Immigrazione ed integrazione sociale

Written by Nicola Rossi Monday, 02 June 2003 02:00 Print

L’immigrazione non è fenomeno destinato a scomparire. È un’esigenza demografica ed economica dei paesi di destinazione ed una valvola di sicurezza per quelli d’origine. È una speranza per molti individui alla ricerca di un modo per migliorare le proprie condizioni di vita. Eppure i paesi ospitanti sembrano oramai ingabbiati in un circolo vizioso. Dove politiche restrittive generano una composizione non ottimale dei flussi migratori legali ed illegali la quale, a sua volta, non fa che accrescere le difficoltà incontrate dagli immigrati nel mercato del lavoro e, di conseguenza, l’ostilità dei cittadini nei loro confronti che inevitabilmente finisce poi per tradursi in politiche ancora più restrittive e discriminatorie.

 

L’immigrazione non è fenomeno destinato a scomparire. È un’esigenza demografica ed economica dei paesi di destinazione ed una valvola di sicurezza per quelli d’origine. È una speranza per molti individui alla ricerca di un modo per migliorare le proprie condizioni di vita. Eppure i paesi ospitanti sembrano oramai ingabbiati in un circolo vizioso. Dove politiche restrittive generano una composizione non ottimale dei flussi migratori legali ed illegali la quale, a sua volta, non fa che accrescere le difficoltà incontrate dagli immigrati nel mercato del lavoro e, di conseguenza, l’ostilità dei cittadini nei loro confronti che inevitabilmente finisce poi per tradursi in politiche ancora più restrittive e discriminatorie. Per interrompere questo circolo vizioso le politiche di «immigrazione zero» dovrebbero cedere il passo a politiche capaci di aprire canali migratori legali e, laddove possibile, migliorare la gamma di capacità professionali delle schiere di lavoratori migranti così come le loro prestazioni sul mercato del lavoro, promovendo un’immigrazione economica gestita, restringendo canali alternativi non collegati alle esigenze del mercato del lavoro, miscelando con cautela l’immigrazione temporanea e quella permanente, operando un bilanciamento tra il contributo sociale presente e futuro fornito dai lavoratori migranti al paese che li ospita ed il costo sociale presente e futuro che essi comportano. Nuovi diritti e doveri dovrebbero, di fatto, andare a scandire la vita di coloro che migrano permanentemente per divenire cittadini delle società occidentali, costituendo la base del processo di integrazione. Mentre i cittadini autoctoni dovrebbero riconoscere che il fenomeno migratorio richiede innovazioni significative ed una politica pubblica più attiva in grado di sostenere i processi di integrazione e, al tempo stesso, capace di far loro percepire chiaramente che qualcuno è al timone ed ha il controllo della situazione. E ancora, nuovi diritti e doveri dovrebbero disciplinare la vita e le relazioni tra i paesi ospitanti e quelli d’origine, nel contesto di un continuo esercizio di cooperazione per la gestione attiva dei flussi migratori sia legali che non. Ed infine, per quanto parlare di una politica comune per l’immigrazione dell’UE possa sembrare ottimistico, le ragioni per definire un insieme di regole comuni per l’ammissione degli extracomunitari non sono mai state così pregnanti.

 

Migranti, profughi, familiari a carico e cittadini nazionali

Negli ultimi dieci anni negli Stati Uniti sono arrivati in media un milione di immigrati legali all’anno e circa 300.000 immigrati illegali. Dal 1990 l’immigrazione totale lorda nella UE è stata, invece, di circa 1,7 milioni di unità all’anno (di cui circa 500.000 illegali), ossia di un terzo più alta rispetto a quella degli USA (la cui popolazione è però di un terzo meno numerosa). I flussi migratori, pur continuando a dipendere dalla vicinanza geografica e dai vincoli storici, hanno subito evoluzioni significative in termini d’origine, destinazione e composizione. L’immigrazione per ragioni familiari continua a predominare e rappresenta il settanta per cento dei flussi verso la UE ed oltre l’ottanta per cento di quelli diretti negli Stati Uniti. Nell’Unione europea il numero di richiedenti asilo e rifugiati è cresciuto in modo sostanziale intorno alla fine degli anni Novanta, a causa di conflitti regionali e nonostante un irrigidimento delle condizioni di ingresso ed accettazione. Infine, tra il 1999 ed il 2000, tanto i flussi migratori permanenti quanto quelli temporanei hanno vissuto un incremento sostanziale volto a soddisfare una sempre crescente domanda di forza lavoro specializzata ed altamente specializzata.

