La giustizia penale internazionale: dai Tribunali ad hoc dell'ONU alla Corte penale permanente

Written by Salvatore Zappalà Thursday, 26 June 2008 18:57 Print
L’istituzione dei Tribunali dell’ONU per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda e la creazione della Corte penale internazionale costituiscono delle tappe essenziali per l’affermazione del principio che quanti commettono crimini internazionali hanno una responsabilità penale individuale. Malgrado le difficoltà e la mancata adesione alla CPI di diversi Stati, il patrimonio di esperienze accumulato e i risultati finora ottenuti vanno considerati positivamente. Il lavoro di queste istituzioni ha però bisogno del contributo attivo dei governi nazionali.

Massacri e giustizia penale internazionale

Sembrano svanire nella memoria individuale e collettiva gli orrori dei conflitti nell’ex Jugoslavia e le atrocità del genocidio ruandese. E infatti, i due tribunali ad hoc delle Nazioni Unite per l’ex Jugoslavia (TPIJ) e per il Ruanda (TPIR) – istituiti dal Consiglio di sicurezza rispettivamente nel 1993, il primo, e, nel 1994, il secondo – si accingono a ultimare le loro attività.

Nel contempo, però, i crimini brutali commessi in altri luoghi confermano che nel mondo continua a dominare la violenza e che le flagranti violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno. Lo stillicidio di morti in Iraq e in Afghanistan, le incombenti minacce del terrorismo internazionale, la quotidiana scia di sangue in Medio Oriente (dal Libano al conflitto israelo-palestinese), i massacri di civili in Darfur non sono cessati a dispetto dei proclami del Consiglio di sicurezza o del procuratore della Corte penale internazionale (CPI). Si tratta di tragedie che mettono in luce l’incapacità della comunità internazionale (o, se si preferisce, degli Sta- ti egemoni) di prevenire crimini gravissimi. Tuttavia, rispetto al passato, oggi per lo meno si è affermata sotto il profilo giuridico una codificazione dell’illegalità. Il principio della responsabilità penale individuale di quanti commettono crimini internazionali (crimini di guerra, contro l’umanità e di genocidio) è una grande conquista di civiltà. È ormai largamente accettato che alcune tra le più gravi violazioni del diritto internazionale devono essere sanzionate e gli individui che ne sono gli autori devono essere puniti: a nulla valgono le immunità, non opera la prescrizione, non servono a giustificare la condotta criminosa le eventuali disposizioni della legge nazionale o l’ordine del superiore, e infine vige – sia pure entro certi limiti – il principio di universalità della giurisdizione (gli autori dei crimini possono essere processati dalle autorità giurisdizionali di qualsiasi Stato).

Questi principi possono sembrare espressione di un’idea del tutto ovvia e scontata, ma in realtà non si tratta di una conquista banale. Peraltro, essa è quotidianamente messa a rischio dalle tendenze regressive sempre in agguato e dalle incoerenze intrinseche nel sistema internazionale penale (si pensi al carattere fortemente selettivo dei processi). Come è noto, il diritto internazionale si occupa essenzialmente delle relazioni tra Stati, e fino alla seconda guerra mondiale vi erano pochi dubbi sul fatto che le azioni degli organi di uno Stato (i governanti, i burocrati, le forze armate) andassero attribuiti sotto il profilo internazionale soltanto allo Stato stesso e mai all’individuo in quanto tale. Spettava, poi, eventualmente allo Stato risponderne sul piano internazionale. Non c’è bisogno di ricordare le parole di insigni giuristi e statisti italiani (Vittorio Emanuele Orlando o Francesco Saverio Nitti) che – in relazione all’intenzione di processare il Kaiser, espressa nel 1919 dai vincitori della prima guerra mondiale – manifestavano l’assurdità di trarre in giudizio un capo di Stato per crimini internazionali. Ancora oggi, benché vi siano stati progressi nella sensibilità politica rispetto alla repressione dei crimini internazionali, risulta difficile far valere in concreto la responsabilità penale individuale sul piano internazionale. Il cammino della giustizia è difficile perché ad esso si oppongono, da una parte, resistenze di carattere politico (talvolta giustificate dalla delicatezza di certe situazioni, ma altre volte – forse più spesso – meramente stru- mentali), dall’altra, regole internazionali ben consolidate, come l’immunità che spetta alle alte cariche dello Stato o il principio di non ingerenza negli affari interni, che servono a tutelare la sovranità degli Stati e dunque rappresentano esse stesse valori importanti per il sistema internazionale (e vanno ovviamente bilanciate in modo equilibrato con le esigenze di giustizia).

