La globalizzazione, l'euro e la governance globale

Written by Loukas Tsoukalis Thursday, 26 June 2008 18:47 Print
Il ruolo internazionale dell’Unione europea è gradualmente cresciuto fino a fare dell’UE un importante attore globale. Oggi però le nuove sfide poste dalla globalizzazione, l’emergere di un mondo sempre più multipolare e il declino del peso individuale dei singoli Stati membri impongono un ripensamento di tale ruolo, degli obiettivi dell’UE e degli strumenti per realizzarli. A tal fine, un punto di partenza dovrebbe essere la rielaborazione della governance economica dei paesi dell’eurozona e il passaggio a una rappresentanza unica presso il FMI e la Banca mondiale.

L’Europa come potenza internazionale

L’integrazione europea ebbe inizio, essenzialmente, come un’avventura “introspettiva”: un manipolo di persone lungimiranti cominciò a gettare le fondamenta per la pace e la riconciliazione in Europa, mentre l’ordine mondiale era dato per assunto e ci si aspettava fosse plasmato da attori esterni. Una maggiore prosperità, ottenuta grazie all’eliminazione delle frontiere economiche, fu aggiunta all’elenco degli obiettivi principali, e così anche la democrazia, quando più tardi si unirono nuovi membri dotati di una fragile struttura istituzionale. L’europeizzazione acquisì, in tal modo, una portata molto più vasta.1

L’Europa cominciò ad agire come un attore internazionale con il commercio, che era parte integrante dell’unione doganale. Gradualmente tale ruolo si estese ad altre aree politiche, raggiungendo interamente, per quanto in maniera timida, la politica estera tradizionale e la difesa. Le basi giuridiche e istituzionali della politica estera dell’Unione europea variano tuttora considerevolmente da un settore all’altro. Sebbene vi sia stato un abbondante spillover funzionale, è stato arduo trasporre l’esperienza accumulata nel settore degli scambi commerciali ad altri settori di intervento. L’Europa non è stata una spettatrice passiva del processo di globalizzazione. L’integrazione eco- nomica globale e quella regionale in genere si sono mosse in parallelo, sebbene continuino a divergere in modo significativo in termini di intensità e di governance; è forse possibile affermare che questi due aspetti si stiano rafforzando a vicenda. L’Europa è dunque stata un soggetto attivo, anche se non tra i protagonisti. Inoltre, la performance di alcuni paesi europei è stata ed è di gran lunga superiore a quella degli altri nella nuova era globale. Le diverse prestazioni economiche, sommate alla presenza di istituzioni e strutture statali dissimili e alla percezione sociale delle possibilità e dei rischi creati dalla globalizzazione, hanno spesso reso problematica l’elaborazione di orientamenti politici comuni per l’Unione. Con l’eccezione della politica commerciale, l’influenza europea sulla scena internazionale ha continuato ad essere proporzionalmente inferiore alla sua dimensione collettiva.

I mercati globali si sono evoluti molto più velocemente della governance. I fondamentalisti hanno continuato a sostenere che questo fenomeno fosse del tutto appropriato e naturale: se si ha fede nella “magia del mercato”, il resto seguirà automaticamente. Oggi si è a una svolta cruciale, dal momento che i segnali di una flessione economica stanno diventando molto più che evidenti, almeno nella parte di mondo economicamente più sviluppata, mentre gli aspetti negativi della globalizzazione cominciano a raggiungere gli schermi radar di quegli osservatori tanto innocenti.

Ora è emersa la consapevolezza che il mercato presenta grosse falle che richiedono l’intervento pubblico. L’ambiente è sicuramente il fallimento maggiore che il mercato abbia prodotto. Alcuni hanno anche recentemente (ri)scoperto, con timore reverenziale, che i mercati finanziari, con le loro vaste ramificazioni economiche e politiche, ne costituiscono un altro grande esempio. La crisi dei mercati finanziari ha portato alla ribalta casi di grave azzardo morale, coniugati a distorsioni sistematiche e a elementi intrinseci di instabilità. Lo sviluppo dei mercati finanziari globali è la caratteristica principale di questa nuova epoca di globalizzazione, ma il bilancio che se ne trae è ben poco incoraggiante.

