Conoscenza, mercato, solidarietà

Written by Enzo Di Nuoscio Monday, 01 November 2004 02:00 Print

La relazione tra competitività e giustizia sociale è certamente il tema su cui, in questi anni, le sinistre di governo si sono maggiormente interrogate, non di rado lacerate – e proprio l’Ulivo ne sa qualcosa con la caduta del governo Prodi – di fronte a quella che è stata spesso percepita come una alternativa tra le ragioni dell’economia (particolarmente severe in tempi di crisi economica) e quelle della solidarietà. Un dilemma che ha opposto il cuore alla mente della sinistra, provocando continui e fastidiosi mal di pancia. Mal di pancia, non è difficile prevedere, che sono destinati ad acutizzarsi in vista della Grande Alleanza Democratica (GAD), la quale dovrà fare i conti con l’aspro confronto tra la sinistra riformista e quella sinistra radicale che, uscita irrobustita dalle elezioni europee, non ha perso tempo a chiedere un centrosinistra «più di sinistra», cioè più attento alle ragioni della solidarietà.

 

La relazione tra competitività e giustizia sociale è certamente il tema su cui, in questi anni, le sinistre di governo si sono maggiormente interrogate, non di rado lacerate – e proprio l’Ulivo ne sa qualcosa con la caduta del governo Prodi – di fronte a quella che è stata spesso percepita come una alternativa tra le ragioni dell’economia (particolarmente severe in tempi di crisi economica) e quelle della solidarietà. Un dilemma che ha opposto il cuore alla mente della sinistra, provocando continui e fastidiosi mal di pancia. Mal di pancia, non è difficile prevedere, che sono destinati ad acutizzarsi in vista della Grande Alleanza Democratica (GAD), la quale dovrà fare i conti con l’aspro confronto tra la sinistra riformista e quella sinistra radicale che, uscita irrobustita dalle elezioni europee, non ha perso tempo a chiedere un centrosinistra «più di sinistra», cioè più attento alle ragioni della solidarietà. Così, agli occhi di una parte consistente del cosiddetto popolo di sinistra, sembra profilarsi quella che per molti rappresenta un’alternativa ugualmente scongiurabile: riproporre, magari in forme più razionali, logiche di intervento statale nell’economia, pur di tutelare i diritti sociali dei più svantaggiati, ovvero cedere in qualche modo a quello che viene visto come un liberismo che intacca seriamente la rete di protezione sociale.

Tre sono, in buona sostanza, le obiezioni provenienti, più o meno esplicitamente, da una certa sinistra, e anche da un certo mondo cattolico, circa la possibilità di conciliare economia di mercato e solidarietà: 1) un’«argomentazione storica»: il mercato ha aumentato le disuguaglianze; 2) un’«argomentazione sociologica ed economica»: la logica della competizione è incompatibile con, o comunque è una minaccia per, la tutela dei più svantaggiati; 3) un’«argomentazione politica»: un regime di autentico libero mercato implica necessariamente uno «Stato debole», il quale, benché legittimato dal popolo, sarebbe sostanzialmente svuotato del vero potere, che invece si depositerebbe nelle dinamiche di mercato non controllabili democraticamente.

 

Il mercato ha ridotto le disuguaglianze

Riguardo alla prima obiezione, va detto che non occorre una grande conoscenza della storia per rendersi conto di quanto sia falsa questa «tesi storica». Il mercato è stato quel tipo di organizzazione economica e sociale che ha prodotto più ricchezza e progresso sociale. Ed è difficile non concordare con Friedrich von Hayek quando osserva che nei paesi capitalistici – quelli nei quali il mercato si è affermato dentro le regole dello Stato di diritto – si è storicamente registrata la più sensibile riduzione delle distanze sociali ed economiche tra i ceti più ricchi e quelli più poveri. In tali paesi, oltre a essere stata alleviata la «povertà relativa», per la prima volta nella storia è stata eliminata la «povertà assoluta».