Un’altra importante idea di fondo della giustizia penale internazionale, espressa a suo tempo dal Tribunale di Norimberga, è che vi sono dei doveri internazionali che trascendono l’obbligo di fedeltà al proprio Stato. Si tratta di una legittimazione internazionale della disobeddienza civile: ogni individuo deve sapere che non va data attuazione a qualsiasi ordine provenga dal proprio sistema nazionale o da un proprio superiore. L’ordine di commettere crimini contro l’umanità o di genocidio è manifestamente illegittimo e non va eseguito; non ci si può sottrarre alle proprie responsabilità invocando il fatto di avere rispettato un ordine.

Nonostante questi principi, posti a tutela dei diritti umani più elementari, siano stati affermati in maniera chiara e sembrino consolidati, in realtà dalla prassi si evince come vadano costantemente rinnovate le giustificazioni poste a fondamento della necessità di punire i responsabili di crimini internazionali. Occorre sistematicamente ricordare e ribadire le argomentazioni che hanno portato vari tribunali (internazionali e interni) ed istituzioni internazionali ad affermare che né le immunità, né il dominio riservato degli Stati, né la sicurezza nazionale, né altre forme di tutela della sovranità possono giustificare l’attuazione di crimini internazionali o di azioni dello Stato volte a proteggere i responsabili. Il Tribunale di Norimberga affermò, in maniera chiara e forse un po’ enfatica, che sono uomini e non entità astratte a commettere i crimini internazionali. La forza dirompente di tale principio però viene quotidianamente respinta dagli Stati nei fatti. Tutti i leader portati in giudizio tendono a riportare in auge le critiche di Vittorio Emanuele Orlando: un capo di Stato agisce come esponente della sua collettività, è la collettività che deve rispondere degli atti del capo di Stato.

Per fortuna, a partire dalla metà degli anni Novanta, vari organi giudiziari nazionali (ad esempio il tribunale britannico che si è pronunciato sulle richieste di estradizione spagole contro il generale Pi- nochet) e internazionali (TPIJ, TPIR, Corte speciale per la Sierra Leone) hanno dato corpo all’idea di una giustizia penale sovranazionale e hanno dimostrato che è possibile condurre processi penali per crimini internazionali anche a carico di alti dirigenti dello Stato. Una delle esperienze più significative in tal senso è stata l’attività dei Tribunali delle Nazioni Unite per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda, non soltanto per i processi che essi stessi hanno condotto ma per il fatto che, a seguito della loro istituzione, le autorità investigative e giudiziarie di alcuni paesi sono state stimolate ad avviare indagini e a svolgere processi per crimini internazionali (ad esempio il Belgio, la Spagna, la Germania e la Svizzera).

Un bilancio dell’attività dei Tribunali penali internazionali per l’ex Jugoslavia e per il Ruanda

