne (…). Tuttavia, malgrado miglioramenti incontestabili, l’uguaglianza di fatto tra donne e uomini è ben lontana dall’essere acquisita, tanto più che i mutamenti non sono lineari (…) e che i miglioramenti si accompagnano ad effetti perversi che rafforzano l’oppressione femminile. Il posto delle donne nella società (…) appare per questo del tutto contraddittorio e aperto a possibilità multiple, perché i contestabili progressi raggiunti nei decenni scorsi restano incompleti e fragili». Queste osservazioni riguardano la Francia1. Ma si attagliano perfettamente anche alla situazione italiana, dove la presenza delle donne nelle sedi di presa di decisione economica e politica è a livelli minimi e stabili nel tempo, nonostante da almeno vent’anni il gap nell’istruzione sia stato colmato e tra le generazioni più giovani le donne riescano meglio degli uomini in tutti i campi di studio. A differenza che in Francia, inoltre, la questione delle pari opportunità e dell’uguaglianza continua a rimanere fuori dell’agenda politica e raccoglie poco più che un’attenzione distratta. E anche nel campo dell’organizzazione della vita quotidiana le donne italiane ricevono meno sostegni di quelle francesi sotto forma di servizi (e in generale i genitori meno riconoscimento economico del costo dei figli). Di conseguenza, hanno sia un tasso di occupazione che di fecondità più basso non solo di quello francese, ma tra i più bassi al mondo.

Mentre, infatti, fino a tutti gli anni Settanta nei paesi sviluppati c’era un nesso inverso tra tasso di occupazione femminile e tasso di fecondità, perciò il tasso di fecondità era più basso nei paesi a più alto tasso di occupazione femminile, questo non era già più vero alla fine degli anni Novanta. Oggi sono i paesi a più alto tasso di occupazione femminile – in Europa i paesi scandinavi, ma anche la Francia – a mostrare anche i più alti tassi di fecondità, benché sempre sotto il livello di sostituzione. Viceversa i paesi a più basso tasso di occupazione femminile sono anche quelli a più bassa fecondità. La spiegazione di questo apparente paradosso sta nel basso livello di eguaglianza in un contesto sociale e culturale in cui le donne invece se la aspettano in misura crescente, ed anche nella scarsità degli strumenti di conciliazione tra responsabilità familiari e impegni professionali e di altro genere in società che ancora affidano largamente alla famiglia e alla sua divisione del lavoro in base al genere il soddisfacimento di tutti i bisogni di cura degli individui, dalla prima infanzia alla vecchiaia. In questo contesto, le scelte tra occupazione e riproduzione appaiono troppo spesso come alternative secche; o meglio, si ritiene di non potersi permettere di avere più di un figlio.

Non voglio sostenere con questo che le scelte di fecondità dipendano esclusivamente dalla situazione delle donne. Accanto al mancato sostegno al costo dei figli vi è anche la lunga permanenza, e spesso dipendenza economica, dei figli, maschi e femmine, in famiglia e i mutamenti nella modalità di ingresso nel mercato del lavoro, divenute più precarie anche per gli uomini giovani. E neppure intendo sostenere che le scelte individuali in favore di una fecondità ridottissima non siano legittime o siano meno eticamente valide di quelle di una fecondità più numerosa. Piuttosto sostengo che le questioni connesse alla disuguaglianza di genere hanno un ruolo cruciale in queste decisioni e comportamenti. Ciò che succede nel mercato del lavoro, se non esaurisce certo l’insieme dei fenomeni cui si riferiscono i ricercatori francesi, rappresenta un buon osservatorio.