Lo Stato torna a farsi sentire in molti modi diversi, posto che non avesse mai del tutto abbandonato la scena. È tornato attraverso la costituzione di fondi sovrani, che operano da grandi investi- tori, e fungendo da “cavaliere bianco” per le grandi imprese occidentali in difficoltà, provocando di sovente forti reazioni politiche. È tornato en force nei paesi produttori di energia; sta tentando di gestire la rapida impennata dei prezzi dei prodotti agricoli e dei beni di prima necessità, che sta provocando rivolte popolari nei paesi in via di sviluppo. E con grande sorpresa di coloro a cui piace tracciare un legame diretto tra mercato e democrazia, il capitalismo in Cina non ha attenuato la presa dell’apparato statale e del partito, mentre la Russia continua a seguire la propria interpretazione del capitalismo di Stato.

Le nostre società ci stanno inoltre ricordando che esistono dei limiti alla tolleranza verso immigrazione e multiculturalismo che, se oltrepassati, rischiano di innescare le pericolose forze del nazionalismo e della xenofobia. Molti paesi europei stanno provando a gestirne le conseguenze, e il compito non è affatto semplice.

In ultimo, ma non per importanza, la globalizzazione economica è stata accompagnata da una crescita significativa delle disuguaglianze interne ai paesi, soprattutto a favore di una minuscola minoranza di persone ai vertici della scala sociale.2 L’intensità di questa tendenza sembra essere correlata al peso relativo del settore finanziario nelle rispettive economie: la versione angloamericana del capitalismo è pertanto più colpita delle altre. D’altro canto, le disuguaglianze sono negativamente correlate alla dimensione e all’efficacia dei sistemi nazionali di welfare. Le istituzioni nazionali hanno ancora un peso considerevole, anche nel modo in cui regolano (o meno) il mercato del lavoro. Non sorprende perciò che l’opinione pubblica, in Europa e altrove, abbia reagito agli sviluppi più recenti, e che molte persone si stiano rivoltando contro la globalizzazione: tale tendenza è stata rilevata da diverse indagini sull’opinione pubblica. Si tratta di una sfida enorme per quanti sostengono l’apertura delle frontiere e degli scambi. È vero che l’opinione pubblica è volatile, e che le attitudini future dipenderanno molto dalla maggiore o minore durata dell’attuale crisi/flessione economica. Tuttavia, i problemi sopra descritti non si dissolveranno verosimilmente da soli, né saranno spazzati via dalla ripresa economica.

Alcune delle vecchie e tradizionali forme di compensazione, relative all’efficienza, la stabilità, l’equità e la sostenibilità, sono di nuovo sul tavolo, sebbene alcuni politici avessero sperato nella loro scomparsa nella nuova epoca globale. I paesi europei dovranno operare scelte rigorose in merito alle modalità di adattamento al processo di globalizzazione o ai tentativi di porvi limiti, singolarmente o collettivamente, in un momento in cui l’ortodossia economica viene attaccata alquanto duramente. Esiste anche una dimensione politica più ampia per la sfida che oggi l’Europa si trova a fronteggiare. Vi è un crescente consenso sul fatto che ci stiamo muovendo verso un mondo sempre più multipolare, meno dominato dall’Occidente, in cui la superiorità militare (e non solo) degli Stati Uniti dovrà sempre più spesso trovare il modo di far posto alle nuove potenze sulla scena internazionale. Un mondo composto da poche grandi potenze su scala regionale e da una moltitudine di Stati “pigmei”, per non parlare degli Stati falliti; un mondo caratterizzato dalla distribuzione dei poteri ad attori non statuali, come le imprese multinazionali, le ONG e altre organizzazioni meno benigne; un mondo in cui la sovranità nazionale diventa un concetto piuttosto relativo, specialmente per gli ultimi tra i mortali. Queste sono le tendenze attuali, anche se nessuna, ovviamente, è irreversibile. Il peso relativo dei singoli Stati europei, misurato in termini di popolazione, reddito e scambi commerciali, continuerà a diminuire in questo mondo in rapido cambiamento.3 È difficile ipotizzare scenari che vadano in tutt’altra direzione, e ciò rappresenta per gli europei una grossa sfida. Come è possibile comparare i costi della fusione fra le proprie politiche e quelle dei partner regionali con i benefici di un maggior potere negoziale su scala internazionale, e quindi di una maggiore capacità di modellare l’ambiente circostante e di difendere in modo più efficace gli interessi e i valori comuni? Esiste una visione europea del mondo, e se c’è, come può essere articolata?