Quando il Consiglio di sicurezza dell’ONU creò i Tribunali ad hoc per l’ex Jugoslavia e il Ruanda probabilmente nessuno pensava che essi avrebbero realmente funzionato: come ebbe ad ammettere l’ex segretario di Stato americano Madeleine Albright (all’epoca ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite) i Tribunali erano stati creati per essere la foglia di fico della comunità internazionale, che aveva assistito e assisteva impotente ai massacri nei Balcani e in Ruanda. Invece, nel corso di quindici anni di alterne fortune, questi Tribunali hanno dimostrato che si può fare giustizia in maniera indipendente e imparziale, giusta ed efficace, dando voce alle vittime ma assicurando gli standard più elevati nel rispetto dei diritti della difesa, cercando di illuminare scorci di tragedia, dando un contributo di verità e chiarezza, pur senza la pretesa di “fare la Storia”. Il TPIJ ha già concluso processi contro oltre sessanta individui (nove imputati sono stati assolti, cinquantacinque sono stati condannati, alcuni hanno già scontato per intero la pena), altri procedimenti sono attualmente in corso o stanno per iniziare. Complessivamente rimangono soltanto quattro imputati latitanti (tra cui i ben noti Radovan Karadzic e Ratko Mladic). Il TPIR ha processato circa trenta imputati (tre assolti e ventotto condannati), incluso il primo ministro del Ruanda all’epoca del genocidio e numerosi membri del go- verno e dell’amministrazione; altri processi sono attualmente in corso o stanno per essere avviati. Rimangono ancora latitanti tredici imputati, il più noto dei quali è probabilmente Félicien Kabuga, ricco e potente uomo d’affari ruandese che, tra le altre cose, avrebbe fatto importare i machete con i quali il genocidio è stato compiuto.

Complessivamente, il bilancio dell’attività dei Tribunali ad hoc va raccontato come una storia di successi. Anzitutto, va detto che senza di essi non si sarebbe proabilmente mai arrivati a una corte penale permanente. In secondo luogo, essi hanno contribuito con una richezza inestimabile di precedenti giurisprudenziali alla formazione di un diritto internazionale penale sempre più preciso e dettagliato (prima esso si fondava esclusivamente su alcuni grandi principi, peraltro scarsamente attuati in pratica). Oggi, si può dire che grazie ai Tribunali si è sviluppato un sistema molto articolato, relativo a tutti gli aspetti sostanziali e processuali della repressione dei crimini internazionali. Ma soprattutto questi Tribunali hanno dimostrato che si può sperare che venga fatta giustizia. Può essere utile ricordare che nei mesi che precedettero gli accordi di pace di Dayton (novembre 1995), che posero fine al sanguinoso conflitto in Bosnia-Erzegovina, si temeva che il TPIJ venisse soppresso in cambio della firma di Slobodan Milosevic e del consenso dei serbi di Bosnia a quell’accordo. Quella esperienza ha invece dimostrato che pace e giustizia non soltanto possono, ma devono essere conciliate.

Come è ovvio, però, anche le “storie di successo” hanno le loro ombre. E i Tribunali ad hoc non fanno eccezione. Il fatto che siano stati creati attraverso uno strumento prettamente emergenziale – come una risoluzione del Consiglio di sicurezza ex capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite – benché poi sostanzialmente e ampiamente accettato dagli Stati, ha sempre destato perplessità: si è trattato di una scelta politica squisitamente discrezionale e selettiva, che ovviamente potrebbe essere tacciata di arbitrarietà. La competenza parziale dei Tribunali, limitata all’ex Jugoslavia e al Ruanda, ha talvolta oscurato la portata universale dei principi in base ai quali essi giudicano. Va poi anche messo in rilievo il fatto che in certi casi, in cui esisteva in linea di principio una competenza dei Tribunali, essi hanno mostrato di non essere in grado di rendere pienamente giustizia. In tal senso ha suscitato ben più di una critica, specie in Serbia, il fatto che il TPIJ non abbia condotto indagini approfondite su eventuali crimini commessi dalla NATO durante i bombardamenti in Kosovo (che pure in astratto sarebbero rientrati nella giurisdizione del Tribunale).

