La scuola italiana serve a qualcosa?

Written by Daniele Checchi Tuesday, 01 April 2003 02:00 Print

Quando si confronta l’Italia con altri paesi ad analogo tasso di sviluppo, è ormai quasi rituale riconoscere come il nostro paese sia caratterizzato da bassi livelli di scolarità, anche se le generazioni più recenti sembrano recuperare il ritardo. Questo potrebbe ovviamente dipendere dal fatto che l’Italia è un paese di recente industrializzazione e di tardiva scolarizzazione di massa; infatti, il divario con la media dei paesi OCSE si riduce ma ad una velocità molto bassa. Se la velocità di convergenza rimanesse analoga nel prossimo futuro, potremmo aspettarci che l’Italia raggiunga la media dei paesi OCSE (ma non certo le nazioni con più elevata scolarità) in ottant’anni.

 

La diagnosi

Quando si confronta l’Italia con altri paesi ad analogo tasso di sviluppo, è ormai quasi rituale riconoscere come il nostro paese sia caratterizzato da bassi livelli di scolarità, anche se le generazioni più recenti sembrano recuperare il ritardo. Questo potrebbe ovviamente dipendere dal fatto che l’Italia è un paese di recente industrializzazione e di tardiva scolarizzazione di massa; infatti, il divario con la media dei paesi OCSE si riduce ma ad una velocità molto bassa. Se la velocità di convergenza rimanesse analoga nel prossimo futuro, potremmo aspettarci che l’Italia raggiunga la media dei paesi OCSE (ma non certo le nazioni con più elevata scolarità) in ottant’anni. Il basso conseguimento scolastico è il risultato congiunto di due fattori: basse percentuali di passaggio ai livelli superiori; elevati tassi di abbandono, che hanno sempre caratterizzato le scuole italiane (come sottolineato nel famoso libro a cura di don Lorenzo Milani da Barbiana nel Mugello, Lettera ad una professoressa).1 Se entriamo nel dettaglio di queste transizioni, notiamo che c’è ancora una frazione di giovani che non completa l’istruzione dell’obbligo: questo 3,6% di «evasori scolastici» è principalmente concentrato nelle regioni meridionali, dove in aree degradate gli edifici scolastici sono inidonei, la maggioranza degli insegnanti è precaria e doppi, e perfino tripli turni, sono pratica corrente. Una frazione aggiuntiva di studenti non si iscrive e/o abbandona poco dopo l’iscrizione secondaria (16%) e un ulteriore gruppo non si iscrive ai livelli di scuola post-secondari (21,4%). Tuttavia la produttività scolastica più bassa (o la selettività più alta) in termini relativi appartiene all’istruzione universitaria: solo il 37,8% di coloro che si iscrivono il primo anno di università consegue la laurea, mentre il 77% di coloro che si iscrivono al primo anno della scuola superiore raggiunge un diploma di maturità.

Bassi tassi di conseguimento scolastico ed elevati tassi di abbandono potrebbero non rivelarsi inefficienti se la scuola esercitasse principalmente un ruolo di selezione a beneficio dei futuri datori di lavoro e della società più in generale. Tuttavia noi non troviamo riscontro del fatto che gli studenti che sopravvivono all’interno della scuola italiana conseguano risultati migliori quantomeno in termini di competenze acquisite. Quando andiamo ad analizzare gli esiti formativi, possiamo utilizzare i dati dell’indagine PISA (Programme for international student assessment) condotta nel 2000 in area OCSE. Il rendimento scolastico medio suggerisce che gli studenti italiani siano classificabili tra i peggiori a livello europeo, in una posizione comparabile a quella della Germania e della Polonia, al di sotto della Spagna e al di sopra soltanto di Portogallo e Grecia. Il divario è più ampio nelle competenze matematiche e scientifiche, ma anche nella comprensione dei testi letterari gli studenti italiani si posizionano nella parte bassa della distribuzione tra paesi. La questione che si apre è quindi la seguente: perché gli italiani vanno meno a scuola degli altri europei? E perché quando anche lo fanno, non conseguono risultati soddisfacenti in termini di capacità conseguite? Una delle spiegazioni potenziali ha a che fare con il ruolo limitativo esercitato dall’ambiente familiare. Anche se le generazioni più recenti ne appaiano meno condizionate, tuttavia la forte dipendenza dei livelli di istruzione dei genitori rappresenta tuttora una peculiarità tutta italiana.

