Un semestre a rischio per l'Italia e per l'Europa

Written by Umberto Ranieri Monday, 02 June 2003 02:00 Print

Quello che si è aperto il primo luglio sarà con ogni probabilità l’ultimo semestre di presidenza italiano dell’Unione europea. Dopo l’entrata in vigore del nuovo Trattato costituzionale avremo forse presidenti italiani del Consiglio europeo, ma non avremo più la possibilità come paese di guidare l’Unione per sei mesi. Basterebbe questo – il commiato dell’Italia dal meccanismo della presidenza a rotazione – per dare al semestre un’aura del tutto particolare. La verità è che il semestre di presidenza italiana si colloca in un passaggio storico della vita dell’Unione: il 15 ottobre avrà inizio la Conferenza intergovernativa i cui lavori dovranno, sulla base delle conclusioni raggiunte dalla Convenzione, culminare in una vera Costituzione europea.

 

Quello che si è aperto il primo luglio sarà con ogni probabilità l’ultimo semestre di presidenza italiano dell’Unione europea. Dopo l’entrata in vigore del nuovo Trattato costituzionale avremo forse presidenti italiani del Consiglio europeo, ma non avremo più la possibilità come paese di guidare l’Unione per sei mesi. Basterebbe questo – il commiato dell’Italia dal meccanismo della presidenza a rotazione – per dare al semestre un’aura del tutto particolare. La verità è che il semestre di presidenza italiana si colloca in un passaggio storico della vita dell’Unione: il 15 ottobre avrà inizio la Conferenza intergovernativa i cui lavori dovranno, sulla base delle conclusioni raggiunte dalla Convenzione, culminare in una vera Costituzione europea. Qualcosa di più di una revisione regolamentare dei trattati per renderli più funzionali. L’obiettivo è un documento in grado di consentire all’Europa di essere più trasparente, più democratica, più responsabile verso i suoi cittadini. Nel corso del semestre inoltre giungerà a conclusione il lungo negoziato per l’ingresso dei paesi dell’Europa centrorientale e di Cipro e Malta nell’Unione. Come si dispone il governo italiano ad affrontare tale prova? Con quali idee e quali orientamenti esso giunge a un tale delicato cimento?

A riflettere su quanto accaduto nelle nostra politica estera ed europea nel corso degli ultimi due anni, a partire dal successo elettorale del centrodestra del 2001, viene fuori un quadro quanto meno ambiguo e contraddittorio, segnato da alcuni momenti di crisi: le dimissioni di Renato Ruggiero, le polemiche tra gli alleati di governo sull’Europa-Forcolandia, l’incerta navigazione – quasi un barcamenarsi quotidiano – attraverso la crisi irachena. In realtà non è peregrino sostenere che il governo del Polo abbia provato a modificare due aspetti costitutivi della politica estera del nostro paese: il tradizionale ruolo di ponte esercitato dall’Italia tra gli Stati Uniti e l’Europa, il rapporto con l’impianto comunitario. In realtà l’insofferenza verso la costruzione europea è alla base non solo dei comportamenti folkloristici di questo o quell’esponente della Lega, ma di un rilevante segmento della maggioranza. Quel segmento che comprende, oltre al partito di Bossi, componenti di Forza Italia e di Alleanza Nazionale che non hanno mai dismesso una visione dell’Europa e dell’integrazione comunitaria come obblighi a cui non è possibile sottrarsi ma che è possibile di volta in volta depotenziare o declinare in termini minimalisti.

Certo il modo in cui intendere la partecipazione dell’Italia alla vicenda europea (o di considerare l’alleanza con gli USA) può variare a seconda che governi lo schieramento di centrosinistra o quello di centrodestra senza che ciò – come ricorda Pietro Ostellino – diventi pregiudizievole per gli interessi nazionali o politicamente illegittimo. L’impegno europeo espresso dal centrosinistra non è stato il frutto di una scelta fideistica ma piuttosto di una visione dell’interesse nazionale italiano. Una visione secondo la quale il nostro paese avrebbe ricavato i maggiori vantaggi, in termini di sviluppo, innovazione e ruolo internazionale, solo dalla convinta adesione al percorso comunitario. Negli anni Novanta queste convinzioni sono state alla base dell’operato dei governo dell’Ulivo. Mentre il centrodestra, dopo le dimissioni di Ruggiero, non è riuscito a darsi una linea di politica europea convincente e in grado di mantenere l’Italia nel novero dei paesi più determinati a sostenere il processo di integrazione. È difficile ravvisare i tratti di una alternativa credibile di politica europea nelle iniziative del governo sulle quote latte, nell’ostruzionismo sulle direttive in materia di giustizia ed affari interni, nell’incomprensibile contrarietà a sottoscrivere le misure relative alle politiche di contrasto al razzismo e alla xenofobia, nel veto al nuovo regolamento europeo sull’energia lesivo degli interessi nazionali e controproducente per quelli europei!

