Autonomia, responsabilità e merito per la qualità universitaria

Written by Vittoria Franco Thursday, 01 April 2004 02:00 Print

Nella qualità dell’università risiede il futuro di un paese. Questa oggi è una verità con la quale la politica deve fare i conti con responsabilità e lungimiranza. Ci si deve domandare come mai nella storia della Repubblica raramente l’intero sistema del sapere sia stato al centro dell’attenzione nella misura in cui accade da qualche anno. Ciò è dovuto al fatto che sono intervenute novità importanti sul piano culturale, sociale e istituzionale. Ne indico solo tre.

 

Nella qualità dell’università risiede il futuro di un paese. Questa oggi è una verità con la quale la politica deve fare i conti con responsabilità e lungimiranza. Ci si deve domandare come mai nella storia della Repubblica raramente l’intero sistema del sapere sia stato al centro dell’attenzione nella misura in cui accade da qualche anno. Ciò è dovuto al fatto che sono intervenute novità importanti sul piano culturale, sociale e istituzionale. Ne indico solo tre.

Primo. Vi è una cognizione più diffusa e profonda del valore del sapere come la risorsa più preziosa della quale un individuo, una comunità, un paese possa disporre come mezzo di crescita individuale e collettiva. Secondo. È aumentata la domanda di sapere e di un’offerta di istruzione e di formazione più qualificate, dovuta al fatto che i mutamenti indotti dai progressi scientifici e tecnologici sono molto più veloci, e che anche il mondo del lavoro è chiamato a cambiamenti continui, pena il crollo della produzione, come troppe volte sta accadendo negli ultimi anni, con la conseguenza di un impoverimento nel tessuto di vocazioni produttive consolidate e di un rallentamento nello sviluppo economico e sociale. La maggiore richiesta di sapere è però anche legata a una domanda di pari opportunità e di eguale cittadinanza. Tutto questo richiede di portare a compimento il passaggio, finora lento e quasi spontaneo, dall’università destinata a pochi a una università di molti. Terzo. L’Unione europea ha contribuito enormemente a focalizzare il problema e ad accelerare i processi di adeguamento al nuovo, dandosi obiettivi ambiziosi ed elaborando nuove strategie di sviluppo. L’obiettivo di costruire una società e un’economia della conoscenza, fissando il 2010 come prima tappa, ha costituito per i paesi membri, anche per l’Italia, un rilevante impulso al cambiamento. Da tali mutamenti bisogna partire nelle analisi e nelle proposte. Le strategie politiche di riforma dell’università, dalla didattica alla ricerca, ai rapporti con il mondo del lavoro, devono avere come stella polare il mutamento complessivo della missione, che deriva dalla constatazione semplice che da una società a ridotto tasso di cambiamenti significativi siamo passati in pochi decenni a essere una società in continua trasformazione, interdipendente e con una moltiplicazione di figure professionali.

Se prendiamo in considerazione gli elementi di crisi dell’istituzione università, non solo in Italia, ma in tutta Europa, ne troviamo almeno due che non solo giustificano, ma costringono ad avviare o a proseguire un serio processo riformatore, pena la decadenza. a) Si è parlato a lungo della crisi del modello humboldtiano dell’università, cioè del modello di università per le élite, per una cerchia ristretta destinata a divenire classe dirigente nella politica e nelle professioni. Da tempo ormai l’università non ha più quella funzione come missione esclusiva o prevalente. La crisi di quel modello oggi è legata sia a mutamenti sociali che difficilmente ne tollererebbero la sopravvivenza, sia al fatto che contemporaneamente sono state superate o ridimensionate le culture fondamentali che avevano accompagnato il definirsi della fisionomia dell’università: il positivismo, lo storicismo, l’idealismo. Nel passaggio dall’università per pochi a quella per molti, e potenzialmente per tutti, si è cominciato a ridefinire in parte la sua missione attuale, la sua struttura, il suo assetto. Oggi però bisogna ripensarla anche in funzione dell’ambizione europea di costruire la società della conoscenza. È questa, io ritengo, la novità delle novità che ci spinge oltre anche il passato recente. Concorrere a realizzare quell’obiettivo significa rivedere molti aspetti dell’organizzazione e della fisionomia complessiva dell’università. b) Il secondo elemento di cui bisogna tenere conto nell’analisi della condizione attuale dell’università è legato a un movimento più complessivo: la crisi dello Stato-nazione, della condizione cioè che aveva prodotto il precedente modello, quello che ha resistito a lungo nel tempo. Anche quella crisi ci costringe a superare con maggiore consapevolezza il modello di università radicato nello Stato-nazione e a proiettarci in una dimensione totalmente nuova che deriva dal fatto che siamo ormai pienamente immersi nello spazio europeo e globale dello scambio di sapere. Non possono più esistere orti circoscritti. Bisogna rimuovere i residui ancora solidi e diffusi di autoprotezionismo, nonostante la posizione dell’università italiana sia da alcuni anni una posizione in movimento. Questo è stato in parte prodotto dalla forza delle cose, dai mutamenti sociali e culturali, più che da un processo programmato, in parte è frutto di riforme anche rilevanti che possono costituire ancora la base sulla quale si continua a costruire anche per inserirsi nello spazio europeo. Creare uno spazio europeo implica anche accettare di creare, come si sta cercando di fare, titoli di laurea confrontabili, il sistema dei crediti, l’aumento della mobilità con programmi europei comuni, sistemi di valutazione e curricula.