Rispetto al TPIR ci si è sempre interrogati sul fatto che finora non sia stata resa pubblica alcuna indagine nei confronti di membri del Fronte patriottico ruandese, che ha assunto il governo del paese dopo il genocidio. In proposito, l’ex procuratrice dei due Tribunali ad hoc, Carla Del Ponte, ha recentemente rivelato che la decisione presa dal Consiglio di sicurezza nel 2002 – a seguito della quale il suo mandato fu limitato al solo TPIJ sottraendole competenza sul TPIR – sarebbe stata motivata dalla volontà di fermarla nella sua intenzione di aprire un procedimento contro persone vicine all’attuale presidente del Ruanda, Paul Kagame. Infine, desta qualche preoccupazione la scelta del Consiglio di sicurezza di porre un termine artificiale alla durata dei procedimenti, imponendo ai Tribunali tappe forzate per chiudere le loro attività nel biennio 2008-10. Fare giustizia con il cronometro è molto difficile; certo, la giustizia richiede speditezza, ma essa va conciliata con la necessità di procedere a una ricostruzione accurata della realtà. Naturalmente va anche ricordato che i Tribunali erano stati istituiti sin dall’inizio come misura per il ristabilimento e il mantenimento della pace nelle regioni coinvolte; raggiunto il loro scopo era prevedibile che il Consiglio di sicurezza decidesse di porre termine alle loro attività (e infatti la cosiddetta completion strategy era già stata prevista dagli stessi Tribunali prima ancora della formale adozione con le risoluzioni 1503 del 2003 e 1534 del 2004). Tuttavia ciò non vuol dire affatto che la necessità di fare giustizia sarà cessata. Nella completion strategy è presente un forte messaggio nel senso della continuità del processo di accertamento delle responsabilità: a tal fine le giurisdizioni nazionali dei paesi più direttamente coinvolti sono chiamate a prendere il testimone e a portare a compimento il lavoro avviato dai Tribunali (per farlo sono state create delle corti speciali per i crimini di guerra, come la War Crimes Chamber istituita in Bosnia).

Infine, va detto che i Tribunali lasciano un bagaglio di esperienza ricchissimo che non va disperso. Si tratta di esperienza giuridica (attraverso le decisioni di procedura, le sentenze, le norme dei regolamenti), ma anche pratica (in materia di indagini, in tema di organizzazione di appositi programmi di protezione per i testimoni, in relazione alla gestione del sistema informatico per la presentazione delle prove ecc.) e umana (vi sono professionalità che si sono costruite in queste istituzioni e sarebbe un peccato che andassero sprecate). In questo senso, sarebbe auspicabile un pieno passaggio di consegne tra questi organi ad hoc e la Corte penale permanente, istituita a Roma nel 1998, e che è ormai pienamente operativa. Finora c’è stata una duplice resistenza al pieno realizzarsi di questa “successione” della Corte penale internazionale ai Tribunali ad hoc, causata, da una parte, dal fatto che non tutti gli Stati membri dell’ONU hanno ratificato lo Statuto della Corte (basti pensare che tre dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza non lo hanno ancora adottato: Cina, Russia e Stati Uniti) e che la CPI è fuori dal sistema onusiano; dall’altra, dall’emergere di una certa riluttanza da parte della stessa CPI ad essere associata ai Tribunali ad hoc, sottolineando le differenze piuttosto che il messaggio comune: la lotta contro l’impunità.

La Corte penale internazionale a dieci anni dalla firma dello Statuto di Roma

La Corte penale internazionale permanente fu istituita, con competenza ampia e non selettiva, per cercare di smentire le critiche rivolte ai Tribunali ad hoc e per dare corpo all’esigenza di un meccanismo giudiziario preesistente rispetto all’esecuzione di crimini.