In questo contesto si giunge al semestre di presidenza italiana dell’Unione, proprio nella fase immediatamente successiva alla crisi irachena: quando la solidarietà europea ha forse toccato il suo minimo storico e la guerra ha messo a nudo «strategie nazionali governative differenziate in politica estera e militare…e sullo sfondo si erge la grande questione sempre più cruciale dell’ identità europea in rapporto con la potenza americana»1. Di fronte a queste sfide il successo della presidenza dipenderà dalla capacità che essa mostrerà di saper assolvere ad uno dei compiti più qualificanti che l’Italia ha svolto nei momenti migliori della sua storia europea. Quel compito di federazione, più che di semplice mediazione, attraverso il quale è possibile ritrovare una prospettiva condivisa tra gli Stati dell’Unione. È questo il terreno su cui la tradizione dell’europeismo italiano si confronta con la questione cruciale del nostro tempo: come promuovere la sovranazionalità nell’epoca della globalizzazione? C’è consapevolezza nel governo della portata dei problemi? Staremo a vedere. In questa nostra riflessione vorremmo indicare alcune questioni intorno a cui dovrebbe ruotare l’iniziativa della presidenza italiana nel semestre.

La prima riguarda alcuni capitoli strategici della politica estera. Il nodo più intricato sul quale la presidenza italiana è chiamata ad intervenire riguarda la crisi che si è aperta all’interno dell’Unione e nei rapporti transatlantici circa il modo in cui affrontare la vicenda irachena. Una crisi – è bene ricordarlo – che al di là dei contenuti specifici della questione irachena ripropone il confronto intorno a visioni diverse del ruolo dell’Europa in Occidente e nel mondo. Da una parte l’unilateralismo dei neoconservatori americani spinge l’Unione europea verso una condizione di irrilevanza al di fuori dei propri confini, descrivendola come una istituzione impotente di fronte alle nuove minacce alla convivenza civile. Dall’altra continua a farsi strada tra alcuni paesi dell’Unione la tentazione di reagire a questa spinta con l’emersione di una identità europea costruita essenzialmente sulla contrapposizione agli Stati Uniti. Una tentazione che, ove avesse un seguito, condannerebbe l’Unione ad un ruolo marginale e comunque subordinato a quello della potenza statunitense. Oltre ad entrare in collisione con una storia scandita in positivo dalla condivisione all’interno della comunità transatlantica dei valori di libertà e democrazia. La vicenda irachena ha fatto emergere drammaticamente la debolezza di una politica estera europea, in una situazione in cui hanno agito sia preoccupazioni sincere per le conseguenze di un ricorso alla forza da parte degli USA sganciato dalla legittimazione di un organismo multilaterale, sia fattori di prestigio e riposizionamento degli Stati nazionali europei spesso in chiave di politica interna fornendo una illusoria impressione di rinascita della sovranità nazionale in Europa. È stata Barbara Spinelli a riassumere nel modo più efficace questo tormentato passaggio della storia dell’Unione. Gli Stati europei hanno affrontato la crisi senza disporre di una architettura istituzionale e di una regola in base alla quale decidere: una regola costituzionale in base alla quale chi è messo in minoranza accetta di rimanervi senza disporre di un veto per bloccare le decisioni sgradite e chi ottiene la maggioranza elabora una posizione che risponda seriamente alle obiezioni di chi dissente. Non c’è stata una posizione europea, ha osservato la Spinelli, perché non si avevano gli strumenti e i mezzi per suscitarla. Si ritorna per questa via al nodo di fondo di un riassetto istituzionale dell’Unione che superi l’unanimità sulla politica estera nel Consiglio e crei una nuova figura di ministro titolare della politica estera e di sicurezza europea, che contemporaneamente sieda anche nella Commissione come vicepresidente unificando le responsabilità dell’Alto rappresentante per la politica estera e del Commissario per le relazioni esterne. Ciò potrebbe garantire largamente più continuità e visibilità nella rappresentanza e nell’azione dell’Unione sulla scena internazionale.