La novità più rilevante sul piano istituzionale e di governo è stata il riconoscimento dell’autonomia. Essa costituisce lo strumento indispensabile per ridisegnare la nuova fisionomia dell’università, quella che le può consentire di stare nello spazio europeo con autorevolezza ed efficienza, anche se va arricchita e perfezionata con adeguate forme di governance.1 La legge di riforma degli ordinamenti didattici va nella stessa direzione, anche se la sua applicazione non è stata governata come era necessario. Si può e si deve cominciare tuttavia a farne un bilancio per valutare i possibili aggiustamenti, non certo per tornare indietro. Tornare indietro significherebbe contraddire il modello praticato in quasi tutti i paesi europei, che prevede una struttura di corsi a due livelli.

Bisogna aggiungere che lo stato di crisi dovuto al bisogno urgente di riforme debitamente governate è diventato sofferenza profonda negli anni di governo del centrodestra. Si tratta di un vero e proprio collasso, come ha denunciato Piero Tosi, presidente della CRUI, nella «Prima relazione sullo stato delle università italiane». Collasso dovuto a un disinvestimento economico e all’assunzione di provvedimenti che riportano indietro verso una limitazione dell’autonomia. È vero che le risorse non sono tutto e non risolvono il complesso delle questioni che l’università ha di fronte a sé,2 esse tuttavia costituiscono la condizione indispensabile anche per qualsiasi processo riformatore e di riqualificazione dell’università. È vero, inoltre, che occorre trovare forme di incentivazione di investimenti privati soprattutto nella ricerca, ma questi potranno essere tanto più consistenti quanto più saranno significative le risorse pubbliche. Ed è questa la condizione anche per preservare l’università come bene pubblico, di interesse di tutta la comunità nazionale ed europea. Occorre dunque riformare a partire dalle luci e dalle ombre del nostro sistema, avendo come direttrice gli obiettivi europei.

Parto da alcuni dati che fotografano la posizione italiana nel panorama internazionale.

Il primo dato significativo è il basso numero dei nostri laureati: il 18% nel 2000 rispetto a una media europea del 25%. Siamo in coda alla classifica, mentre siamo addirittura ultimi nella percentuale di conseguimento del dottorato di ricerca. Se assumiamo la definizione di università di massa che dà Martin Trow – tasso di iscrizioni fra il 15 e il 35% della platea in età e ampliamento degli obiettivi e diversificazione delle risposte per rispondere alla pluralità di bisogni degli studenti – noi restiamo in bilico: ci troviamo ad avere un’università in cui pochi hanno successo, senza essere più università di élite. Questo è il problema. Essa non ha ancora acquisito interamente la fisionomia che le nuove missioni richiedono: formare in gran numero cittadini e lavoratori dotati di un elevato livello di istruzione e ricercatori di qualità e di eccellenza in grado di contribuire a costruire la società della conoscenza.