 

Concorrenza e solidarietà

Tra economia di mercato e tutela dei più svantaggiati non solo non vi è inconciliabilità di principio o di fatto, ma tra di esse, ad alcune condizioni, intercorre un rapporto naturale. Sicché è inaccettabile anche l’obiezione economica e sociologica. L’economia basata sul principio di concorrenza si può rivelare, e si è rivelata, uno dei principali fattori di giustizia sociale, poiché produce solidarietà in due modi: favorendo la «scoperta» e la produzione (al miglior rapporto possibile prezzo/qualità) di nuovi prodotti in grado di soddisfare le preferenze dei consumatori e permettendo una maggiore produzione di ricchezza, e quindi la maggiore accumulazione possibile di risorse da destinare alla tutela dei più svantaggiati. Riguardo al primo punto deve essere chiaro che è proprio la dinamica della competizione a generare solidarietà. Competere, infatti, significa esplorare l’ignoto in maniera antagonistica, alla ricerca delle migliori soluzioni ai bisogni umani: nella scienza e in democrazia la competizione tra le idee è una collaborazione (alla soluzione dei problemi) tra chi le sostiene. E questo vale anche per il mercato: le merci e i servizi altro non sono che «proposte di soluzioni» per le quali i consumatori e gli utenti hanno la possibilità di «votare» con le loro scelte; e, sotto la spinta del profitto, le soluzioni più efficaci verranno ben presto socializzate, dato che la grande aspirazione di ogni imprenditore è quella di fare una produzione di massa per le masse. Come ha scritto John Stuart Mill, filosofo liberale e socialista, «la concorrenza è a vantaggio dei lavoratori, riducendo il costo degli articoli che essi consumano»,1 laddove invece il monopolio, proteggendo privilegi e nicchie di interessi, «è una tassazione sugli uomini attivi per il mantenimento dell’indolenza, se non della ruberia».2 Oltre che, potremmo aggiungere, un pesante disincentivo all’innovazione. La competizione, dunque, genera solidarietà perché è il mezzo migliore per scoprire soluzioni ai problemi umani, e al costo più basso. Se questo è vero, allora deve essere chiaro che non è tanto la proprietà privata in sé a essere più solidale, quanto la competizione. Serve a poco, da questo punto di vista, privatizzare senza liberalizzare, sostituire un monopolio pubblico con un monopolio privato protetto dallo Stato, perché i cittadini-utenti rischierebbero di non accorgersene. Occorre invece innescare delle dinamiche competitive. Solo così i consumatori, a cominciare da quelli più svantaggiati, potrebbero trarne beneficio.

Se vi è questo inscindibile nesso tra competizione e solidarietà, allora il primo compito di chi, come la Grande Alleanza Democratica, pone nel suo DNA l’imperativo morale della solidarietà, dovrebbe essere quello di promuovere (con la realizzazione di infrastrutture e con la definizione di regole) la concorrenza, di combattere i monopoli, gli oligopoli e ogni forma di addomesticamento della competizione che tenda a garantire a qualcuno nicchie ecologiche protette a spese dei consumatori e degli utenti. Se in passato ciò fosse stato fatto più efficacemente oggi, ad esempio, non avremmo le bollette dell’energia elettrica fra le più care del mondo avanzato, e le assicurazioni peserebbero di meno soprattutto sul bilancio delle famiglie meno abbienti. L’Antitrust, in un’economia di mercato, è la prima succursale del ministero della solidarietà. A favore dei più svantaggiati ha fatto molto più in questi anni Mario Monti, con la sua intransigente difesa della concorrenza, che una troppo ideologica retorica solidaristica di certa sinistra. Colpire posizioni privilegiate e rendite di posizione significa infatti ampliare il volume della ricchezza prodotta e l’ambito dei beneficiari, dando più chances a tutti; non solo ai consumatori, ma anche a quegli outsiders rappresentati dai potenziali imprenditori e liberi professionisti, i quali in un mercato protetto sono spesso costretti a passare sotto umilianti Forche Caudine di corporazioni che difendono gli interessi degli insiders.