Lo sforzo teso a muovere in questa direzione deve accompagnarsi ad un rilancio della iniziativa politica dell’Unione come soggetto unitario in grado di assumersi responsabilità nella soluzione delle crisi che minacciano la stabilità. Dopo un decennio nel corso del quale l’Europa «ha volto lo sguardo altrove rispetto alle cancrene dell’ex impero sovietico, dai massacri della Cecenia a quelli vicini dei Balcani, e rispetto alle ricorrenti crisi dell’area mediorientale e nordafricana pur così rilevante per la propria sicurezza e il proprio sviluppo»2. Da dove cominciare? Innanzitutto prendendo di petto la frattura apertasi nella comunità euroatlantica e nella politica estera dell’Unione. Nel corso del semestre l’Italia potrebbe promuovere la convocazione di una conferenza politica straordinaria tra Stati Uniti e Unione europea, nel corso della quale affrontare a viso aperto i nodi dell’agenda di sicurezza internazionale sui quali si è prodotta la frattura transatlantica. È ovvio che una tale iniziativa non potrebbe darsi l’obiettivo di giungere come per incanto ad una ricomposizione delle divisioni. Ma non c’è dubbio che mettere sul tavolo, con trasparenza e responsabilità, i punti lungo i quali si sono prodotte quelle divisioni costituirebbe di per sé un forte passo avanti. Innanzitutto per l’Unione europea, che potrebbe utilizzare questa conferenza per una operazione di chiarimento interno di cui tutti sentono il bisogno.

Analogamente, il semestre dovrebbe vedere un impegno straordinario dell’Unione sullo scenario mediorientale. Finora è mancato un progetto europeo per il Medioriente, «una visione europea che sappia conciliare le prospettive di sviluppo con la prevenzione delle minacce… che si sappia contrapporre al gran design di vago sapore wilsoniano che l’amministrazione Bush ha proposto… in margine alla sua crociata antiSaddam».3 Dovrebbe essere evidente prima di tutto agli europei che la questione della sicurezza della comunità internazionale dalle minacce che il terrorismo fondamentalista indirizza all’occidente non può essere compiutamente risolta senza giungere in tempi brevi ad una soluzione di pace per il conflitto tra israeliani e palestinesi.

Il primo e principale contributo che può venire dall’Unione europea in questa direzione è in un moto di sostegno chiaro e rigoroso verso il governo palestinese di Abu Mazen. È necessario essere consapevoli della novità rappresentata da questo governo – espressione degli ambienti più laici e filoeuropei della leadership palestinese – e del coraggioso investimento politico che esso ha deciso di compiere sulla fine dell’intifada armata, sulla lotta al terrorismo e sulle garanzie di sicurezza per lo Stato di Israele. Il fallimento di questo tentativo assesterebbe un colpo di grazia a qualunque prospettiva di soluzione pacifica per il conflitto israelopalestinese. Per questo il compito dell’Unione nel corso del semestre deve essere quello di spingere l’amministrazione statunitense a sostenere il governo di Abu Mazen, condizionando il governo di Sharon ad impegnarsi nel percorso previsto dalla Road Map. Una iniziativa che potrebbe prendere la forma di una speciale conferenza «Madrid II», promossa dall’Unione sotto la presidenza italiana e dedicata a fissare i termini di attuazione della Road Map.

