L'aggiustamento degli squilibri globali e il ruolo della Cina

Written by Pier Carlo Padoan Monday, 03 January 2005 02:00 Print

Se la Cina continuasse a crescere ai tassi degli ultimi anni in pochi decenni diventerebbe la più grande economia del mondo. Ma anche se così non fosse la Cina è già oggi uno degli attori fondamentali del sistema globale. Basta considerarne la impressionante crescita delle quote di esportazione nel mondo (vedi Tabella 1). Trovare la collocazione «giusta» di questo paese nel sistema mondiale è una delle principali sfide dei prossimi anni. Il compito che gli altri attori si trovano di fronte è quello di identificare modi e tempi per un inserimento della Cina nella divisione del lavoro da cui possa derivarne il massimo beneficio per tutti. Non si tratta di un omaggio formale a una superpotenza economica nascente, ma di una oggettiva necessità, visto il ruolo centrale che la Cina occupa oggi nel complesso incastro degli squilibri del sistema globale e, inevitabilmente, nella soluzione dei problemi che questi squilibri pongono.

Se la Cina continuasse a crescere ai tassi degli ultimi anni in pochi decenni diventerebbe la più grande economia del mondo. Ma anche se così non fosse la Cina è già oggi uno degli attori fondamentali del sistema globale. Basta considerarne la impressionante crescita delle quote di esportazione nel mondo (vedi Tabella 1). Trovare la collocazione «giusta» di questo paese nel sistema mondiale è una delle principali sfide dei prossimi anni. Il compito che gli altri attori si trovano di fronte è quello di identificare modi e tempi per un inserimento della Cina nella divisione del lavoro da cui possa derivarne il massimo beneficio per tutti. Non si tratta di un omaggio formale a una superpotenza economica nascente, ma di una oggettiva necessità, visto il ruolo centrale che la Cina occupa oggi nel complesso incastro degli squilibri del sistema globale e, inevitabilmente, nella soluzione dei problemi che questi squilibri pongono.

Tabella 1

 

Gli squilibri nei pagamenti

Gli squilibri nei rapporti economici e finanziari tra grandi aree stanno aumentando di dimensione da qualche anno. Il quadro è ben noto. Gli Stati Uniti, il Regno Unito e gran parte dei paesi dell’America Latina continuano ad avere significativi deficit di parte corrente. Di particolare entità è quello degli Stati Uniti, che oramai supera il 5% del PIL (mentre la sua media storica degli ultimi decenni è di meno della metà) e la cui dimensione non accenna a diminuire. I pagamenti correnti del resto dei paesi del G7 e dell’area dell’euro sono invece in surplus, mentre nei paesi dell’Asia – compresi Giappone e Cina – le partite correnti si mantengono in surplus. Gli squilibri riflettono, in parte, l’andamento e le sfasature del ciclo, ma anche componenti strutturali. I mercati hanno finora finanziato questi squilibri con una facilità che molti ritenevano impossibile fino a pochi anni fa. Ma gli squilibri non possono essere finanziati indefinitamente, sopratutto se invece di ridursi continueranno ad aumentare.

Quando ci si confronta con squilibri così ampi e persistenti la domanda da porsi non è perché si possa arrivare a una situazione del genere, ma fino a quando una tale situazione sarà sostenibile. Squilibri di tali dimensioni richiedono un mix di aggiustamento e di finanziamento, ma tale mix dipende da numerosi fattori sulle cui caratteristiche e distribuzione dei compiti tra gli attori coinvolti non c’è accordo. Per comprende la natura del problema e il ruolo della Cina nel processo può essere utile fare riferimento a uno schema concettuale recentemente proposto.1

 

Il «nuovo» sistema di Bretton Woods

Possiamo immaginare il sistema finanziario internazionale come diviso in tre regioni: a) Gli USA, il centro del sistema, che presentano un elevato e crescente deficit di parte corrente; b) l’Asia, e in particolare la Cina (la «periferia»), che presenta un surplus di parte corrente; c) l’area dell’euro, che presenta un modesto surplus. Agli squilibri dei pagamenti si associa una configurazione dei tassi di cambio che vede la moneta cinese – lo yuan – e la gran parte delle monete asiatiche, agganciate al dollaro e che quindi si sono svalutate nei confronti dell’euro assieme alla valuta americana. Si tratta, in altri termini, di un sistema di cambi fissi (de facto) che lega gli USA alla Cina e all’Asia e presenta molti elementi di somiglianza con il sistema di Bretton Woods in vigore negli anni Sessanta. Allora i paesi europei mantenevano il cambio fisso nei confronti degli USA, che presentavano un deficit di parte corrente (ma non nella bilancia commerciale, contrariamente al caso attuale), finanziato dalla accumulazione di dollari nelle riserve dei paesi europei. Oggi l’accumulazione di riserve avviene da parte della Cina e di altri paesi asiatici. L’accumulazione di dollari in Asia ha oramai superato i 1.000 miliardi. In una fase di forte svalutazione del dollaro una accumulazione di queste dimensioni comporta significative perdite in conto capitale, ma è anche il prezzo da pagare per mantenere lo yuan agganciato al dollaro e un regime di cambio fisso. Naturalmente una implicazione rilevante per l’Europa è che l’euro non solo sopporta la pressione della debolezza della moneta americana, ma si apprezza anche nei confronti di quelle asiatiche, con conseguenze molto negative in termini di competitività.

