Sul soggetto politico riformista

Written by Roberto Gualtieri Monday, 03 January 2005 02:00 Print

Nel dibattito politico italiano è invalsa l’abitudine di ricondurre l’esistenza e la tenuta del bipolarismo a un non meglio precisato «spirito del maggioritario», concepito come una virtuosa disposizione a «piegare» al bene comune gli interessi dei partiti attraverso gli strumenti della legge elettorale uninominale maggioritaria e dell’elezione diretta. In realtà, il carattere bipolare assunto dieci anni fa dal sistema politico italiano ha cause meno aleatorie e volontaristiche e ben più corpose, riconducibili all’impatto della «grande trasformazione» che ha posto fine all’età del fordismo e del lungo dopoguerra: la fine della guerra fredda e i progressi del processo di integrazione europea, la globalizzazione dei mercati, la diffusione dell’economia dell’informazione e il conseguente sviluppo di un nuovo ceto medio del «lavoro dipendente unificato», la crisi dei tradizionali apparati statali di welfare e di regolazione dell’economia.

 

Nel dibattito politico italiano è invalsa l’abitudine di ricondurre l’esistenza e la tenuta del bipolarismo a un non meglio precisato «spirito del maggioritario», concepito come una virtuosa disposizione a «piegare» al bene comune gli interessi dei partiti attraverso gli strumenti della legge elettorale uninominale maggioritaria e dell’elezione diretta. In realtà, il carattere bipolare assunto dieci anni fa dal sistema politico italiano ha cause meno aleatorie e volontaristiche e ben più corpose, riconducibili all’impatto della «grande trasformazione» che ha posto fine all’età del fordismo e del lungo dopoguerra: la fine della guerra fredda e i progressi del processo di integrazione europea, la globalizzazione dei mercati, la diffusione dell’economia dell’informazione e il conseguente sviluppo di un nuovo ceto medio del «lavoro dipendente unificato», la crisi dei tradizionali apparati statali di welfare e di regolazione dell’economia. Tali mutamenti hanno infatti fatto venire meno i presupposti economici (possibilità di un «protezionismo liberale»), sociali (divisione tra classe operaia e ceto medio), culturali (incomunicabilità ideologica tra movimento socialista e cattolicesimo politico), internazionali (bipolarismo Est-Ovest) e politici (presenza di un forte partito comunista con le caratteristiche del PCI) che avevano a lungo costituito il fondamento dell’assetto centrista del sistema politico italiano. Se ciò ha costituito (e costituisce) la sostanza del nuovo quadro bipolare, le «forme» da esso assunte sono state fortemente condizionate non solo dai nuovi meccanismi elettorali, ma anche e soprattutto dalle modalità tumultuose assunte dalla crisi della Prima Repubblica. La progressiva sclerosi, la crescente inadeguatezza e l’incapacità di riformarsi del sistema politico italiano e dei suoi attori avevano fatto sì che nel corso degli anni Ottanta, dietro l’apparente stabilità garantita dal quadro sistemico esterno offerto dal reaganismo e dal modello alti tassi di interesse-debito pubblico, si accumulassero delle tensioni che sarebbero esplose repentinamente nel 1992-93, quando il crollo del sistema dei partiti e la drammatica crisi valutaria che portò l’Italia sull’orlo del collasso finanziario rivelarono l’esaurimento del modello di sviluppo, del compromesso sociale e dell’assetto del sistema politico che avevano dato per decenni sostanza al patto di cittadinanza su cui si era edificata e retta la democrazia repubblicana. Si aprì allora una stagione tumultuosa in cui, sulle macerie ancora fumanti del vecchio sistema politico, la riorganizzazione del centrosinistra avvenne sull’onda dell’emergenza determinata dai caratteri anomali del nuovo centrodestra organizzato intorno a Silvio Berlusconi e dalle concrete minacce di permanente declassamento economico e di tracollo finanziario che si profilavano nel caso di un’esclusione del paese dalla nascente unione economica e monetaria europea. Tutto ciò per di più in un contesto politico-culturale fortemente segnato dal tradizionale elitismo del liberalismo italiano, che nelle sue varianti di destra e di sinistra aveva costituito il fondamento ideologico della cosiddetta «rivoluzione di mani pulite» e della «via referendaria» alle riforme, e che faceva discendere dalla consapevolezza della inadeguatezza dei partiti tradizionali a realizzare le trasformazioni necessarie al paese la conclusione che i partiti fossero una pesante zavorra di cui era necessario liberarsi.