 

Il ruolo dell’ambiente familiare

Tra le spiegazioni possibili della bassa scolarità italiana possono essere scartate sia le spiegazioni basate sulla bassa remuneratività di tale scelta (giacché nei confronti internazionali l’Italia non presenta rendimenti dell’istruzione inferiori per esempio a quelli riscontrati nei paesi nordici) che quelle basate sulla scarsità delle risorse pubbliche investite (che anzi in Italia sono superiori a quelle degli altri paesi europei, almeno fino alla scuola secondaria). Nessuna di queste spiegazioni sembra in grado di rendere conto dei comportamenti già descritti, dove si è mostrato come i tassi di abbandono durante la scuola secondaria e l’università e/o i bassi tassi di transizione all’università siano responsabili dello scarso conseguimento scolastico. Per questo motivo in questa sezione ci concentriamo sulle scelte scolastiche all’interno delle famiglie italiane, al fine di ottenere ulteriori informazioni sul problema. Consideriamo come nostra unità di analisi gli individui presenti nell’indagine della Banca d’Italia relativa a diversi anni (1993-1995-1998-2000), con età inferiore ai trent’anni. Per ciascuno di essi è nota la posizione corrente (se studente, in cerca di prima occupazione, disoccupato, occupato o fuori dalla forza lavoro), il titolo di studio massimo conseguito e tutte le informazioni relative alla famiglia di appartenenza (numero dei componenti familiari, reddito, istruzione dei genitori, luogo di residenza). Possiamo così analizzare se e quanto l’ambiente familiare possa influenzare la posizione corrente degli individui. Da questi dati emerge innanzitutto che l’88,8% dei quindicenni transita alla scuola secondaria superiore, ma tale proporzione si riduce al 54,8% all’età di diciannove anni: in questo modo si perde un 34% di potenziali diplomati dalla scuola secondaria. Analogamente il 45,9% si iscrive all’università all’età di vent’anni, ma solo i due terzi di essi sopravvivono dopo quattro anni. Se si ripetesse la stesa analisi per circoscrizioni regionali si scoprirebbe che la mancata frequenza alla scuola secondaria è concentrata nelle regioni meridionali, e ancor di più nelle isole. Mentre l’80% è ancora a scuola all’età di diciotto anni nel nord e centro Italia, la corrispondente cifra è del 70% nelle regioni meridionali e del 60% nelle isole. È anche interessante richiamare che la frequenza scolastica è in media più alta di cinque punti percentuali per le ragazze piuttosto che per i ragazzi.