Il nuovo sistema di Bretton Woods assomiglia a quello vecchio anche perché si basa su un meccanismo in cui gli squilibri dei pagamenti persistono nel tempo (non sono cioè pienamente aggiustati) e sono in gran parte finanziati. Come è noto il sistema di Bretton Woods degli anni Sessanta si è, alla lunga, dimostrato insostenibile e la sua conclusione ufficiale (nel 1971) ha coinciso con lo sganciamento delle monete europee dal dollaro (e indirettamente dall’oro). Il problema che ci si pone di fronte oggi è analogo. Fino a che punto il nuovo sistema di Bretton Woods potrà sostenersi? Quali sono i contorni di un meccanismo di aggiustamento ottimale che coinvolga tutte le principali aree del sistema internazionale? 

 

Le caratteristiche dell’aggiustamento

Il primo aspetto da tenere in considerazione è che la dimensione e la natura degli squilibri dei pagamenti internazionali suggerisce che l’aggiustamento solo in parte può essere ottenuto tramite una variazione dei tassi di cambio. Le variazioni, infatti, dovrebbero essere talmente pronunciate da provocare conseguenze molto serie per la stabilità finanziaria internazionale. Più efficaci, e meno destabilizzanti, sarebbero gli aggiustamenti ottenuti tramite una correzione dei tassi di crescita e dei rapporti tra risparmio e investimento nei diversi paesi. Se ci si pone in questa prospettiva si comprende che affrontare «il problema del ruolo della Cina» va bene oltre la scelta dei regimi di cambio, ma richiede di considerare una nuova divisione del lavoro del sistema globale. E lo sforzo di governo dell’economia globale deve esser teso a far sì che questo aggiustamento, che è per sua natura strutturale, sia tale da beneficiare tutti gli attori e le regioni coinvolte. Se così non fosse non sarebbe possibile raccogliere il consenso politico per rendere lo sforzo di governance sufficientemente efficace.

Una configurazione ideale dell’aggiustamento dovrebbe prevedere un riaggiustamento fiscale negli Stati Uniti, il cui deficit è alla base della debolezza del dollaro e in gran parte anche del deficit corrente. Tale aggiustamento dovrebbe essere accompagnato da un aumento della crescita dell’Europa e ciò anche per controbilanciare un possibile rallentamento della crescita negli Stati Uniti che potrebbe seguire a un riaggiustamento del deficit pubblico.

In Cina e nel resto dell’Asia la crescita dovrebbe continuare su ritmi sostenuti (anche se per la Cina si pone un problema di surriscaldamento), ma per contribuire efficacemente all’aggiustamento globale questi paesi dovrebbero accrescere in misura significativa le importazioni dal resto del mondo. Anche per questo è necessaria una variazione dei livelli dei tassi di cambio e, in particolare, un apprezzamento delle valute asiatiche nei confronti del dollaro. La richiesta che viene avanzata a questo proposito alla Cina (soprattutto da parte degli Stati Uniti) è di accrescere la flessibilità del cambio, così da permettere un apprezzamento dello yuan. In realtà la questione è molto più complessa e comporta la definizione di una strategia di medio lungo termine che riguarda due aspetti: la scelta del regime del cambio per la Cina e l’ammontare della variazione del cambio.

Consideriamo il primo aspetto. È davvero necessario per la Cina passare a un regime di cambio flessibile? Un regime di cambio flessibile richiede, quanto meno nel lungo periodo, anche la liberalizzazione del sistema finanziario e dei movimenti di capitale e ciò allo scopo di massimizzare i benefici in termini di resistenza agli shocks esterni e di indipendenza della politica monetaria. Il passaggio a un simile regime, quindi, richiede una profonda trasformazione strutturale e istituzionale del sistema finanziario e dell’economia del paese. Processo che, vista la sostanziale fragilità di tale sistema, le forti carenze del sistema di regolazione e i costi, anche per le imprese indebitate nei confronti delle banche, che una stabilizzazione dei bilanci delle imprese finanziarie comporterebbe, potrebbe richiedere molto tempo. Nel frattempo, molti sostengono, alla Cina conviene mantenere il regime di cambio fisso.