Quella che fa da teatro ai suddetti flussi migratori è un’Unione europea sempre più vecchia. I flussi migratori netti sono giunti a rappresentare circa i due terzi dell’incremento totale della popolazione degli ultimi dieci anni (contro il quaranta per cento degli Stati Uniti) e addirittura i tre quarti in questi ultimi anni, durante i quali quattro Stati membri della UE avrebbero fatto registrare una lieve diminuzione della popolazione se non fosse stato per il contributo numerico degli immigrati.

Con ogni probabilità gli immigrati continueranno a rappresentare la componente più significativa del mutamento demografico nella UE nei prossimi vent’anni, mitigando solo marginalmente le tendenze demografiche nei paesi europei. Per mantenere stabile la porzione di popolazione in età lavorativa nella UE, sarebbe necessario che si verificasse un’immigrazione media netta di 1,4 milioni di persone all’anno da qui al 2050 ma è necessario riconoscere che la probabilità che i flussi migratori netti verso l’Unione a quindici raddoppino è piuttosto ridotta.

Entrambi i fattori di allontanamento ed attrazione che sono alla base dell’immigrazione di cittadini di paesi terzi verso l’UE e gli USA continueranno a permanere nel medio termine e si può dunque dedurre che flussi migratori di moderata entità continueranno a dirigersi verso queste due destinazioni. Ma mentre la maggior parte degli americani, anche quando a favore di politiche più restrittive, tende a riconoscere i benefici economici e culturali dell’immigrazione e ricorda a giusto titolo il ruolo da questa svolto nell’edificazione degli USA, i sentimenti degli europei sono apparentemente in ben più larga misura dominati dal pregiudizio e dall’ostilità. Di fatto l’immigrazione, un tema comunque controverso su entrambe le rive dell’Atlantico, costituisce probabilmente una difficile sfida più al modello culturale degli europei che al loro sistema economico e sociale, e gli immigrati oggi popolano le menti e le coscienze degli europei nativi più che le loro strade e le loro città.

Come è stato acutamente osservato, le istituzioni europee «sono cresciute attorno ad una “cultura dell’immobilità” e sono state concepite non solo per sostenerla ma anche per difenderla …dagli estranei»1. L’ostilità etnica ed il razzismo leggibili sui muri delle città europee, il risentimento esplicito negli occhi dei cittadini di Amsterdam o di Venezia, così come di alcuni quartieri londinesi o della Carinzia non è collegato, come vedremo tra breve, alle conseguenze economiche dell’immigrazione ma, in gran parte, a quello che gli europei percepiscono come un pericolo per le proprie radici culturali tradizionali e, in generale, come un potenziale fattore di distruzione della way of life europea. Questa «cultura dell’immobilità» europea, scolpita nel fatto che 98 cittadini della UE su 100 vivono nel loro paese natale, potrebbe oggi essere alimentata dai con traccolpi legati agli eventi dell’11 settembre che, a loro volta, potrebbero trasformare anche l’impostazione cauta e graduale degli USA in una rigida opposizione. Come sottolineato in seguito all’introduzione di una nuova e severa politica dei visti, una Statua della Libertà che girasse la faccia dall’altra parte potrebbe far perdere all’America la sua «arma segreta: far venire la gente a vedere cos’è l’America».2

Su entrambi i lati dell’Atlantico, quindi, l’immigrazione costituisce un banco di prova per i politici ad alto livello e non meramente l’oggetto di politiche ben congegnate: richiede non già di rafforzare i pregiudizi, ma di incidere sulle emozioni della gente e di parlare simultaneamente le lingue della verità e della rassicurazione.