In questo quadro, l’assetto del centrosinistra non poteva che configurarsi come un sapiente adattamento dei gracili contenitori eredi dei partiti della Prima Repubblica alle nuove dinamiche bipolari e ai vincoli del sistema elettorale. Un assemblaggio inevitabilmente provvisorio, che rinviava a tempi migliori una compiuta riorganizzazione dei soggetti politici fondata sulla rielaborazione delle culture politiche riformiste confluite nella coalizione e assegnava all’esito della partita politica in corso il compito di prefigurare un approdo più stabile per l’alleanza e per i suoi protagonisti fondamentali. L’Ulivo si è rivelato capace di colmare il gap tra gli elettori che si sentivano di centrosinistra e quelli che si riconoscevano nei diversi partiti della coalizione (il cosiddetto «valore aggiunto»), e su questa base ha potuto assolvere a una funzione nazionale decisiva in momento particolarmente delicato della storia del paese. Ma non essendo né un partito né una semplice coalizione tra partiti, non si è mai potuto organizzare in forme stabili e pienamente democratiche (né d’altronde si vede come avrebbe potuto farlo). Ne è risultata una dialettica spesso confusa tra i partiti e gli interpreti (a volte reali, a volte sedicenti tali) del «valore aggiunto» ulivista, che proprio per l’assenza di sedi democratiche entro cui selezionare leader e programmi della coalizione si è trasformata in una perenne (e insolubile) «guerra di posizione» tra personalità e progetti diversi sul futuro del sistema politico italiano. Finché l’esigenza di centrare i parametri di Maastricht e di aderire alla moneta unica ha provveduto a fornire la coalizione di un cogente «vincolo esterno» che ne definiva in modo condiviso la missione (entrare in Europa), l’Ulivo ha potuto rimanere unito. Ma quando, una volta conseguito l’obiettivo dell’euro è venuto meno il vincolo, il centrosinistra ha dovuto trovare al proprio interno una nuova unità su un programma di riforme, la fragilità dell’assetto della coalizione l’ha resa ingovernabile e l’ha condotta alla sconfitta.

Dopo le elezioni del 2001 è stata così intrapresa la strada di una rifondazione dell’alleanza intorno a un nucleo riformista costituito sulla base dell’incontro tra i DS e la Margherita (oltre che lo SDI e i Repubblicani europei): un nucleo che da un lato dovrebbe realizzare la confluenza tra gli elettorati tradizionali di quei partiti e il grosso del «valore aggiunto» dell’Ulivo, organizzandone la rappresentanza in forme più strutturate e democratiche (a partire dalla piena saldatura tra premiership e leadership); e dall’altro consentire la definizione di un programma innovativo capace di dare corpo alla funzione e all’identità del nuovo soggetto riformista. Un’operazione di tale portata non può realizzarsi esclusivamente sul piano organizzativo e su quello politico-programmatico, ma impone di misurarsi con il corposo nodo rappresentato dalle culture politiche italiane e con il delicato tema del rapporto tra tradizione e innovazione che sottende ogni sforzo volto a una loro rielaborazione. Il terreno su cui si determina la costruzione dei soggetti politici non è infatti quello dei programmi o degli interessi, né è tanto meno quello dei valori o dell’ingegneria istituzionale e organizzativa, ma piuttosto quello delle culture politiche. Ecco perché, dopo una lunga eclissi, la questione sta tornando al centro del dibattito italiano.

Per quanto riguarda i DS, emerge in modo sempre più evidente che la difficoltà a varcare la soglia del 20% circa dei voti, che distingue quel partito dalle altre grandi forze del socialismo europeo, è in parte riconducibile al modo con cui ha finora operato il nodo continuità-innovazione nei confronti della tradizione del PCI. È difficilmente contestabile infatti che la ragione di fondo che spiega l’insormontabilità di quella soglia è che i DS sono ancora in larghissima parte gli eredi della tradizione, dell’insediamento, dell’organizzazione, del gruppo dirigente del PCI. L’eredità del comunismo italiano è una straordinaria risorsa e la capacità di salvaguardarne, senza dissiparla, la parte più viva costituisce senza dubbio un presupposto di qualsiasi progetto che punti a costruire una grande forza riformista in Italia. Ma al tempo stesso la difficoltà a uscire dal corposo e inconfondibile «cono d’ombra» proiettato da quel passato ha rappresentato un limite per le potenzialità espansive dei DS. Sarebbe riduttivo ricondurre le cause di questa incapacità alle complesse vicende che hanno caratterizzato l’esperienza del PDS e dei DS negli anni Novanta (anche se tali vicende in qualche modo le compendiano in modo emblematico e possono contribuire a spiegarle), come pure imputarle alle scelte o al carattere delle singole personalità che di volta in volta hanno svolto un ruolo di primo piano nel gruppo dirigente di quel partito. In realtà, la persistente difficoltà dei DS a trasformarsi in una forza paragonabile ai grandi partiti della sinistra europea affonda le sue radici nella sostanza dell’esperienza storica del comunismo italiano, ed è dunque a tale esperienza che è opportuno volgersi.