E invece, resta ancora marginale l’accesso per i ceti sociali economicamente più disagiati, mentre la società della conoscenza richiede di valorizzare i talenti tutti, indipendentemente dallo strato sociale di appartenenza, dovunque si trovino. È una questione di nuova forma di giustizia sociale, che contiene dentro di sé la dimensione di accesso diffuso al sapere, ma anche di necessità per un paese moderno che voglia essere partecipe di uno sviluppo più solido del continente europeo. Se questa è la situazione, occorre investire molto di più sul diritto allo studio: borse di studio per gli studenti meno abbienti, servizi, residenze, tutoraggio, biblioteche, con investimenti mirati che rendano possibile anche «abitare» l’università, oltre che frequentarla. Consentire agli studenti di abitare l’università significa anche stabilire una loro centralità nella riorganizzazione della didattica e dei corsi di laurea. Significa poter rispondere meglio ai bisogni dei massimi stakeholders, dei più importanti portatori di interessi dell’università. Già questa costituirebbe una rivoluzione nella nostra pratica tradizionale, nell’abitudine a concepire l’insegnamento universitario prevalentemente, se non esclusivamente, come una relazione docente-studente disinteressata, non anche finalizzata alla formazione. Mentre il passaggio da una missione unica a una pluralità di finalità richiede una organizzazione in grado di rispondere a molteplici domande di sapere generale e di sapere specifico. Vi è la domanda di eccellenza che porta a un percorso lungo di ricerca e la domanda di formazione qualificata con tempi più brevi, ma che prepari a una migliore occupabilità. Vi è inoltre una domanda crescente, non contemplata nel passato, di formazione lungo tutto l’arco della vita. Come l’università si attrezza per rispondere a tale crescente domanda di differenziare l’offerta, spesso tenendo conto anche di peculiarità territoriali che richiedono di sviluppare l’una o l’altra delle possibilità, in sintonia con le vocazioni di una determinata regione o città? Una risposta è costituita dalla recente riforma dell’ordinamento «tre più due», ma è ancora insufficiente. L’insufficienza è rappresentata non tanto dagli assetti previsti, quanto dal fatto che la gran parte dell’università non è riuscita a compiere completamente il passo audace di rivedere radicalmente l’organizzazione della didattica e dei suoi contenuti per adattarla non solo al percorso più breve, ma alle nuove finalità dei due segmenti. Ne risulta che per lo più essa è consistita quasi esclusivamente in una contrazione dei programmi e non è riuscita pienamente in uno degli obiettivi: diminuire la dispersione e il numero dei fuori corso, un numero davvero eccessivo (circa il 40% degli iscritti) che comporta un dispendio di risorse per le università. Il bilancio necessario dell’attuazione della riforma, peraltro previsto allo scadere del primo triennio di applicazione, dovrà portare non a rivedere i suoi contenuti essenziali – come da molte parti si suggerisce – ma a riadattarli meglio alla diversità della domanda, entrando cioè con maggiore consapevolezza nello spirito della riforma: ripensare la missione dell’università come missione molteplice e, di conseguenza, differenziare l’offerta della formazione universitaria, mantenendo quella qualità che solo l’università può garantire in quanto istituzione nella quale ricerca e didattica sono collegate. A correzione di alcuni aspetti che non hanno prodotto i risultati previsti, si può pensare a corsi quinquennali in parallelo o ad autonomie di settore, come può essere per la facoltà di medicina o per facoltà altamente professionalizzanti, che possono decidere in autonomia ordinamenti e regole di reclutamento, previa legiferazione sulle linee essenziali.

È comprensibile che un mutamento nella forma della didattica, che rompe con l’impostazione tradizionale chiamata a garantire un’unica finalità, comporti anche un carico psicologico non irrilevante per il docente di lunga esperienza. Ed è altrettanto comprensibile l’amarezza di molti studiosi eccellenti che si sentono sminuiti dai nuovi moduli didattici e sono tentati di lasciare l’insegnamento prima del tempo. Ma la risposta non può essere la nostalgia per il passato. In futuro lo sforzo dovrà consistere nel creare modelli didattici e di ricerca che diano valore a quelle eccellenze, non le sminuiscano. La facoltà deve poter decidere, ad esempio, se destinare i docenti solo ai corsi di specializzazione o di dottorato. Un’università che non potesse o non volesse fare questo sarebbe certamente un’università più povera e meno autonoma. L’autonomia deve consentire anche di diversificare, se è il caso, gli impegni didattici distribuendoli sulle diverse finalità. La presunta eguaglianza dei docenti, indipendentemente dall’esperienza e dalla qualità della produzione scientifica di ciascuno, è un altro tabù che bisogna superare.