Come è noto, lo Statuto di Roma fu approvato tra gli applausi il 17 luglio 1998. Poi, in meno di quattro anni (un tempo eccezionalmente breve rispetto alle previsioni dell’epoca) sono state superate le sessanta ratifiche necessarie per l’entrata in vigore del trattato, e dal 1° luglio 2002 il mondo ha finalmente avuto il suo giudice penale. La Corte è divenuta effettivamente operativa dal 2003, quando – dopo l’elezione dei giudici, del presidente, del procuratore, del cancelliere – ha cominciato effettivamente a muovere i primi passi anche sotto un profilo giurisdizionale. Progressivamente la Corte sta cercando di conquistare un numero sempre maggiore di ratifiche dello Statuto (al momento sono centosei gli Stati membri: altri dovrebbero ratificare a breve). Ne fanno parte una trentina di Stati africani, una dozzina di Stati asiatici, tutti i membri dell’Unione europea, con l’eccezione della Repubblica Ceca, moltissimi Stati nel continente americano. La Corte si muove determinata verso l’universalità e, benché il suo Statuto non sia stato ancora ratificato da tutti gli Stati (e taluni non ratificheranno ancora per molti decenni), essa incarna l’universalità sotto il profilo dei valori tutelati. L’esistenza stessa della Corte penale internazionale viene considerata da vari commentatori come un successo in sé. Tuttavia pare oltremodo opportuno dopo un lustro di attività discutere quello che la Corte ha fatto e trarre un primo bilancio.

Anzitutto, in questi primi cinque anni la Corte ha trasformato in realtà un progetto che esisteva soltanto sulla carta; sono stati completati una serie di regolamenti di procedura e di norme per il funzionamento dell’istituzione; sono stati messi a punto vari organi interni (dall’ufficio della difesa, all’ufficio di protezione di vittime e testimoni); è in corso di progettazione la sede permanente della Corte; gli Stati membri hanno approvato per la Corte un solido bilancio che le permette di svolgere le sue attività in maniera indipendente e imparziale (si pensi alle difficoltà che in passato hanno avuto tribunali speciali, quali la Corte speciale per la Sierra Leone, sempre alla ricerca di fondi per potere funzionare).

Inoltre, e forse più degno di nota, la Corte ha anche cominciato a funzionare sotto il profilo giudiziario; in quest’ambito si può opinare che il bilancio di questi primi anni d’attività sia meno soddisfacente. Non v’è ombra di dubbio infatti che la cautela del procuratore nell’usare il suo potere di aprire indagini di propria iniziativa (potere che fu ottenuto, non senza grandi difficoltà, durante la conferenza diplomatica di Roma, dai fautori di una Corte “forte” e contro chi voleva, al contrario, fare della Corte semplicemente uno strumento nelle mani del Consiglio di sicurezza) lascia un po’ delusi. Tuttavia, la Corte è stata incaricata di occuparsi di quattro paesi nei quali sono stati commessi crimini internazionali: Uganda, Repubblica Democratica del Congo (RDC), Repubblica Centrafricana (RC) e Darfur (Sudan). Nei primi tre casi, i crimini sono stati portati all’attenzione della Corte da una denuncia, ex articolo 13.b dello Statuto della Corte penale internazionale, dello stesso Stato in questione: in genere le denunce miravano a esortare la Corte a intervenire contro crimini commessi da gruppi ribelli. Tuttavia il contenuto della denuncia da parte di uno Stato membro non vincola la Corte a limitare la propria giurisdizione ai crimini commessi dalle forze ribelli, al contrario la CPI è libera di indagare anche sulle azioni ascrivibili alle forze governative. Nel quadro delle quattro situazioni suddette è, poi, il procuratore l’unico organo competente a individuare specifiche ipotesi di reato e identificare i presunti autori: ovvero aprire dei procedimenti relativi a singoli casi. Questo è quanto il procuratore ha fatto in tutti e quattro i dossier. Per quanto riguarda la situazione in Uganda sono stati richiesti – ed emanati a seguito di ordinanza della Camera preliminare (un collegio composto da tre giudici) – quattro mandati d’arresto contro Joseph Kony e altri leader ribelli. Nel caso invece relativo alla situazione nella Repubblica Centrafricana, risale allo scorso 24 maggio l’arresto in Belgio, su richiesta della Corte, dell’ex candidato alle elezioni presidenziali nella RDC, Jean Pierre Bemba (per crimini contro l’umanità commessi da miliziani ai suoi ordini nella Repubblica Centrafricana). Per ciò che concerne invece la situazione nella RDC, i procedimenti aperti sono tre, tre sono gli imputati attualmente detenuti all’Aja presso l’unità di detenzione della Corte (Thomas Lubanga Dyilo, il cui processo dovrebbe iniziare a fine giugno 2008 – dopo essere stato trasferito alla Corte nel marzo 2006 – Germain Katanga e Mathieu Ngudjolo Chui) e un mandato d’arresto è in attesa di esecuzione (contro Bosco Ntaganda). Infine, in relazione alla situazione mediaticamente più esposta, quella relativa ai crimini in Darfur – deferita alla Corte dal Consiglio di sicurezza nel 2005 – sono stati emanati nell’aprile del 2007 due mandati d’arresto contro Ahmad Muhammad Harun, ministro per gli Affari umanitari, e Ali Kushayb, leader delle milizie filogovernative, rispetto ai quali il governo di Khartoum non ha finora mostrato alcuna intenzione di cooperare.