Intorno alla natura e al significato della storia del PCI si è, come è noto, sviluppato un ampio dibattito in cui si sono espresse una molteplicità di posizioni. Ma non sarebbe arbitrario ridurre a due le tesi fondamentali e i filoni «storiografici» principali che si sono confrontati. Il primo filone, che è anche quello che risulta maggioritario nel complesso dei gruppi intellettuali italiani, ritiene che il PCI sia stato nel peggiore dei casi un’organizzazione criminale al soldo dell’Unione Sovietica, nel migliore un involucro del massimalismo italiano o un elefante burocratico sostanzialmente conservatore (quest’ultima, come si può intuire, è l’immancabile variante «di sinistra» di quell’interpretazione). Che si dovesse combatterlo con ogni mezzo, sfidarlo apertamente o allearsi temporaneamente con esso, in ogni caso secondo questa lettura il PCI e i suoi eredi rappresentavano un’«anomalia» che condizionava negativamente la vita politica italiana; e che per questo andava eliminata (o marginalizzata) se si voleva riorganizzare il campo del centrosinistra. Di qui, negli anni più recenti, la ricorrente quanto velleitaria tentazione dell’«azzeramento» – politico-culturale, prima ancora che organizzativo – della tradizione del comunismo italiano. Un approccio che ha caratterizzato l’«ulivismo» della prima ora e che abbiamo visto riapparire, in forme diverse, sia nella posizione dei cosiddetti «girotondi» (e delle forze che li hanno sostenuti) sia nell’impostazione con cui da più parti è stata tematizzata la costruzione di un «partito democratico».

Il secondo filone è invece tutto interno alla tradizione comunista ed è caratterizzato da un lato dalla sostanziale rimozione del bagaglio ideologico e dei legami internazionali del PCI (attraverso il paradigma della «autonomia» dal comunismo internazionale), e dall’altro dal travisamento della effettiva funzione da esso svolta nella vita politica italiana (generalmente confusa con la trasfigurazione che di questa veniva data nel dibattito interno a quel partito). Dopo la fine dell’URSS questo secondo filone ha teso ad accreditare l’immagine del PCI come di una forza sostanzialmente equiparabile ai grandi partiti socialdemocratici, anche se alcune sue varianti hanno continuato a rivendicare l’originalità e il carattere per molti aspetti «più avanzato» dell’esperienza del comunismo italiano e a fondare su questa presunta superiorità una persistente diffidenza nei confronti del socialismo europeo. Raramente questa lettura è stata esplicitata e ha per lo più caratterizzato l’azione dei post-comunisti sul terreno della prassi. Ma se si volesse individuarne l’elemento saliente non lo si ritroverebbe tanto nel «silenzio» e nella reticenza verso gli orrori e le tragedie del comunismo. Al contrario le dolorose autocritiche, le denunce e persino le abiure non sono mancate. Dopo tutto, gli orrori sono a loro modo «grandiosi», mentre ciò che ha fatto finora difetto è stata la capacità di riconoscere fino in fondo qualcosa di apparentemente ovvio ma in realtà di assai più doloroso: che il PCI non è mai stato il centro del mondo e che anzi solo in alcuni momenti ha avuto modo di affacciarsi fuori dalla periferia della scena politica nazionale ed europea. Il suo ruolo nella storia d’Italia è stato senza dubbio importante (e in alcuni momenti decisivo), ma nel complesso esso risulta più circoscritto di quanto i comunisti (e molti loro avversari) siano mai stati disposti ad ammettere. Questo approccio di tipo «autarchico», che ha portato spesso a confondere la storia d’Italia con quella del PCI e del suo dibattito interno, ha indebolito gli sforzi di rinnovamento della cultura politica dei DS e di formazione di una nuova classe dirigente in grado di misurarsi con i problemi del paese attraverso una mediazione attiva e consapevole dell’eredità della cultura politica comunista con quella delle altre tradizioni del riformismo italiano e internazionale. Il risultato, solo apparentemente paradossale, è stato che mentre tutte le leve del «comando politico» del partito sono ancora saldamente in mano agli esponenti dell’ultima generazione di dirigenti del PCI, sul piano dell’elaborazione programmatica e culturale il contributo proveniente dalla tradizione del comunismo italiano è stato assai minore.