L’Italia è uno dei paesi europei a più basso tasso di occupazione femminile, sebbene l’aumento nel numero di occupati degli ultimi anni sia dovuto all’incremento dell’occupazione femminile. Gli ultimi dati disponibili segnalano infatti che nel periodo 1993-2001 il tasso di attività femminile è cresciuto di più di 5 punti percentuali, passando dal 41,9% al 47,3% (mentre quella maschile è rimasta pressoché stabile e con qualche segnale di diminuzione, dal 73,8% al 73,6%). Rimane tuttavia ampiamente al di sotto della media europea ed anche dell’obiettivo del 60% che tutti i paesi membri dovrebbero raggiungere nel 2006. Ciò è dovuto in larga misura alla bassissima partecipazione al mercato del lavoro delle donne adulte in età matura (ultracinquantenni) non già a causa del fenomeno del pensionamento precoce, quanto al fatto che esse appartengono alle coorti per le quali il modello di casalinga a pieno tempo e di dedizione univoca alle responsabilità familiari ha fortemente segnato le strategie di vita adulta2. È altamente irrealistico sia persuadere queste donne a presentarsi in massa sul mercato del lavoro, che trovare datori di lavoro disponibili ad assumerle, tanto più che spesso sommano alla mancanza di esperienza professionale anche una bassa istruzione di partenza. È quindi assolutamente impossibile che l’Italia possa presentarsi all’appuntamento del 2006 avendo realizzato l’impegno incautamente preso in sede europea di portare il tasso di occupazione femminile appunto al 60%.

Ciò chiarito, non va sottovalutato il fatto che anche tra le coorti più giovani non solo esistono forti differenze nei tassi di partecipazione e di occupazione a livello territoriale e per grado di istruzione, ma che molte donne continuano ad abbandonare il lavoro alla nascita del primo figlio e talvolta anche solo dopo il matrimonio. Più che in altri paesi, infatti, la conciliazione tra responsabilità familiari e partecipazione al mercato del lavoro continua ad essere considerata non solo un «affare di donne», ma un «affare privato». I dati più recenti sulle Forze di Lavoro3 segnalano che la quota di donne che abbandona temporaneamente o provvisoriamente il lavoro per motivi familiari è costante da una coorte all’altra e se diminuisce, tra le coorti più giovani, la motivazione matrimonio, rimane forte quella relativa alla nascita di figli. Ad esempio, nella coorte che ha attualmente 30-39 anni, tra le nubili il tasso di attività è di poco inferiore a quello dei loro coetanei: 89,7%. Esso diminuisce di quasi 11 punti nel caso delle coniugate senza figli e di altri 23 tra le coniugate con figli, il cui tasso di attività scende al 56%. Con tassi di attività più bassi, le donne coniugate con figli hanno viceversa tassi di disoccupazione più alti non solo degli uomini, ma delle donne senza figli. Anche la forte femminilizzazione dell’aumento della occupazione part time negli ultimi anni, non è priva di problemi. Indica infatti che da parte non solo dei policy makers, ma anche dei datori di lavoro e dei lavoratori, la conciliazione continua ad essere un problema che riguarda esclusivamente le donne. Benché il part time non sia in linea di principio riservato alle donne, sono queste ad occupare in stragrande maggioranza le posizioni che lo prevedono e tutto l’aumento intervenuto in questi cinque anni è dovuto solo a loro. Non può quindi sorprendere che il genere (l’essere donne), lo status familiare (l’essere sposata, l’essere madre) riducano le chances occupazionali future delle lavoratrici part time rispetto ai lavoratori e alle lavoratrici full time 4. Non è il part time per sé che riduce queste chances, ma le specifiche ragioni per cui lo si fa: conciliare responsabilità lavorative e familiari.

L’effetto negativo della presenza di responsabilità familiari è più alto per le donne a bassa qualificazione e che vivono nel Mezzogiorno rispetto a quelle con titolo di studio medio-alto e che vivono nel Centro-Nord. Come segnalato anche da altre ricerche, l’istruzione per le donne appare ancora più importante che per gli uomini a fini occupazionali e come fattore di differenziazione sociale: incide infatti non solo sul tipo di lavoro cui si può aspirare ma anche sulla possibilità stessa di rimanere nel mercato del lavoro, a parità di ogni altra condizione. Le donne con istruzione più alta che vivono nel Centro-Nord sono più in grado delle altre di rimanere nel mercato del lavoro lungo il ciclo di vita familiare; anche se, come segnalano i dati sui differenziali salariali, «pagano» questa maggiore capacità di durata con differenziali salariali rispetto agli uomini con pari qualifiche più elevati di quelli che si riscontrano nelle qualifiche più basse.