Se passiamo ad analizzare la frequenza universitaria, possiamo identificare i potenziali studenti universitari ricorrendo a due criteri: se abbiano un’età superiore ai diciotto anni e se abbiano conseguito un diploma di maturità. Nonostante una durata legale dei corsi universitari compresa tra quattro e sei anni, la durata mediana effettiva per il raggiungimento di una laurea è in Italia pari a sette anni. Per questa ragione abbiano considerato come potenzialmente iscrivibili all’università tutti gli individui di età compresa tra diciannove e ventisei anni, in possesso di diploma. Questa strategia di ricerca introduce possibili distorsioni in quanto non abbiamo informazioni su figli/e che non siano residenti in famiglia in quanto frequentanti l’università in una città diversa. Tuttavia sappiamo da altre fonti che l’Italia è caratterizzata da un abbandono tardivo della famiglia, a causa dell’elevato costo abitativo e dell’assenza di sussidi di disoccupazione. Quando prendiamo in considerazione la stima della probabilità di iscrizione all’università, troviamo conferma di quanto già ottenuto nell’analisi della scuola secondaria. Il reddito familiare solo apparentemente favorisce la frequenza universitaria qualora si tralascino le informazioni relative all’istruzione dei genitori, ma esercita un effetto rovesciato quando queste ultime vengano incluse. Se in prima battuta le famiglie italiane possono apparire come vincolate finanziariamente, in quanto le famiglie più ricche tendono a mandare i loro figli all’università più frequentemente, la realtà è che questa scelta è vincolata culturalmente dall’istruzione dei genitori. Il fatto che il reddito familiare eserciti un effetto negativo e statisticamente significativo sulla probabilità di iscrizione potrebbe suggerire che genitori ricchi ma non istruiti sottovalutino l’istruzione universitaria dei propri figli e, a parità di altre condizioni, siano meno inclini a mandarli all’università. È l’istruzione della madre che esercita l’effetto più forte: avere una madre laureata è associato al 39% di probabilità di frequenza universitaria, mentre avere un padre laureato contribuisce solo per il 25%; analogamente una madre con diploma di maturità è associata ad un 19% mentre un padre con titolo simile fornisce soltanto l’11%. Quando introduciamo le variabili relative al tipo di scuola secondaria frequentata: solo la frequenza di un liceo presenta un contributo positivo (pari al 34%) nel favorire la frequenza universitaria. In questo modo aver completato con successo un liceo ha un impatto analogo al possedere una madre laureata nella prosecuzione della carriera scolastica!

L’immagine complessivamente proposta dalle stime è la seguente: gli studenti migliori, provenienti principalmente dai licei, con madre laureata, sono i candidati più probabili all’iscrizione universitaria, indipendentemente dal reddito della famiglia da cui provengono. Di conseguenza la nostra analisi deve rivolgersi alla frequenza della scuola secondaria. Frequentare un liceo sembra fornire sia un segnale di miglior ambiente culturale (dal momento che entrambi i genitori sono in media più istruiti), che competenze aggiuntive efficaci nell’iscrizione e nel completamento dell’istruzione universitaria. Prendiamo le informazioni dall’indagine condotta dall’ISTAT nel 1998 su un campione rappresentativo di 18.843 studenti che avevano completato con successo la scuola secondaria nel 1995. Occorre tener presente che questo campione non è rappresentativo dell’intera popolazione studentesca, dal momento che i diplomati sono autoselezionati verso l’alto. Ciò nonostante, questo è l’unico campione che riporti informazioni sulla precedente esperienza scolastica dei giovani e sul loro background familiare. Utilizzeremo questi dati per analizzare come tali variabili si intreccino nel determinare la scelta della secondaria, che si rivela poi la determinante principale della frequenza universitaria. Da questi dati emerge innanzitutto una positiva correlazione tra ambiente familiare (per come misurato dall’istruzione posseduta dai genitori) e giudizio conseguito all’esame di licenza media. I bambini con genitori che non abbiano completato la scuola dell’obbligo hanno maggior probabilità di ottenere il giudizio più basso (sufficiente – 46,6% dei casi); all’estremo opposto i figli di genitori laureati hanno la massima probabilità di ottenere i giudizi più alti (ottimo – 38,1% dei casi). Ricordiamo inoltre che nell’ultimo anno della scuola media inferiore, quando i ragazzi sono tredicenni, gli insegnanti esercitano un orientamento scolastico a beneficio delle famiglie, allo scopo di favorire la scelta di una scuola secondaria appropriata. Questo orientamento, e le successive scelte familiari, sembrano fondate sulla performance scolastica dei ragazzi, dal momento che la tabella 1 ci mostra come gli studenti migliori vengano tipicamente indirizzati verso i licei, mentre gli studenti meno brillanti sono orientati alle scuole professionali. Dal momento che l’istruzione dei genitori si converte in giudizio scolastico sui ragazzi, e la tabella 1 mostra come questo giudizio sia cruciale per i destini futuri, nasce il sospetto che il destino degli studenti sia pressoché predeterminato dall’ambiente familiare di provenienza.