Ma il terreno sul quale con più chiarezza si qualificherà il semestre di presidenza italiano sarà la Conferenza intergovernativa per la definizione del nuovo Trattato costituzionale dell’Unione. Da questo punto di vista, come ha scritto Giorgio Napolitano, il testo che la Convenzione ha licenziato «presenta accanto a innovazioni di indubbio rilievo, limiti, contraddizioni ed incognite che non è serio né onesto minimizzare». E se «l’accordo, diversamente da quanto è accaduto in altre occasioni, non è sul minimo denominatore comune» – ha scritto Giuliano Amato – «tuttavia ci sono i consensi mancati a novità necessarie». Ora la parola passerà ai governi con la Conferenza intergovernativa. Non si tratta di ricominciare daccapo ma di porre riparo ad alcune scelte sbagliate o ambigue e superare incertezze e timidezze che hanno impedito alla Convenzione di andare più avanti in particolare in alcune direzioni. Andiamo al sodo. La questione di fondo che si è posta all’Unione con l’allargamento all’Europa centro-orientale risiedeva nella modifica di un meccanismo decisionale farraginoso e contraddittorio. L’Unione era dinnanzi all’esigenza vitale per il suo futuro di dotarsi di una effettiva capacità di decidere. La Convenzione non è riuscita a produrre su questo terreno il salto di qualità di cui c’era bisogno abolendo il potere di veto in campi essenziali quali la politica estera, la difesa, la fiscalità ecc. Ha adottato invece – ha sostenuto Napolitano – il «risibile compromesso di prevedere che il Consiglio possa in futuro decidere all’unanimità che il Consiglio voti a maggioranza qualificata»! In questo quadro la gestione della Conferenza intergovernativa da parte della presidenza italiana assume un particolare significato. Essa dovrebbe da un lato impegnarsi per contrastare i tentativi, che non mancheranno, di uno spostamento dell’equilibrio istituzionale dell’Unione verso l’asse intergovernativo a danno delle istituzioni comunitarie e dall’altro spingere per il definitivo superamento del veto in particolare nella politica estera. Non sarà semplice. Del resto i lavori della Convenzione sono stati condizionati, su aspetti non secondari, dalle richieste ultimative di alcuni governi fino al punto di contraddire, nelle conclusioni cui si è giunti, gli stessi orientamenti maturati nella assemblea plenaria. Non c’è dubbio. Storicamente l’integrazione è proceduta sulla base della duplice legittimazione, quella sopranazionale e quella interstatale, e si è realizzata «non attraverso la compressione ma grazie all’apporto creativo delle identità nazionali e al loro mutuo arricchimento»4. E tuttavia è indubbio che dinnanzi alle sfide e alle prove cui è chiamata, l’Unione non acquisirà il profilo politico necessario affidando lo sviluppo della integrazione al vecchio metodo incrementale. La lezione dei fatti al cospetto dei quali oggi siamo obbligati a collocare le nostre riflessioni sul futuro dell’Europa mostra la fragilità di tale prospettiva. «Essa è forse relativamente più facile da seguire, ma non ha la forza di reggere all’urto degli interessi nazionali che possano venire a confliggere e nemmeno alle divergenti aspirazioni di autoconservazione delle classi dirigenti dei singoli paesi, messe in gioco dalla gravità delle questioni da affrontare»5. Ecco perché sarebbe stato necessario più coraggio da parte della Convenzione.

La discussione che ha accompagnato i lavori della Convenzione ha tuttavia fatto maturare sempre di più la convinzione che la grande questione dei limiti dello Stato nazione e dello spazio della sovranazionalità europea, che ha accompagnato tutta la vicenda comunitaria, non possa essere più contenuta entro i limiti della semplice difesa dei poteri della Commissione. Oggi il problema è costruire un equilibrio istituzionale che consenta di trovare sia una nuova legittimità democratica che una nuova capacità di proiezione esterna per l’Unione. Esistono le premesse perché ciò avvenga potenziando una architettura istituzionale che faccia perno sulla riforma del Consiglio per accrescerne l’autorità politica e di indirizzo con la generalizzazione del voto a maggioranza e con un Presidente «non debordante» e non incompatibile con altri mandati europei che assicuri più continuità e maggiore coesione all’interno del Consiglio; la creazione della figura del ministro degli esteri europeo; il rafforzamento delle istituzioni comunitarie quali la Commissione organo indipendente dai governi con compiti esecutivi, di promozione legislativa, di coordinamento, il Parlamento europeo fonte di legittimazione democratica dell’Unione, organo che eleggerà il Presidente della Commissione e godrà di una estensione delle sue responsabilità legislative e di bilancio; la Corte di giustizia come giudice indipendente del rispetto della Costituzione e del diritto dell’Unione. Questo il quadro istituzionale su cui si fonda quella che Amato chiama l’Europa a due teste, comunitaria ma anche intergovernativa. D’altra parte la capacità di sintetizzare le ragioni dello Stato-nazione con quelle della sovranazionalità è stato il tratto storico peculiare dell’impresa comunitaria. Un processo che non si lascia e non deve lasciarsi omologare in schemi precostituiti; una impresa largamente originale rispetto ai processi costituenti più classicamente federalisti.

 

 

Bibliografia

1 G. Zagrebelsky, Diritti e Costituzione nell’Unione europea, Bari, Laterza 2003.

2 C. Merlini, Danni collaterali e danni permanenti nell’alleanza occidentale, in «Il Mulino» 2-2003.

3 Ivi.

4 G. Mombelli, Se l’Unione esce dalla sua storia, in «Il Mulino» 2-2003.

5 Merlini, op. cit.