La differenziazione nelle missioni, da quelle classiche e consolidate a quelle «emergenti», richiede la semplificazione delle figure dei docenti o una loro più ricca articolazione? Io credo che la risposta consista nella seconda ipotesi. Fermo restando che ricerca e didattica debbano costituire i requisiti imprescindibili del docente universitario, bisogna saper premiare la maggiore e migliore produzione scientifica, da un lato e, dall’altro, ampliare la platea degli aspiranti, quali sono i ricercatori. Tenere a lungo in uno stato di precarietà i giovani aspiranti docenti universitari non è una buona condizione per trattenere e valorizzare i talenti migliori. Si sa che nel nostro paese si arriva a un concorso per ricercatore dopo un percorso lungo di studio e di addestramento alla ricerca: specializzazione, dottorato, borse post-dottorato, borse all’estero nei casi migliori, ricercatore a contratto. È un tempo che consente di produrre e mettere in grado di essere selezionati con cognizione di causa per il primo livello. Allungarlo ulteriormente significa di fatto trattenere nel settore solo i più abbienti e magari non proprio i migliori. E d’altra parte, creare contemporaneamente la possibilità di riconoscimento anche di carriera agli studiosi e agli scienziati migliori significa incentivare positivamente la carriera legata al merito. Presupposto di tutto questo è che mutino i criteri di valutazione e di selezione e che si ponga al primo posto il valore scientifico. Chiunque abbia frequentato anche per poco l’università sa che spesso non è così, che prevalgono fattori diversi come l’appartenenza a un gruppo, la convenienza economica dell’università nel privilegiare i propri concorrenti, la sedentarietà a scapito della mobilità che è invece necessaria a moltiplicare interessi, metodologie, capacità di innovazione, esperienze di confronto con realtà differenti. Il rischio è una vera e propria asfissia nella capacità di sviluppo della ricerca. Va ricordato che uno dei pregi delle migliori università statunitensi deriva proprio dalla mobilità come regola e abitudine. Nessuno studente fa il dottorato a Stanford se quella è l’università che ha frequentato e nessun ricercatore può iniziare la carriera dove ha frequentato il dottorato. È un’ottima regola che consente meglio di selezionare i migliori, ma che richiede anche un’etica condivisa da parte di chi è chiamato a selezionare. Dovrebbe esistere una seria ed efficace struttura di valutazione che obblighi a selezionare i migliori, pena sanzioni, in una istituzione che attraverso i singoli si faccia carico del complesso del sistema e superi il vizio storico del docente universitario italiano, l’individualismo.

Si tratta, infatti, di meccanismi meritocratici che funzionano e creano efficacia ed efficienza se si istituisce un circuito di valutazioni dell’università e dei singoli in base a criteri trasparenti. Credo anch’io che l’autonomia e l’autogoverno dell’università non possano essere slegate dalla responsabilità, dall’accountability, dal rendere conto pubblicamente della qualità della ricerca e della didattica e del lavoro svolto nella differenziazione degli obiettivi e nell’interazione con le domande del territorio, del suo tessuto sociale e produttivo. Mi pare che la strada sia già tracciata e che occorra percorrerla con più decisione. Vanno potenziati circuiti virtuosi fra autonomia, produzione di ricerca, qualità della didattica e valutazione, che facciano fare alle università italiane quel salto necessario per collocarle a pieno titolo nello spazio europeo del sapere. È interessante la proposta di Treelle di un’Agenzia nazionale di valutazione, esterna e indipendente rispetto all’autorità del governo centrale e agli atenei, che svolga una funzione di authority, per assicurare l’imparzialità del processo valutativo.

Certamente, si rafforza così lo spirito di competizione fra le università, che già esiste, ma verte più che sulla qualità, sulla quantità dell’offerta formativa. Non ritengo che la competizione sia un male; anzi, essa può servire a incrementare qualità ed efficienza, ad attrarre talenti da formare e ricercatori e studiosi anche da altri paesi. Non bisogna però mai trascurare una condizione: che siano garantiti a tutte le università i livelli essenziali di qualità, che siano tutte messe in condizione di competere e di migliorare. Non si può trattare di una selezione naturale, giacché questo sarebbe dannoso per l’intero sistema. Bisogna ottenere una crescita complessiva e creare eccellenze diffuse, non aree di impoverimento progressivo.

Nella crescita complessiva del sistema, deve trovar luogo anche una migliore organizzazione del dottorato di ricerca. Questo terzo livello di formazione superiore ha in Italia una storia recente, ma ciò non può giustificare lo scarso investimento in una migliore definizione della sua fisionomia e dei suoi compiti. Il dottorato è ancora alla ricerca di un’identità, viene spesso relegato nelle pieghe della funzione docente, frutto di un’attività di volontariato più che di un impegno didattico programmato dalle università competenti. Ha ancora una natura incerta, e finisce per non essere né serio avviamento alla ricerca, né migliore formazione per le imprese. Forse anche questo spiega il bassissimo numero di dottorati nel nostro paese: 16 ogni 100.000 abitanti. Siamo gli ultimi in Europa. Intervenire su questo aspetto rappresenta un’altra condizione per contribuire meglio allo spazio europeo del sapere e della ricerca.