 Tabella 1

Infine abbiamo voluto verificare se l’istruzione dei genitori abbia un effetto duraturo nella carriera scolastica degli studenti. È, infatti, noto che i tassi di passaggio dalla secondaria all’università sono chiaramente dipendenti dal tipo di secondaria frequentata: mentre gli studenti provenienti dai licei sono pressoché sicuri della propria iscrizione all’università (il 91,3% di essi compie tale scelta), gli studenti provenienti dalle scuole professionali sono altrettanti sicuri del contrario (solo il 17,6% passa all’università). Stimando le determinanti della scelta di iscrizione all’università possiamo tenere conto anche delle informazioni relative alla carriera scolastica precedente. Quello che riscontriamo è che i fattori determinanti sono dati dall’istruzione dei genitori e dal voto di maturità, ma anche dal voto conseguito all’uscita della scuola media. Oltre a questo il tipo di secondaria frequentato gioca un effetto indipendente: a parità di altre caratteristiche la provenienza da un liceo assicura una probabilità sei volte più alta di iscrizione all’università, rispetto all’uscita dalla scuola professionale.

 

Osservazioni conclusive

Le diverse evidenze riportate nei paragrafi precedenti possono essere interpretate come evidenza del processo di stratificazione sociale che la scuola riproduce in Italia. La sequenza di eventi può essere descritta in questo modo: genitori istruiti creano un ambiente culturalmente stimolante per i loro figli e li aiutano nel compiti a casa. Alla fine della scuola dell’obbligo, all’età di tredici anni, i loro figli ottengono valutazioni positive e vengono consigliati a proseguire gli studi nella direzione dell’accesso universitario, attraverso l’iscrizione ai licei. Al lato opposto i figli di genitori non istruiti sono bocciati con maggior probabilità, terminano la scuola dell’obbligo con basse valutazioni e seguono i consigli degli insegnanti di iscriversi agli istituti professionali o, nel migliore dei casi, agli istituti tecnici. La scelta in età precoce determina i destini futuri dei ragazzi: i licei sono caratterizzati da minor tassi di bocciatura, assenza pressoché totale di cambi di indirizzo ed elevati tassi di passaggio all’università. All’estremo opposto gli istituti professionali vedono la presenza di ragazzi poco convinti delle loro scelte, con diverse bocciature alle spalle, che escono con scarsa intenzione di proseguire ulteriormente nell’istruzione terziaria. Questo è il dilemma che l’Italia fronteggia attualmente: se si ritiene necessario che il paese elevi il tasso di scolarità medio della popolazione, diventa indispensabile far crescere la scolarità nella popolazione adulta e/o ridurre la dipendenza delle scelte scolastiche dall’ambiente familiare. Al contrario, se si ritiene che l’attuale processo di stratificazione (dove le scelte dei genitori si trasmettono a quelle dei figli) sia socialmente efficiente, in quanto permette di selezionare gli individui migliori, allora questo stesso meccanismo va rafforzato. L’orientamento dell’attuale ministro Moratti sembra andare nella seconda direzione. La prima alternativa richiede di creare incentivi per gli adulti per «ritornare» sui banchi di scuola, e per i datori di lavoro nell’offrire formazione ai loro dipendenti. Questa prospettiva va in direzione opposta agli incentivi di mercato, in quanto la popolazione adulta presenta costi opportunità più elevati ed orizzonti temporali più brevi in cui recuperare i costi diretti dell’istruzione. Agli inizi degli anni Settanta l’Italia ha sperimentato un’ondata di nuova scolarizzazione per gli adulti, quando i sindacati ottennero nei contratti nazionali la possibilità di utilizzare parte dell’orario di lavoro al fine del conseguimento dell’obbligo scolastico (centocinquanta ore). Questa pratica fu poi estesa agli altri livelli di istruzione, ma gli utilizzatori calarono nel corso degli anni successivi. Tale esperienza era il risultato di un accordo tripartito: le imprese sostenevano il programma assicurando centocinquanta ore di lavoro retribuito per la frequenza scolastica; il singolo lavoratore contribuiva con analogo ammontare del proprio tempo libero; lo Stato partecipava creando corsi pomeridiani finalizzati, ed assumendo insegnanti per tali corsi. Mentre questi corsi erano intesi al raggiungimento della frequenza dell’obbligo in modo generalizzato, le stesse opportunità potrebbero essere ricreate per i livelli successivi di scuola. Una formazione generale all’interno del sistema delle imprese potrebbe rappresentare un’alternativa, anche se nel caso italiano questa ipotesi si scontra con la bassa dimensione media delle imprese.