Una politica tesa a promuovere gli interessi e i valori comuni, plasmare la globalizzazione, difendere i beni pubblici e rafforzare le istituzioni multilaterali potrebbe davvero fornire una nuova spinta che aiuti a mobilitare tanti europei, e in particolare i giovani, che rischiano di essere sempre più allontanati dall’universo burocratico di Bruxelles. Ampi settori dell’opinione pubblica europea sembrano essere preparati a questo compito, in alcuni settori di intervento politico più che in altri.4 Basterebbe coinvolgerli sostanzialmente nella costruzione degli aspetti più morbidi e normativi del potere europeo: gli scambi commerciali e la regolamentazione, gli aiuti e lo sviluppo, l’ambiente come bene pubblico par excellence, la global governance, i diritti umani e il peace-keeping.

Governance dell’euro e riforma delle istituzioni finanziarie internazionali

L’introduzione della moneta unica è stata fin dall’inizio, senz’ombra di dubbio, il passaggio più importante dell’integrazione. L’euro si approssima oggi al suo decimo anniversario. I paesi che lo adottano sono passati da undici a quindici e sono numerosi i membri dell’Unione europea che attendono di raggiungerli, anche se con calma visto che pochi tra loro sono vicini a soddisfare i criteri di ingresso. Il gruppo dei paesi che “vorrebbero ma non possono” vede tra le proprie fila molti più paesi rispetto al gruppo opposto di coloro che “potrebbero ma non vogliono”, ossia i paesi che fino a ora hanno scelto di non entrare nella zona euro. La popolarità rappresenta una buona riprova dell’efficienza?

Per un esperimento che non ha precedenti nella storia, questi primi anni di moneta comune meritano un bilancio positivo:5 l’euro è diventata una delle valute più importanti a livello internazionale, ha portato alla stabilità dei prezzi e ha contribuito a un’ulteriore integrazione finanziaria e degli scambi in Europa. Va anche riconosciuto che non è stato accompagnato da una performance economica brillante da parte di alcun paesi membri, e che si ritrova a essere sperimentato nel bel mezzo di una crisi finanziaria internazionale, nata negli USA, e di un rapido aumento dei prezzi di alimentari ed energia, mentre continua a rivalutarsi nei confronti del dollaro.

Le valute non si autogestiscono. La struttura istituzionale preposta alla gestione dell’euro, stabilita con il Trattato di Maastricht, era tanto inadeguata quanto sbilanciata, ma era tutto ciò che a quel tempo era politicamente possibile realizzare. Le istituzioni, da allora, hanno subito un’evoluzione e col tempo hanno acquisito una notevole espe- rienza. Sebbene un “governo dell’economia” resti un obiettivo (francese) politicamente non dichiarato, in molti oggi convengono sul fatto che la Banca centrale europea abbia bisogno di un interlocutore politico credibile, che abbia una visione dell’eurozona nel suo insieme, che concordi sul contesto generale delle politiche e sulle principali priorità macroeconomiche e, ancora, che si occupi delle crisi, se e quando si presentano.

Un tale interlocutore può essere costituito solo da una versione aggiornata dell’Eurogruppo; si dovrà al contempo prendere atto che i principali strumenti economici, a eccezione dei tassi di interesse, rimarranno in mani nazionali.6 Un Eurogruppo più forte potrebbe anche fare politicamente da scudo alla BCE, qualora la Banca si trovasse sotto l’attacco di esponenti politici nazionali tentati di calcare la scena. Sul lungo periodo, infatti, un unione monetaria può rivelarsi instabile, se mantiene una base politica debole.