È risaputo che la giurisdizione della Corte penale internazionale è complementare rispetto a quella degli Stati: ciò vuol dire che in via prioritaria spetta agli Stati portare in giudizio i presunti re- sponsabili di crimini internazionali. Si tratta di un vero e proprio obbligo (il Preambolo dello Statuto è chiaro in materia e richiama il dovere degli Stati di processare i responsabili di crimini internazionali). La Corte penale internazionale è senza alcun dubbio uno dei più importanti successi della comunità internazionale nella messa a punto di strumenti di protezione dei diritti umani su scala universale (ricordiamo la lezione di Bobbio: il problema dei diritti umani oggi non è di proclamarne di nuovi, ma di tutelare in maniera efficace i diritti che esistono). Le norme internazionali sui diritti umani rappresentano senz’altro la più grande rivoluzione nel diritto internazionale contemporaneo: gli Stati non possono più legittimamente trattare i propri cittadini a loro piacimento e non possono più farsi scudo del principio di non ingerenza negli affari interni. Le più gravi violazioni sono oggetto di norme internazionali che impongono il processo e la punizione degli individui responsabili di tali violazioni. La CPI, però, così come i Tribunali ad hoc dell’ONU, per potere funzionare in maniera incisiva ha bisogno della cooperazione degli Stati. Per essere realmente efficace la CPI ha bisogno anzitutto che gli Stati diano piena attuazione allo Statuto, reprimendo in sede nazionale i crimini, e laddove necessario eseguano i mandati d’arresto della Corte, le richieste di ricerca delle prove e consentendo le indagini sul proprio territorio. Ovviamente gli Stati direttamente interessati dai crimini avranno una maggiore responsabilità al fine della cooperazione. Tuttavia è importante sottolineare che tutti gli Stati membri devono lavorare attivamente dando il loro contributo alla lotta all’impunità.

Nell’ipotesi in cui sia il Consiglio di sicurezza ad attivare la Corte (articolo 13.a dello Statuto della Corte penale internazionale), come è avvenuto nel caso del Darfur, tutti gli Stati membri dell’ONU hanno un obbligo di cooperazione e devono eseguire le richieste della Corte. Le autorità sudanesi pertanto possono anche protestare sotto il profilo politico nei confronti del Consiglio di sicurezza per aver deferito alla Corte la situazione in Darfur piuttosto che altri crimini internazionali, non possono però rifiutarsi di cooperare con la Corte appellandosi al fatto che il Sudan non ha adottato lo Statuto. Ciò è infatti irrilevante. La risoluzione del Consiglio di sicurezza 1593 del 31 marzo 2005 impone al Sudan di cooperare e la mancata cooperazione è una violazione della risoluzione, e conseguentemente della Carta delle Nazioni Unite, e non dello Statuto della Corte penale internazionale.