 

Leggende, miti e paure

Anche paesi con una consolidata tradizione di ospitalità manifestano tensioni sempre crescenti tra i nuovi arrivi e la popolazione originaria. Tali tensioni, che tendono ad essere capitalizzate dai partiti dell’estrema destra, scaturiscono dall’idea che l’immigrazione sia un fenomeno «non gestito ed incontrollato» e generano preoccupazioni diffuse ma non fondate su reali dati di fatto. Se interpellati, cinque-sei europei su dieci e oltre quattro cittadini statunitensi su dieci indicano l’immigrazione come la causa dei problemi interni e considerano la presenza degli immigrati una minaccia per il loro posto di lavoro ed il proprio salario. Inoltre cinque europei e cinque americani su dieci danno per scontato il fatto che gli immigrati fruiscano più dei nativi dei sussidi assistenziali e che quindi sfruttino il sistema della sicurezza sociale. Sulla base dei dati disponibili entrambe queste convinzioni si rivelano, seppure in diversa misura, infondate.

Per quanto riguarda l’impatto della presenza di lavoratori stranieri sulle remunerazioni di quelli nazionali, le stime UE indicano che un incremento di lavoratori stranieri pari al dieci per cento potrebbe causare ai nativi al massimo una perdita salariale dell’uno per cento. Lo stesso dicasi dell’idea che i lavoratori originari del paese possano essere soppiantati dagli immigranti: ancora una volta le chances dei nativi della UE di trovare un lavoro o di lasciarsi la disoccupazione alle spalle non sono apparentemente influenzate negativamente dall’immigrazione. Del resto, ci si può attendere che il mercato del lavoro sostenga integralmente l’onere dell’adeguamento solo in condizioni molto specifiche, che peraltro hanno ben poche speranze di materializzarsi. Ben lungi dal creare effetti avversi sul mercato del lavoro, gli immigranti possono di fatto servire, soprattutto nella UE, come una riserva di forza lavoro flessibile che va in parte a compensare la scarsa mobilità tanto geografica quanto funzionale dei nativi.

Se gli immigranti non ci «rubano» il lavoro, «abusano» forse, come potrebbero pensare molti europei ed americani, del nostro sistema assistenziale? Ancora una volta la risposta è: «non necessariamente», e comunque, in misura molto limitata. Se prendessimo pienamente in considerazione le caratteristiche degli immigrati, se il loro basso livello di istruzione, una più bassa età media ed un maggior tasso di fertilità fossero contabilizzati adeguatamente, allora scopriremmo che stranieri e nativi hanno le stesse probabilità di dipendere dal sistema assistenziale. Quando ciò non si verifica, il fattore chiave sembra essere la generosità di qualche sistema assistenziale statale e la sua insita predisposizione ad agire da «calamita assistenziale» e a distorcere la composizione della popolazione immigrata.

Infine, se gli immigranti non «abusano» del nostro welfare, non ci si può certo attendere che siano loro a salvarlo. Non sarebbe realistico affidarsi completamente ai flussi di immigrati per risolvere il problema dell’invecchiamento della popolazione ed affrontare l’onere implicito che tale problema fa gravare sulle finanze pubbliche. Stime relative agli Stati Uniti segnalano che l’impatto fiscale aggregato netto dell’immigrazione è probabilmente molto limitato nel lungo termine. Ciò fornisce tra l’altro un indizio sui conflitti politici sostanziali che caratterizzano il dibattito sulla politica dell’immigrazione: la questione è quasi interamente distributiva con vincenti e perdenti identificati piuttosto chiaramente.