Conciliare responsabilità familiari e lavorative per le donne è reso difficile non solo da orari di lavoro poco amichevoli e dalla mancanza di servizi adeguati, ma anche, se non soprattutto, dalle aspettative e dai comportamenti dei familiari, innanzitutto dei mariti/padri dei loro figli. Tutte le ricerche sull’uso del tempo segnalano che se si somma il tempo dedicato al lavoro familiare a quello dedicato al lavoro remunerato le donne occupate e con responsabilità familiari lavorano dalle 9 alle 15 ore alla settimana in più rispetto ai loro compagni. E ciò è rimasto costante negli ultimi dieci anni. Il maggior carico di lavoro familiare per le donne da un lato riduce il tempo che esse possono dedicare al lavoro remunerato, e anche il raggio di occupazioni che possono prendere in considerazione – in termini di distanza, orari di lavoro, ecc. Dall’altro lato le espone al rischio di essere viste dai datori di lavoro come lavoratrici inaffidabili e/o più costose.

Modificare questa situazione, aumentando i gradi di libertà per le donne e favorendo modelli di genere, maschile e femminile, meno rigidi, richiede interventi a più livelli, altrettanto «sistemici» dei meccanismi che continuano a riprodurre, aggiornandola, la disuguaglianza di genere: nelle forme di regolazione del mercato del lavoro, nella offerta di servizi, nei modelli culturali e di socializzazione. In particolare vi è uno spazio per le politiche sociali per quanto riguarda sia il riconoscimento del valore del lavoro di cura svolto gratuitamente nella famiglia, sia una diversa distribuzione di questo lavoro tra famiglia e collettività che rispetti non solo la domanda di tempo, ma anche quelle di qualità e sicurezza, oltre che di accessibilità economica, che spesso frenano l’utilizzo di questi servizi. Due sono i settori cruciali di domanda di cura rilevanti da questo punto di vista: la prima infanzia e la non autosufficienza in età anziana.

Per quanto riguarda i servizi per la primissima infanzia i dati più recenti indicano un tasso di copertura (includendo sia i nidi pubblici che quelli privati) del 7,4% nel 20005. Si tratta di una percentuale molto inferiore a quella relativa al tasso di partecipazione al mercato del lavoro delle madri con figli di questa fascia di età: circa il 48% a livello nazionale nella seconda metà degli anni Novanta secondo i dati della Indagine Multiscopo ISTAT del 1998. È vero che molti genitori, molte madri, possono preferire soluzioni alternative al nido per i bambini molto piccoli, e in particolare possano preferire il ricorso alla rete parentale, alle nonne, che nel nostro paese continuano a rimanere ampiamente disponibili, anche a motivo della già ricordata alta incidenza di casalinghe anche tra le nonne più giovani. Tuttavia nel futuro prossimo le coorti di nonne più giovani saranno sempre meno disponibili per la cura a pieno tempo dei loro nipoti, dato che esse stesse rimarranno sul mercato del lavoro in percentuali crescenti e per un tempo più lungo. In questa prospettiva si può accogliere positivamente l’incentivo dato alle aziende nella Finanziaria per il 2003 perché organizzino nidi o micro-nidi aziendali. Tuttavia non va trascurato il fatto che le giovani generazioni, quelle che in linea di principio sono nell’età di essere genitori di bambini piccoli, sono presenti in modo sproporzionato nei contratti di lavoro atipico, e che le donne tendono a rimanervi più a lungo degli uomini. Perciò è l’offerta pubblica o di mercato sociale che va innanzitutto sostenuta. Peraltro, i problemi di cura non cessano con l’entrata del bambino nella scuola dell’obbligo. Da questo punto di vista, tra le cose discutibili del progetto di riforma della scuola proposto dal governo, è da segnalare la complessiva riduzione del tempo scuola e lo spostamento di tutte le attività al di sopra del tempo standard in attività che la scuola può offrire su base opzionale e a pagamento – aggravando sia i costi finanziari che organizzativi delle famiglie, che ricadranno sproporzionatamente, i secondi almeno, sulle spalle delle madri.