Una politica macroeconomica necessita più di discrezionalità che di regole rigide. La revisione del Patto di stabilità e crescita potrebbe essere interpretata, a voler essere generosi, come un timido passo in questa direzione. Di certo l’Unione è male equipaggiata, storicamente e politicamente, ad agire in modo discrezionale. Gli economisti hanno evidenziato che la perdita dello strumento politico rappresentato dal tasso di cambio incoraggia la flessibilità dei mercati e dunque le riforme economiche. È piuttosto interessante notare che alcuni dei paesi che hanno sinora guidato il gruppo nell’attuazione del programma di Lisbona, sono quelli che hanno scelto di restare al di fuori dell’eurozona. Ci si sarebbe aspettati l’esatto contrario. I paesi che adottano l’euro hanno bisogno di un’agenda di Lisbona più incisiva ed efficace, e presumibilmente di incentivi finanziari extra che fungano da lubrificante per le riforme economiche. I “disadattati” interni all’eurozona rappresentano una bomba a orologeria.

L’accelerazione del passo dell’integrazione finanziaria europea, alla quale ha contribuito notevolmente l’introduzione della moneta unica, non è stata accompagnata dallo sviluppo di un regime prudenziale e di supervisione europeo. Usando le parole di un partecipante navigato, il genere di supervisione fornito dalle istituzioni europee non è “super” e non è dotato di una “visione”;7 quel che ci si augura è che le cose non restino così ancora per molto tempo.

L’euro ha bisogno di essere governato; deve anche acquisire una rappresentanza efficace nei suoi rapporti con il resto del mondo, sia nelle relazioni bilaterali sia nelle istituzioni multilaterali. La BCE può parlare con i suoi omologhi. Ma chi può parlare a nome dell’eurozona di tassi di interesse o di squilibri economici internazionali, materie sulle quali gli europei dovrebbero avere interessi e punti di vista legittimi? La dice lunga il fatto che i paesi della zona euro hanno dovuto attendere fino alla fine del 2007 per esprimere in maniera energica ai cinesi le proprie posizioni in merito al tasso di cambio con il renminbi; gli americani non sono stati altrettanto pazienti.

Il presidente dell’Eurogruppo, eletto per un mandato di due anni e mezzo, ha progressivamente assunto il ruolo di portavoce e rappresentante all’estero. Tale ruolo potrebbe essere ulteriormente esteso mano a mano che l’Eurogruppo acquisisce più poteri reali. L’omologo economico di un’unione monetaria federale, che ha al suo centro la BCE, è una struttura essenzialmente intergovernativa. Nell’Unione monetaria europea i poteri della Commissione sono limitati.

Con una valuta unica e un’unica politica monetaria, c’è da chiedersi perché i membri dell’eurozona insistano ancora a mantenere presso il Fondo monetario internazionale proprie rappresentanze nazionali, che appartengono a collegi elettorali diversi per l’elezione del proprio rappresentante al Consiglio esecutivo. Se non è per inerzia istituzionale, o per il desiderio di preservare qualche posto di lavoro ben pagato per gli amici a casa, quali sono realmente gli specifici interessi nazionali che i singoli Stati membri dell’eurozona vogliono difendere?

Una rappresentanza unica dei paesi dell’eurozona al FMI (e forse anche alla Banca mondiale) manderebbe un segnale politico importante in patria e nel resto del mondo; essa aumenterebbe in sostanza l’influenza collettiva dei quindici paesi coinvolti, agendo anche da catalizzatore per la riforma di tali istituzioni, a partire dalla delicata questione della redistribuzione delle quote dei voti. Al momento, i paesi europei sono grossolanamente sovrarappresentati, poiché il governo delle istituzioni di Bretton Woods riflette l’equilibrio di potere che prevaleva alla fine della seconda guerra mondiale; proprio ciò costituisce uno dei problemi. Se i paesi dell’eurozona fossero d’accordo nel mettere in comune le proprie quote, sarebbe molto più semplice accettare una riduzione della quota complessiva, che potrebbe dunque essere redistribuita tra le potenze emergenti nel mondo in via di sviluppo.