 

Barriere ed amnistie, contingenti e punti

La politica europea di «immigrazione zero» degli ultimi venti anni ha condotto alla coesistenza di flussi migratori illegali (circa 500 000 persone all’anno) e di massicce ondate di richiedenti asilo e persone a carico, creando così una situazione di carenza sempre maggiore di forza lavoro specializzata. Nello stesso modo, la scelta americana di combinare un sistema di accessi preferenziali e di quote con un controllo alle frontiere rigido, dispendioso e quasi completamente inefficace (sovente volutamente inefficace) ha finito per favorire bassi livelli di istruzione degli immigranti ed ingressi illegali. Va aggiunto che, a partire dal secondo dopoguerra, i severi regimi di controlli alla frontiera hanno finito per aprire la strada a ripetute amnistie sia nella UE (quattro in Spagna, tre in Portogallo e due in Francia, ad esempio, e non meno di cinque in Italia, dove si stima che l’ultimo esercizio di regolarizzazione abbia fornito un canale all’accesso legalizzato a qualcosa come 800.000 immigrati illegali) che negli USA (nel 1986, quando il permesso di residenza fu concesso a oltre 2,5 milioni di persone). Con una maggior efficacia dei controlli alle frontiere, l’afflusso di immigranti illegali potrebbe in teoria diminuire, ma i familiari a carico degli immigrati ed i rifugiati continueranno comunque a premere alle frontiere dell’UE e degli USA e ad alimentare un flusso permanente di forza lavoro scarsamente qualificata.

I francesi e gli italiani, gli austriaci ed i tedeschi possono, dunque, pure accontentarsi delle loro tate, dei camerieri, delle badanti e dei lavavetri extracomunitari. Dopotutto occupano posti che i nativi nelle liste di disoccupazione rifiuterebbero. E i datori di lavoro statunitensi possono anche dirsi soddisfatti dei loro operai non specializzati o dei loro raccoglitori di cipolle. Questa rimane comunque una scelta che si paga cara. È qui, infatti, che il cerchio si chiude. La composizione dei flussi migratori in termini di istruzione e professionalità, ma anche del canale (legale o illegale) d’entrata è in larga misura endogena e determinata dalle attuali politiche di regolamentazione, che associano alte barriere formali per l’immigrazione a scopo lavorativo e barriere relativamente basse per la riunificazione familiare e l’immigrazione per motivi umanitari. Quanto più severe sono le politiche prescelte, tanto più problematico sarà il flusso (legale e non) di immigrati dal punto di vista della prestazione in seno al mercato del lavoro e di dipendenza dal sistema assistenziale. Più problematico è l’inserimento nel mercato del lavoro, più ostile sarà l’atteggiamento dei nativi nei confronti degli immigrati e la pressione a favore di un trattamento preferenziale da accordare ai cittadini europei o statunitensi rispetto a quelli extracomunitari o non statunitensi. Quanto più profondo sarà l’astio sociale (e nell’UE la paura di perdere i tratti dell’identità nazionale), tanto più restrittive e discriminatorie diverranno le politiche. E così via in una spirale infinita che può anche lasciar spazio alle specificità nazionali (l’Irlanda e la Finlandia, ad esempio) come pure alle prese di posizione individuali (visto che l’istruzione sembra essere il migliore antidoto all’ostilità etnica), ma che rappresenta con una certa accuratezza la società europea e, in misura diversa, di quella USA.

Un radicale capovolgimento dell’atteggiamento europeo, ed in parte di quello americano, nei confronti dell’immigrazione è necessario per scongiurare gli sviluppi citati, che spesso finiscono per violare i diritti fondamentali sia degli immigrati che dei nativi. Per spezzare il circolo vizioso è necessario approntare politiche mirate ad aprire nuovi canali d’accesso per l’immigrazione legale nell’UE e, ancora una volta, in misura diversa, anche negli USA. Politiche volte a migliorare le capacità professionali delle moltitudini di immigrati nonché le loro prestazioni in seno al mercato del lavoro, a promuovere un’immigrazione economica gestita, restringendo canali alternativi non collegati con le esigenze del mercato del lavoro e prendendo nella debita considerazione la necessità di trovare un equilibrio tra coloro che migrano per ragioni economiche e coloro che sono invece a carico di questi ultimi, in modo da ridurre la dipendenza dal sistema assistenziale e rafforzare gli incentivi ad investire nel capitale umano specifico di un paese. Per tutto ciò che riguarda l’immigrazione, il laissez-faire non è una via percorribile (se mai lo è stata). La realtà dei fatti indica che neppure un atteggiamento normativo di grande rigidità rappresenta un’opzione valida. Una politica di immigrazione gestita che combini con oculatezza immigrazione temporanea ed immigrazione permanente e riesca a bilanciare i contributi sociali presenti e futuri degli immigrati al paese ospite ed i costi sociali presenti e futuri che la loro presenza comporta può, di fatto, rappresentare un’opzione valida e ispirata al progresso sociale ed economico. Quest’impostazione bilanciata nei confronti dell’immigrazione non farà cessare totalmente i tentativi di accesso non autorizzato ma, se associata ad una continua cooperazione con i paesi di provenienza, potrà certo contribuire a contenere gli afflussi illeciti molto più di quanto non possa fare qualsivoglia strategia restrittiva.