Meriti e demeriti dell’Italia

L’Italia è sempre stata un paese in prima linea nella battaglia per l’affermazione di valori universali condivisi, nella difesa dei diritti umani, nella promozione della giustizia internazionale. Spesso però ai proclami non seguono i fatti: fino ad oggi infatti, a dispetto della pronta ratifica e attuazione dello Statuto attraverso l’ordine di esecuzione contenuto nella stessa legge di autorizzazione alla ratifica (luglio 1999), mancano tutte le norme di dettaglio che sono indispensabii per coordinare efficacemente l’ordinamento giuridico e il sistema giudiziario con il meccanismo della Corte. Questo ritardo nell’adozione della normativa di attuazione dello Statuto, pone problemi sotto due profili. Da una parte, l’idoneità (cioè la capacità e volontà) del sistema interno a giudicare dei crimini internazionali è la chiave per il successo della Corte. In particolare, in assenza di norme incriminatrici sufficientemente precise e dettagliate, le nostre autorità non sarebbero in grado di portare in giudizio per crimini internazionali i potenziali autori per reati qualificati in maniera corretta (si pensi a come – sia pure in un contesto parzialmente diverso – in relazione ai fatti di Bolzaneto, le autorità inquirenti italiane non siano state in grado di qualificare come atti di tortura alcuni episodi gravissimi di lesioni da parte di pubblici ufficiali). D’altra parte, poi, l’Italia potrebbe essere chiamata a prestare attività di cooperazione con la Corte (per la ricerca di prove o per l’arresto, la detenzione e la consegna alla Corte di imputati). In assenza di disposizioni di attuazione si corre il rischio di non essere in grado di farlo o comunque di non potere adempiere tempestivamente. Si potrebbe rischiare di trovarsi, ancora una volta, nell’imbarazzante situazione che si verificò in seguito a una richiesta di arresto, detenzione e traferimento del Tribunale per il Ruanda nel caso Seromba (nel 2000). Padre Athanase Seromba era un sacerdote ruandese ricercato dal TPIR per crimini di genocidio (ed è stato poi processato e condannato); egli si trovava in Italia, in provincia di Firenze, ma alla richiesta del TPIR di arrestarlo e trasferirlo ad Arusha (Tanzania), sede del Tribunale, le nostre autorità furono costrette a rispondere che in assenza di una legge di cooperazione e di attuazione dello Statuto TPIR non potevano dar corso alle richieste del TPIR. In seguito padre Seromba fu convinto, attraverso un’intensa attività diplomatica, a lasciare l’Italia e a consegnarsi al TPIR. Soltanto successivamente e probabilmente anche a causa di questo imbarazzante incidente la legge di cooperazione è stata adottata (nel 2002, otto anni dopo l’istituzione del Tribunale; mentre molto più tempestivamente è stata approvata una legge di cooperazione con il Tribunale per l’ex Jugoslavia, che era stata approvato tra il dicembre 1993 e il febbraio 1994). Perché allora non procedere rapidamente all’adozione di una legge di attuazione dello Statuto della Corte penale internazionale? A onor del vero va detto che in passato si sono accumulate iniziative, tanto governative quanto parlamentari (indipendentemente dal colore politico). Quindi non si può dire che l’Italia sia rimasta inerte: vari progetti sono stati presentati e discussi a livello ministeriale, nessuno però è mai andato molto in là nell’esame parlamentare. Adesso è giunto il momento di approvare un progetto di legge. Non bisogna avere paura di sbagliare: serve una legge di attuazione, e qualora non fosse perfetta potrà sempre essere modificata. Una legge di attuazione contribuirebbe a migliorare l’immagine internazionale dell’Italia, metterebbe in grado le istituzioni italiane competenti di rispondere tempestivamente ad eventuali richieste di cooperazione, e potrebbe anche diventare cruciale qualora, malauguratamente, un cittadino italiano dovesse essere accusato di tali crimini. In assenza di una puntuale normativa di attuazione si corre il rischio che il sistema italiano venga considerato carente nella sua capacità di procedere contro i crimini internazionali e si potrebbe addirittura essere esposti all’onta di essere “processati” dalla CPI. Una legge di attuazione sarebbe un modo efficace e privo di retorica per celebrare i dieci anni dalla emozionante adozione dello Statuto di Roma.