Sia il FMI che la Banca mondiale soffrono di una crisi di identità e stanno subendo una graduale marginalizzazione. Svolgono ancora un ruolo utile nella governance monetaria e finanziaria globale, ma questo ruolo deve essere ridefinito e rinegoziato tra i membri. Parte integrante di questa ridefinizione dovrebbe essere l’aumento del peso relativo delle potenze emergenti in Asia e altrove, allo scopo di farle sentire comproprietarie e non inquiline povere. L’Unione europea può svolgere un ruolo guida a questo riguardo, con i paesi dell’eurozona a imprimere la spinta iniziale.

In questo modo, la riforma delle istituzioni finanziarie internazionali,8 che sinora è andata avanti molto lentamente, potrebbe utilmente legarsi alla proposta di una rappresentanza estera comune dei paesi dell’eurozona e alla redistribuzione dei voti. A questo stadio, non è ancora politicamente realistico ipotizzare una rappresentanza unica per l’Unione nel suo complesso, che potrebbe però arrivare in seguito.

Vi è, ovviamente, una problematica più ampia per quanto riguarda la governance in un mondo globale e sempre più multipolare. La multipolarità si accompagnerà a un effettivo multilateralismo in grado di fornire il contesto necessario per una governance mondiale basata su regole e istituzioni comuni? E le potenze emergenti saranno interessate a questa forma di governance e in essa integrate, invece di ricorrere all’unilateralismo, che è il riflesso istintivo di chi pensa di avere più potere di altri? È fondamentale che il processo di socializzazione cominci quando le potenze emergenti sono ancora convinte che il multilateralismo serva ai loro interessi; ossia, prima che arrivino a pensare che il multilateralismo sia solo l’ultima risorsa per i deboli, cosa che a quel punto essi non saranno più. La socializzazione deve pertanto iniziare oggi, se non è già troppo tardi.

Gli europei possono svolgere un ruolo centrale nella riforma delle istituzioni internazionali e del- la governance globale. Negli ultimi cinquant’anni, o poco più, essi hanno appreso la difficile lezione su come si gestisce congiuntamente una crescente interdipendenza, attraverso regole e istituzioni comuni: è un’esperienza considerevole, che merita di essere esportata al resto del mondo. Inoltre, gli europei sono quelli che, con tutta probabilità, si troverebbero a perdere di più su base nazionale da una redistribuzione dei poteri all’interno delle istituzioni internazionali. Una rappresentanza congiunta sarebbe il passo più logico da intraprendere: per alcuni può sembrare più doloroso che per altri, perciò è necessario partire da dove ci si sente più pronti. È già stato fatto in passato, con il WTO.

[1] L. Tsoukalis, What Kind of Europe?, Oxford University Press, Oxford 2005.

[2] L’aumento delle diseguaglianze interne ai paesi è documentato da numerosi studi. Per una sintesi, si veda J. Pisani-Ferry, Progressive Governance and Globalisation: The Agenda Revisited, relazione presentata al Progressive Governance Summit, Londra 2008.

[3] Cfr. N. Gnesotto, G. Grevi, The New Global Puzzle: What World for the EU in 2025?, Institute for Strategic Studies, Parigi 2006, disponibile su www.iss.europa.eu/uploads/media/ NGP_01.pdf.

[4] Si veda la raccolta di saggi di André Sapir, e in particolare B. Coeuré, J. Pisani-Ferry, The governance of the European Union’s international economic relations: how many voices?, in A. Sapir (a cura di), Fragmented Power: Europe and the Global Economy, Bruegel, Bruxelles 2007.

[5] Commissione europea, EMU@10: Successes and Challenges After 10 Years of Economic and Monetary Union, European Economy Report, 2/2008, disponibile su ec.europa.eu/economy_ finance. Cfr. anche J. Pisani-Ferry et al., Coming of Age: Report on the Euro Area, Blueprint series, Bruegel, Bruxelles 2008.

[6] Il primo passo importante riguardo alla situazione legislativa dell’Eurogruppo è stato fatto con il Trattato di Lisbona.

[7] T. Padoa-Schioppa, Europe Needs a Single Financial Rulebook, Financial Times, 11 dicembre 2007.

[8] Cfr. N. Woods, From Intervention to Cooperation: Reforming the IMF and the World Bank, relazione presentata al Progressive Governance Summit, Londra 2008.