 

Diritti e doveri

Qualsiasi sia il futuro della politica per l’immigrazione in Europa, gli attuali flussi migratori sono comunque destinati a cambiare la vita quotidiana in Europa e richiedono una significativa ridefinizione dei diritti e dei doveri che costituiscono il tessuto delle relazioni personali e collettive nei paesi di destinazione come pure di quelle tra paesi ospiti e di provenienza. Ciò è già avvenuto negli USA nel 1996, quando la normativa, solo parzialmente modificata in seguito, operò un taglio netto rispetto alla precedente politica di equalizzazione tra nativi ed immigrati.

Nuovi diritti e doveri dovrebbero segnare la vita degli immigrati permanenti in quanto cittadini delle società occidentali e rappresentare la base stessa del processo di assimilazione: il dovere di seguire i canali dell’integrazione, quali i corsi obbligatori di lingua ed i diritti connessi al loro stato occupazionale (condizioni salariali e di lavoro) o al loro status politico (diritto di voto alle elezioni locali). Il diritto di fruire di una politica dell’immigrazione attenta alle condizioni del mercato del lavoro, si associa, per gli imprenditori locali, all’onere maggiore da sostenere nella lotta all’immigrazione illecita. Multe salate a sanzione dell’ingaggio di manodopera clandestina e ispezioni a sorpresa e casuali sul luogo di lavoro dovrebbero divenire la regola piuttosto che l’eccezione.

Anche la popolazione locale dovrebbe riconoscere che il fenomeno dell’immigrazione richiede innovazioni sostanziali e un ruolo più attivo delle politiche pubbliche: il risentimento dei genitori di fronte ad una classe in maggioranza composta di allievi stranieri (tanto per citare una situazione tipicamente italiana) non dovrebbe essere inteso come rivolto verso i figli degli immigrati (che magari lavorano per i genitori degli allievi nativi), ma verso un sistema educativo che non prevede corsi propedeutici di lingua. Quanto più gli immigrati dominano la lingua, tanto più sono in grado di partecipare al mercato del lavoro, di migliorare la propria formazione professionale e di far avanzare il processo di convergenza tra immigrati e nativi. È la distanza linguistica il più importante fattore individuale che va a limitare l’integrazione degli immigrati sul mercato del lavoro: la formazione linguistica rivolta a loro, ma anche al coniuge ed alla prole, dovrebbe assumere un ruolo prioritario. In questo senso la recente esperienza olandese merita grande attenzione, perché ha condotto ad un importante cambiamento nel modo di vedere gli immigrati da parte dell’opinione pubblica: non più un gruppo passivo ma un gruppo di persone dotate di potenziale.

L’integrazione è un processo, non un evento, la cui realizzazione può richiedere più di una generazione: sostenere oggi il processo di integrazione è tanto importante per le politiche pubbliche quanto il riuscire a dare alla popolazione locale la chiara percezione che il fenomeno dell’immigrazione è gestito con grande attenzione e fermezza. Una popolazione dinamica non sopporta una politica pubblica statica.

 

 

Bibliografia

1 Michael Burda in Tito Boeri, Gordon Hanson e Barry McCormick (a cura di), Immigration Policy and the Welfare System,Oxford, Oxford University Press, 2002, p. 152.

2 Bill Reinsch, The Financial Times, 29 gennaio 2003, p.11.