Sull’altro versante, al fine di ridurre l’influenza della famiglia sulle scelte scolastiche, è possibile pensare a diversi interventi: obbligatorietà della scuola materna, abbassando l’inizio dell’obbligo di uno/due anni; scolarizzazione a tempo pieno in alternativa alla scuola tradizionale con compiti a casa, in modo da ridurre la necessità d’aiuto da parte dei genitori; posticipo dell’orientamento scolastico in una scuola secondaria di tipo generalista, al fine di permettere alle scelte individuali degli studenti di rettificare scelte familiari; forme di sostegno esterno alla scuola per gli studenti, attraverso biblioteche, corsi di recupero, opportunità culturali e così via. È inutile richiamare che queste alternative già esistono per i figli delle famiglie ricche, attraverso la frequenza delle scuole private. Data la natura stratificata della scuola secondaria, se una famiglia vuole segnalare l’elevata capacità dei propri figli non ha bisogno di appoggiarsi ad un’istituzione privata, dal momento che i licei pubblici offrono normalmente un insegnamento di ottima qualità. Tuttavia le famiglie ricche possono rivolgersi alle istituzioni private in caso di ragazzi meno dotati e/o più svogliati, al fine di alzare comunque la probabilità di iscrizione all’università. Questa stessa opportunità manca per le famiglie più povere, nonostante la recente legislazione a livello regionale che ha introdotto nel nostro ordinamento i buoni scuola. Se il sistema scolastico italiano deve ridurre lo spreco di risorse associato agli abbandoni, è necessario ridurre il numero degli esami che condizionano i passaggi. Attualmente uno studente italiano raggiunge il certificato di laurea attraverso quattro esami generali al termine di quattro stadi di istruzione: all’età di undici anni (licenza elementare), all’età di quattordici anni (licenza media), all’età di diciannove anni (diploma di maturità) e all’età di ventiquattro/ventisei (laurea). Questi esami hanno il vantaggio di certificare alla collettività l’acquisizione di competenze specifiche, ma hanno lo svantaggio di costituire in molti casi una barriera insormontabile in quanto l’accesso all’istruzione successiva è precluso per coloro che non superano questi esami. Nei paesi come l’Italia, dove vige il valore legale del titolo di studio, vi è una forte spinta ai comportamenti imitativi (gli studenti o completano l’intero corso di studi conseguendo il titolo o abbandonano precocemente quando intravedono l’impossibilità di tale risultato). Di conseguenza ogni ulteriore anno di istruzione senza completamento del titolo perde qualsiasi valore, in quanto non può essere certificato, e anzi si associa ad un effetto di stigma per l’incapacità del suo completamento. Se il sistema dei crediti, attualmente in fase di sperimentazione a livello universitario, potesse essere esteso a livello secondario, potrebbe favorire una permanenza più a lungo nella scuola secondaria. Se l’autonomia scolastica procederà ulteriormente, le competenze acquisite nelle diverse scuole tenderanno a divergere, e questo renderà l’attuale sistema di certificazione insostenibile nel lungo periodo. Si renderà così inevitabile l’introduzione di sistemi di valutazione delle competenze sui quali l’esperienza di altri paesi non fornisce indicazioni univoche3.

 

 

Bibliografia

1 L. Milani (a cura di), Lettera a una professoressa, Libreria editrice fiorentina, Firenze 1967.

2 Fonte: elaborazione sui dati individuali dell’indagine ISTAT, Percorsi di studio e di lavoro dei diplomati – Indagine 1998, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1999.

3 Pubblicato originariamente come The Italian educational system: family background and social stratification, comunicazione presentata alla conferenza organizzata dall’ISAE a Roma il 10 gennaio 2003. Il testo in inglese completo di note, bibliografia e appendici può essere scaricato dal sito https://www.economia.unimi.it/wp/wp0301.pdf .