La multiversità delle istituzioni deputate all’alta formazione non deve far perdere di vista la missione storica dell’università: la ricerca. L’80% della ricerca fondamentale viene svolta nelle università pubbliche. Ed è così in tutto il mondo, anche negli Stati Uniti. È una favola da smentire che in America la ricerca sia in gran parte finanziata con risorse private. È vero invece che lì anche le università private ricevono dal governo federale le risorse per la ricerca di base, e che il finanziamento privato è riservato prevalentemente a quella applicata. La maggiore efficacia che differenzia quel sistema è la costruzione, nel corso di vari decenni, di un efficiente sistema integrato fra ricerca, innovazione e impresa. Ciò spiega l’esistenza di sistemi produttivi di eccellenza in aree nelle quali esistono centri di ricerca di eccellenza. Sono sistemi strettamente integrati, nei quali si realizza uno scambio proficuo anche fra università e impresa, ma nella completa autonomia dei due settori.

Nel nostro paese questa difficoltà di integrazione comincia a pesare anche sulla ricerca, oltre che sulle imprese. È molto importante che le parti sociali, sindacati e Confindustria, abbiano sottoscritto un patto nel quale la formazione e la ricerca compaiono al primo posto nelle priorità dell’agenda politica. Questa è la condizione per accrescere le risorse e avvicinarsi all’obiettivo fissato nel Consiglio europeo di Barcellona, che prevede di arrivare a destinare alla ricerca il 3% del PIL entro il 2010 (obiettivo ormai difficilmente raggiungibile per il nostro paese, dove l’investimento in ricerca non arriva all’1%). Solo con un investimento solido e certo in ricerca e innovazione tecnologica l’Italia e l’Europa possono tentare di partecipare alla competizione mondiale, competere con Giappone, Stati Uniti e Cina. Diversamente, il timore fondato e denunciato dalle forze produttive del paese è che la crisi della nostra economia diventi irreversibile. Esse denunciano «il rischio di uno sviluppo senza ricerca e un ulteriore allontanamento dai grandi paesi industrializzati». Se è vero che oggi come non mai è la ricerca il motore dello sviluppo, essa diventa una priorità e richiede investimenti in misura maggiore di quanto non sia stato fatto finora.

Nella rivalutazione complessiva del sistema della ricerca rientrano l’incremento del numero dei ricercatori, molto più basso rispetto ad altri paesi avanzati, la loro mobilità interna, in Europa e in altri paesi, il loro ringiovanimento (tentare, come ha fatto l’attuale governo di centrodestra, di impedire proprio questi sviluppi necessari, bloccando le assunzioni nelle università e negli enti di ricerca nelle ultime leggi finanziarie, è stata una manifestazione di intollerabile miopia).

Resta il problema comune, sia pure in misura diversa, a tutti i paesi europei di come reperire le risorse necessarie da destinare alle università. Non a caso è una delle questioni centrali affrontate nella Comunicazione della Commissione svolta a Bruxelles il 5 febbraio del 2003: «Il ruolo delle Università nell’Europa della conoscenza», nella quale un capitolo è dedicato proprio a come aumentare e diversificare le entrate delle università. Gli argomenti sono interessanti. Viene giudicata difficile da percorrere in Europa la strada americana delle donazioni private, perché si tratterebbe di un lavoro lungo che consiste nel creare una tradizione e un’abitudine che ha un lungo corso in altri paesi, e perché bisognerebbe introdurre incentivi fiscali equi. Tuttavia, non è affatto una strada da escludere, ma da approfondire studiando forme efficaci, senza necessariamente alterare la natura giuridica delle università (come sarebbe la Fondazione). Viene invece proposta come più «europea» la strada dell’aumento delle risorse mediante la vendita di servizi. In questo caso, il rapporto col territorio sarebbe fondamentale per creare una dinamica tra domanda e offerta. Fra i servizi vengono individuati quelli alle imprese, legati allo «sfruttamento dei risultati della ricerca», ma anche derivanti dalle domande di apprendimento lungo tutto l’arco della vita. Non vengono escluse neanche possibilità di aumenti ragionevoli delle tasse studentesche, se commisurate alle reali possibilità economiche, finalizzate a migliorare i servizi per gli studenti e se dovessero crescere le effettive possibilità di prestiti d’onore e di borse di studio.

Continuiamo a discutere e a confrontarci, ma sapendo che è tempo di riforme serie, non di piccoli aggiustamenti.

 

 

Bibliografia

1 Su questo tema si rinvia alle interessanti proposte di Luciano Modica (A partire dall’autonomia, www.dsonline.it ).

2 Cfr. N. Rossi e G. Toniolo, L’università italiana: autonomia o decadenza, in «Italianieuropei», 1/2004.