Ma, come detto, il legame tra mercato e solidarietà si presenta anche sotto un secondo aspetto. Essendosi storicamente rivelato come il sistema più idoneo a produrre ricchezza, l’economia di mercato è di conseguenza anche il sistema che consente di destinarne una quota più consistente, attraverso le politiche sociali, per la tutela dei più svantaggiati. Non deve dunque sorprendere che alcuni fra i più grandi difensori dell’economia di mercato sono stati anche i teorici dell’intervento dello Stato a favore dei meno abbienti. È il caso, tra gli altri, di Luigi Einaudi e dell’economista e filosofo Friedrich von Hayek – un autore che la sinistra forse tra dieci anni si pentirà di non aver scoperto prima – il quale ha proposto che lo Stato garantisca ai cittadini meno abbienti un reddito minimo, al fine di ridurre le differenze dei «punti di partenza», lasciando poi alla libera iniziativa individuale la determinazione dei «punti di arrivo». «Non vi è motivo – scrive Hayek – per cui in una società liberà lo Stato non debba assicurare a tutti la protezione contro la miseria sottoforma di reddito minimo garantito, o di un livello sotto il quale nessuno scende. È nell’interesse di tutti partecipare all’assicurazione contro l’estrema sventura, o può essere un dovere morale di tutti assistere, all’interno di una comunità organizzata, chi non può provvedere a se stesso».3 Questi interventi di solidarietà, e questo è il punto cruciale, devono però essere assicurati – come è il caso del reddito minimo garantito – «fuori dal mercato», senza interferire con le dinamiche della concorrenza, e devono avere l’obiettivo di mettere i beneficiari nelle condizioni di poter fare al più presto a meno dell’aiuto statale, al fine di non alimentare pericolose aspettative assistenzialistiche.

 

Stato e mercato

Infine, sulla base di quanto si è detto, non è difficile dimostrare la falsità anche della «tesi politica», secondo cui la promozione di logiche concorrenziali implichi necessariamente uno «Stato debole» e un conseguente deficit di democrazia. Certo, la promozione del mercato in un paese ad accentuata vocazione statalistica come l’Italia presuppone che lo Stato faccia una cura dimagrante. Ma uno Stato meno esteso e meno invadente non è certo uno Stato debole, destinato a svolgere una funzione residuale. Anzi, solo uno Stato efficiente e «di qualità» è in grado di creare quelle condizioni che consentano di attivare il circolo virtuoso tra mercato e solidarietà. Si posso riassumere i compiti dello Stato dicendo che esso deve promuovere il mercato, difendere lo spazio e stabilire i confini della spontanea competizione tra gli individui e, infine, fare da garante dei diritti sociali.

Lo Stato deve innanzitutto promuovere il mercato: specialmente in molte realtà del Meridione è impensabile che si attivi una solida economia di mercato senza un forte intervento dello Stato nel campo delle infrastrutture, in quello dei servizi di sostegno all’imprenditoria e, prima ancora, assicurando la legalità. In secondo luogo, è necessario che la competizione si svolga dentro le regole dello Stato di diritto, le quali impediscano che essa degeneri a scapito di diritti fondamentali (dei consumatori, dei lavoratori, dei risparmiatori, dei minori ecc. Per non parlare della necessità di norme che evitino qualsiasi forma di conflitto di interessi che possa stravolgere la competizione). E una delle più impegnative sfide per la politica sarà sempre più quella di adeguare continuamente lo Stato di diritto alle caratteristiche di un mercato in rapida evoluzione, con l’obiettivo di trasformare la concorrenza in un circolo virtuoso per gli utenti e i consumatori. Come giustamente è stato sostenuto da una lunga tradizione di pensiero di matrice liberale, mercato e Stato di diritto sono due facce inscindibili della stessa medaglia: un mercato senza Stato di diritto (come spesso capita a livello globale) sarebbe un far west; in una democrazia senza mercato e proprietà privata, i diritti individuali sarebbero nient’altro che carta straccia.

Un mercato davvero solidale si può quindi sviluppare solo in presenza di uno Stato ben organizzato ed efficiente, il quale sia in grado di produrre di meno e garantire di più, ridimensionandosi ma al tempo stesso riqualificandosi. Fissando le regole della competizione lo Stato diventa il garante del buon funzionamento di quello spazio di «spontanea» interazione sociale – di cui il mercato è magna pars – che consente di realizzare il maggior numero di progetti individuali compatibili tra di loro, permettendo ai singoli di beneficiare (per la soluzione dei loro problemi) della maggior quantità possibile di conoscenza altrui. Ed essendo la conoscenza necessariamente dispersa tra gli individui – poiché molte delle nostre conoscenze (come quella del consumatore) sono legate alle situazioni in cui ci troviamo e di conseguenza non possono essere possedute da altri e quindi centralizzate – la libertà garantita e difesa dallo Stato è la condizione necessaria per poter offrire la propria conoscenza agli altri e per poter usufruire di quella altrui. Per questo le società libere sono anche quelle società che hanno sviluppato la più avanzata capacità di problem solving; essendo libere sono quindi anche le più ricche. In altri termini, dobbiamo essere liberi perché siamo «ignoranti» (delle conoscenze altrui) e saremo «ricchi» perché liberi.