Se passiamo ai bisogni che riguardano l’estremo opposto del ciclo di vita, quelli degli anziani fragili e non autosufficienti, le cose non vanno meglio. Anche se ad occuparsene al momento non sono tanto le donne in età riproduttiva quanto le donne sessantenni: – le nonne, che sono ancora figlie – e le più vecchie ancora, come mogli. La maggioranza degli anziani fragili è infatti accudita vuoi da un coniuge, pure anziano e talvolta anch’esso fragile, o da un parente, di solito donna: una figlia, una nuora, a casa propria o a casa di questa6. Date le trasformazioni demografiche e lo squilibrio numerico nei rapporti tra le generazioni entro la parentela, questa «soluzione» sarà sempre meno agevolmente disponibile e neppure si può pensare di sostituirla puramente e semplicemente ricorrendo più o meno malvolentieri alle «badanti» immigrate, in una riedizione aggiornata della tradizionale divisione del lavoro tra donne di classe diversa. Non perché la cosa sia in sé disdicevole, ma perché non è una risposta adeguata all’entità del bisogno. Per evitare sia l’esplosione dei bilanci pubblici e familiari, che l’esplosione delle reti familiari, occorre affrontare la questione della domiciliarietà e dei servizi «in rete» in modo molto più sistematico e di massa di quanto non avvenga ora. E la critica alla forte connotazione di genere di questo tipo di responsabilità è un buon punto di partenza per scompigliare le carte e sviluppare approcci più adeguati.

Il riequilibrio delle responsabilità del lavoro di cura non riguarda tuttavia solo l’offerta di servizi, ma anche la divisione di genere del lavoro e delle responsabilità familiari. Questa non può, ovviamente, essere oggetto di prescrizioni normative. Ma le norme, in particolare le forme di regolazione della prestazione lavorativa e dei congedi, non sono neutrali. Esse possono cristallizzare la divisione tradizionale del lavoro, o viceversa incentivarne la modifica, se le persone lo desiderano. Alcune importanti innovazioni legislative della seconda metà degli anni Novanta, sollecitate da direttive europee, in particolare la legge 53/2000 sui congedi genitoriali, sono andate appunto in questa seconda direzione. La legge 53, infatti, favorisce una visione della combinazione tra responsabilità familiari e responsabilità lavorative come aspetto normale della vita di chi lavora, e non come specificità negativa femminile. Naturalmente, perché questa legge dispieghi tutti i suoi effetti occorrerà tempo e allo stesso tempo dovranno mutare stereotipi di genere maschile, che possono indurre a valorizzare un lavoratore che prende decisioni (andare in congedo) ritenute «da donne». È questo un campo di azioni positive (di promozione di cambiamenti nei comportamenti e scelte maschili) del tutto inesplorato e che viceversa andrebbe pensato e sviluppato.

Il campo di applicazione della legge 53/2000 è pressoché solo quello del lavoro dipendente. Benché i mariti lavoratori dipendenti di lavoratrici autonome ecc., a differenza che in precedenza, possano ora prendere il congedo genitoriale, le questioni della conciliazione e della flessibilizzazione degli orari di lavoro si pongono in modo diverso nel caso del lavoro autonomo e libero-professionale. Ciò vale, a maggior ragione verrebbe da dire, per i vari tipi di contratto di lavoro non standard che vedono una forte presenza di giovani uomini e donne in età riproduttiva. Questi rapporti di lavoro, infatti, o non includono alcuna misura di protezione della maternità e di sostegno alla conciliazione (nel caso ad esempio di chi ha partita IVA), o ne hanno, ancorché in misura ridotta; ma operano in un contesto in cui è difficile utilizzarli. Una giovane lavoratrice coordinata e continuativa, ad esempio, difficilmente potrà permettersi di prendere anche solo il periodo di congedo obbligatorio (e infatti non è obbligata), perché l’assegno di maternità è troppo basso. Ancora meno potrà permettersi di stare fuori dal mercato del lavoro per un periodo più lungo, non solo per motivi economici ma di propria collocazione professionale. Nelle discussioni sulla flessibilità nel mercato del lavoro questi effetti sulle questioni della conciliazione, in particolare per le donne, sui gradi di vulnerabilità aggiuntiva che potrebbero introdurre proprio nei loro confronti, meriterebbero di essere meglio messi a fuoco da tutte le parti in causa.