In realtà la storia del PCI non è comprensibile sulla base dei due filoni interpretativi sopra sommariamente richiamati. L’esperienza del comunismo italiano ha espresso un intreccio difficilmente dipanabile di riformismo e massimalismo («riformatori» ma non «riformisti»), di senso delle istituzioni e di indisponibilità a governare («partito di lotta e di governo»), di ricerca di autonomia e di singolare persistenza del legame con l’Unione Sovietica («unità nella diversità»). Le caratteristiche particolari che hanno reso il PCI così diverso dagli altri partiti comunisti dell’Europa occidentale e così capace di radicarsi profondamente in ampi strati della società italiana, assolvendo a una funzione nazionale che è stata decisiva per la costruzione e il consolidamento della democrazia italiana, devono molto al genio politico di Gramsci e di Togliatti. Ma al tempo stesso il fatto che in Italia il «campo» politico elettorale della sinistra sia stato in buona parte «occupato» da un partito comunista è da considerare innanzitutto una conseguenza dei caratteri della società italiana del dopoguerra. Le modalità del processo di unificazione nazionale, la «ristrettezza» e la debole forza egemonica della borghesia italiana, l’arretratezza del paese avevano infatti impedito fino a quel momento in Italia una vera «nazionalizzazione delle masse». Realizzarla è stato un compito immane, che solo due partiti come la DC e il PCI potevano assolvere. Per dirla con una battuta, a prescindere da ciò che pensino gli storici delle «occasioni mancate», la costruzione della democrazia in un paese come l’Italia è stata una rivoluzione, e non è quindi un caso che per fare la rivoluzione sia servito un partito rivoluzionario con le caratteristiche del PCI. Una volta conclusa la stagione costituente, la realtà dei rapporti di forza e il nuovo scenario internazionale hanno – inevitabilmente – relegato le sinistre all’opposizione. Ma anche in questo nuovo scenario, l’assetto assunto dal modello di sviluppo (una accumulazione di capitale fondata sul regime di bassi salari e parzialmente governata dallo Stato in funzione di un disegno di sviluppo e di un cauto riformismo) e quello del sistema politico (organizzato intorno al carattere centrista, cioè allo stesso tempo antifascista e anticomunista impresso da De Gasperi alla DC) ha reso il PCI più «adatto» di un tradizionale partito socialdemocratico a rappresentare e difendere il mondo del lavoro, e al tempo stesso ha sancito il ruolo subalterno di quel partito nei confronti della Democrazia cristiana. L’assenza di un partito di governo della borghesia si è così riflessa nella speculare assenza di una grande forza compiutamente riformista. Il che ha avuto come conseguenza che il riformismo ha vissuto in forme diverse in tutti i principali partiti italiani. La DC è stata forse il più riformista di essi, ma è stata al tempo stesso un grande partito conservatore; il PCI ha elaborato una figura originale di «riformismo passivo» in grado di nutrire, sollecitare e rafforzare dall’opposizione le correnti riformatrici interne al blocco di governo, ma al tempo stesso incapace di costruire l’approdo di un’alternativa; il PSI è stato protagonista in molte fasi della sua storia di una sorta di «riformismo senza partito», per molti aspetti moderno ed efficiente ma socialmente minoritario e politicamente fragile, e quindi al tempo stesso troppo astratto e troppo pragmatico. Infine, la progressiva obsolescenza dei partiti italiani ha coagulato al di fuori di essi una parte significativa della generazione del Sessantotto le cui posizioni – nella sostanza liberal-democratiche – si sono espresse di volta in volta in forme politico-ideologiche diverse ma accomunate sempre da un connotato radicale (impolitico prima ancora che antipolitico) riconducibile al loro mancato incontro con i grandi partiti.

Questa complessa eredità ha condannato alla sconfitta tutti i tentativi di ciascuno dei vari filoni del riformismo italiano di affermarsi a scapito degli altri: dall’«unità socialista» craxiana all’ulivismo di Prodi, dal radicalismo di alternativa democratica e dei girotondi alla scommessa dalemiana di rinnovamento del PDS (che ha rappresentato senza dubbio il più serio di questi tentativi egemonici), determinando una situazione del tutto particolare che è plasticamente riassunta dal concreto panorama elettorale del centrosinistra. La tradizione del PCI – in termini di insediamento sociale, di assetto organizzativo, di cultura politica, di caratteri dei gruppi dirigenti e delle modalità della loro formazione e selezione – è una risorsa al tempo stesso necessaria e non sufficiente per la costruzione di una grande forza riformista di dimensioni «europee». E quindi né il suo azzeramento né la sua autosufficienza possono consentire questo sbocco. Per poter costruire una solida prospettiva di governo l’eredità migliore del «riformismo comunista» deve incontrare gli altri filoni del riformismo italiano, innanzitutto imparando a conoscerli meglio e a misurarsi insieme ad essi, senza schemi preconcetti e divisioni predeterminate dei ruoli, con i problemi del paese. Ma tale incontro potrà realizzarsi solo sulla base di una seria elaborazione del passato comune, che lega i percorsi delle diverse culture politiche italiane alle vicende della nostra storia più recente: il che rappresenta una delle condizioni per realizzare quell’effettivo superamento dei vincoli di un ingombrante passato che ogni rimozione rischia invece di perpetuare, e per consentire la definizione di un moderno riformismo all’altezza delle sfide dei tempi.