 

Stato e diritti sociali

Ma lo Stato, come si é detto, non è solo il promotore indiretto della solidarietà in quanto difensore della libertà, esso è anche un garante diretto dei diritti sociali. E ammettere ciò non significa ricadere in una qualche forma di statalismo. Il welfare State è certamente stato la più grande conquista sociale del Ventesimo secolo. Nella sua versione socialdemocratica, ma anche in quella interclassista democristiana, esso (nel secondo dopoguerra) si è sostanzialmente basato su una semplice equazione: diritti sociali uguale produzione ed erogazione da parte dello Stato dei relativi beni e servizi. L’insostenibilità economica di questo modello e le degenerazioni burocratico-clientelari che ne hanno intaccato la stessa originaria ispirazione solidaristica hanno posto alla sinistra e al mondo cattolico dubbi esistenziali; e questo proprio nel momento cui il centrosinistra assumeva responsabilità di governo e mentre si consumava, con il congresso di Pesaro, il definitivo approdo del più grande partito della sinistra alla socialdemocrazia.

Per una sinistra consapevole del legame forte che, ad alcune condizioni, intercorre tra mercato e solidarietà, non dovrebbe essere difficile evitare di farsi dilaniare da questi (in buona parte) falsi dilemmi. Innanzitutto, si dovrebbe evitare l’equivoco ricorrente di far coincidere la tutela dei diritti sociali con il modello (statalista) di welfare che è prevalso nel secondo dopoguerra, confondendo un «fatto» con un «principio». Non dovrebbe essere dunque una eresia riconoscere che il principio dei diritti sociali non coincide necessariamente con forma storica attraverso cui essi sono stati assicurati. Si deve cioè ammettere che lo Stato possa essere il «garante» di questi diritti anche senza essere sempre il «produttore» dei relativi beni e servizi. E può fare ciò modulando i suoi interventi, a seconda della natura dei bisogni e delle caratteristiche del mercato: fissando regole per la concorrenza; entrando esso stesso in competizione con i privati; e, solo eccezionalmente, erogando beni e servizi in condizioni di monopolio, nel caso in cui la libera concorrenza non sia strutturalmente in grado di assicurarli a condizioni minime stabilite (di qualità, ma anche di prezzo per alcuni servizi essenziali). Ai cittadini interessa che certi servizi pubblici siano assicurati ad alcune condizioni e che ci sia un garante dei loro diritti; gli interessa molto meno, per non dire affatto, chi li produce. Se in passato il modo più efficace per assicurare, ad esempio, i diritti alla comunicazione e alla mobilità era il diretto intervento dello Stato, oggi questi diritti sono tanto più garantiti quanto più funziona il mercato, nel rispetto di regole (di qualità, di sicurezza ecc.) fissate dallo Stato. Non è dunque vero che la riduzione (necessaria) dell’intervento dello Stato coincida per forza di cose con una riduzione della solidarietà sociale. In alcuni casi, come nel campo della telefonia, è avvenuto il contrario. E questo potrebbe verificarsi in tanti settori, come ad esempio quello dei trasporti, della fornitura dell’energia elettrica o del gas, nei quali i cittadini utenti avrebbero solo da guadagnare da uno Stato che assolva efficacemente al suo compito di garante e di stimolatore della concorrenza.

Certamente il rapporto tra economia di mercato e solidarietà non appartiene a quella famiglia di problemi che, come diceva Ludwig Wittgenstein, possono essere risolti dissolvendoli. E tuttavia affrontare questo tema senza retaggi ideologici, con una riflessione che non faccia alcuna concessione alla retorica della solidarietà, che sia problem – e non ideology – oriented, se non permette di annullare certo può attenuare sensibilmente quella contrapposizione spesso dirompente che proprio su questo terreno ha visto contrapposte, spesso duramente, l’anima riformista e quella più radicale del centrosinistra.

 

 

 

Bibliografia

1 J. S. Mill, Principi di economia politica, UTET, Torino 1953, p. 747.

2 Ibid.

3 F. A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1986, p. 292.