Credo che si possa dire che in Italia, nonostante una crescente attenzione e qualche importante innovazione legislativa, le questioni delle pari opportunità, dell’uguaglianza di genere e della conciliazione tra lavoro familiare e lavoro remunerato sono ancora ben lontane dall’essere una priorità nell’agenda del policy making italiano. Oggi come ieri, nel migliore dei casi si tratta di dimensioni aggiuntive, che non informano realmente il nucleo centrale delle politiche. C’è ancora molta ambivalenza, anche a sinistra, su questi temi – uguaglianza di genere e conciliazione – sia per quanto riguarda le donne che, forse ancora di più, per quanto riguarda gli uomini: rispetto al considerare anche gli uomini come lavoratori che hanno responsabilità di cura familiare.

A ciò si aggiunga che il ruolo sempre più importante affidato al ricorso alla prova dei mezzi familiari per erogare benefici o definire i livelli di compartecipazione alla spesa a livello nazionale e soprattutto locale – cara anche se non soprattutto alla sinistra – può essere in contraddizione con l’obiettivo di aumentare il tasso di partecipazione femminile. L’assenza di una attenzione specifica e continuativa – sostenuta da produzione di dati e statistiche adeguati – per l’impatto di genere di queste ed analoghe misure potrebbe impedire la messa a punto di correzioni che portino ad un migliore equilibrio tra l’obiettivo dell’equità e redistribuzione verticale e quello dell’equità di genere. Parte di questa ambivalenza è culturale, e deriva da modelli radicati relativi sia alla divisione di genere del lavoro, sia alle aspettative circa la solidarietà intergenerazionale. Ma quella ambivalenza è rafforzata dai vincoli imposti dalla necessità di risanare il debito pubblico. Gli investimenti – in servizi innanzitutto – non fatti quando non vi era questo tipo di preoccupazione, divengono più difficili ora. Anche se oramai da molte parti è stato argomentato che un incremento della occupazione femminile sosterrebbe un incremento della domanda di lavoro complessiva: nel settore dei servizi alla persona, del tempo libero, dei servizi «tecnici» alle famiglie (tintorie/lavanderie, imprese di pulizie ecc.).

Come già sottolineato, la questione delle pari opportunità nell’occupazione non esaurisce né le questioni di pari opportunità, né quelle di uguaglianza. Tuttavia aiuta a metterne a fuoco nodi cruciali. Anche «solo» limitandoci a guardare ciò che succede rispetto al mercato del lavoro, emerge chiaro che per promuovere le pari opportunità occorre trasformare modelli e pratiche maschili, così come si sono consolidate a partire dalla divisione del lavoro e dei poteri, tanto, se non più, ormai, di quelle femminili: nella vita privata come nella organizzazione del lavoro, nei comportamenti come nei sistemi di attribuzione di significato e di rilevanza. Finché continueremo a pensare che le pari opportunità e l’uguaglianza di genere debbano dipendere esclusivamente da mutamenti nei comportamenti femminili l’uguaglianza rimarrà lontana, se non impossibile. E la nostra continuerà ad essere una società che comprime, anziché sviluppare, le proprie risorse.

 

 

Bibliografia

1 Cfr. A. Bihr e R. Pfeefferkorn, Homme, Femmes, quelle égalité ?, Les Editions de l’Atelier, Paris 2002.

2 Cfr. anche E. Reyneri, Pensioni, fasce di età, genere e livello di istruzione, in «La voce.info», 9 gennaio 2003 (www.lavoce.info).

3 Cfr. ISTAT, Rapporto annuale 2001, Istat, Roma 2002.

4 Ministero del lavoro e della previdenza sociale, Rapporto di monitoraggio sulle politiche occupazionali e del lavoro II, Roma 2000, pp. 51-54.

5 Cfr. Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza, I nidi d’infanzia e gli altri servizi educativi per i bambini e le famiglie, Istituto degli Innocenti di Firenze, Quaderno n. 21, Firenze aprile 2002.

6 Cfr. ISTAT, Anziani in Italia, il Mulino, Bologna 1997; Osservatorio nazionale sulle famiglie e le politiche locali di sostegno alle responsabilità familiari (a cura di), M. Castiglioni, «Crisi dell’autosufficienza e forme familiari nella popolazione anziana», in Famiglie, mutamenti e politiche sociali vol. II, il Mulino, Bologna 2002, pp. 231-256; V. Buratta e R. Crialesi, «Famiglie con problemi di assistenza e sistema di sostegno», ivi, pp. 285-305