Il secondo aspetto riguarda invece l’impatto sulla crescita dell’economia cinese di una rivalutazione del cambio. A parità di altre condizioni, una rivalutazione avrebbe un effetto di freno sulle esportazioni e quindi sulla crescita cinese. Per mantenere la crescita su livelli elevati (cosa che è nell’interesse della Cina, ma anche della altre regioni del mondo) la rivalutazione dello yuan dovrebbe, in ogni caso, essere graduale e ciò allo scopo di: a) mantenere elevata la competitività dell’industria esportatrice cinese; b) continuare ad attrarre investimenti nel settore, anche da parte di imprese multinazionali; c) sostenere l’espansione del settore esposto alla concorrenza internazionale, che comprende anche i prodotti domestici diretti a soddisfare la crescente domanda interna cinese; d) permettere l’assorbimento del gigantesco eccesso di forza-lavoro cinese che oggi si trova ancora in gran parte collocato nelle campagne (le stime in proposito indicano 200 milioni di lavoratori che dovrebbero essere assorbiti nel settore esportatore nei prossimi dieci anni).

 

I cambiamenti nella divisione internazionale del lavoro

È sopratutto in merito a questo secondo aspetto che i paesi industriali hanno la maggiore responsabilità. Un aumento dell’offerta di prodotti a basso (bassissimo) costo del lavoro derivante da 200 milioni di lavoratori non può che essere considerato un mutamento strutturale fondamentale nella divisione internazionale del lavoro. Ma non solo per l’accresciuta concorrenza che ciò comporta per i prodotti degli altri paesi, industriali, emergenti e a basso reddito. Ma anche, e forse soprattutto, per le conseguenze sulla domanda dei prodotti di questi paesi. Per impiegare un simile ammontare aggiuntivo di forza-lavoro la Cina avrà bisogno di capitale e tecnologia adeguati per mantenere la crescita della produttività e del prodotto su tassi significativi. Capitale e tecnologia dovranno essere in gran parte importati. In altri termini, la piena collocazione della Cina sui mercati internazionali aumenterebbe considerevolmente l’offerta di beni ad alta intensità di lavoro e, in misura crescente, anche dei beni a medio e alto valore aggiunto. (La produzione cinese di componenti elettroniche è una chiara indicazione in questo senso). Questi beni dovrebbero essere in gran parte assorbiti dai paesi industriali. Allo stesso tempo aumenterebbe la domanda cinese di beni capitali, tecnologia e servizi avanzati di cui i paesi industriali sono produttori.

Simulazioni elaborate dal Fondo Monetario Internazionale permettono di valutare con qualche maggiore dettaglio la direzione e l’intensità di tali processi. Le simulazioni analizzano l’impatto sul commercio internazionale di un aumento della forza lavoro cinese di dimensioni analoghe a quelle sopra menzionate. Ne deriva un impatto globale significativo ma con importanti differenze tra le diverse aree. La Tabella 2 riporta i risultati di uno scenario in cui, nel corso di dieci anni, la capacità di esportazione della Cina è accresciuta di 200 milioni di lavoratori. Il volume del commercio mondiale ne risulterebbe significativamente accresciuto. La Cina quasi raddoppierebbe il proprio commercio. Ma va notato che l’aumento di esportazioni e importazioni sarebbe quasi equivalente. La Cina subirebbe anche una significativa perdita di ragioni di scambio a causa della caduta dei prezzi delle merci da essa prodotte generata dal significativo aumento di offerta. Le ragioni di scambio della Cina, inoltre, peggiorerebbero a causa di un aumento dei prezzi delle merci importate a seguito dell’impatto sui mercati mondiali della accresciuta domanda cinese. Una parte di tale aumento potrebbe riguardare, con ogni probabilità, il prezzo del petrolio i cui recenti aumenti sono in buona parte la conseguenza di un aumento della domanda cinese. L’aumento del commercio cinese beneficerebbe le esportazioni dei paesi industriali e dei paesi asiatici ad alta crescita (NIE), mentre gli altri paesi dell’Asia, meno avanzati, potrebbero soffrire di una minore crescita (e quindi minori importazioni). Sarebbe significativo anche l’impatto negativo su alcuni paesi dell’America Latina, i cui prodotti sono in diretta concorrenza con quelli cinesi.

Tabella 2

Gli effetti sulla divisione internazionale del lavoro risultano più marcati se si tiene conto dei cambiamenti sulla struttura produttiva dei paesi coinvolti (vedi Tabella 3). La stessa simulazione, in proposito, fornisce i seguenti risultati considerando la variazione del prodotto settoriale in quattro gruppi di settori: prodotti manufatti ad alta intensità di lavoro (A), prodotti manufatti ad alta intensità di conoscenza (B), servizi ad alta intensità di lavoro (C) e servizi ad alta intensità di conoscenza (D). La Cina aumenterebbe la produzione in tutti i settori interessati. All’aumento assoluto dell’offerta di beni e servizi da parte della Cina corrisponderebbero variazioni sia in diminuzione che in aumento nell’offerta di prodotti da parte delle altre aree. Nei paesi avanzati si verificherebbe una diminuzione dell’offerta di prodotti manufatti, soprattutto quelli ad alta intensità di lavoro, come era del resto logico attendersi, mentre aumenterebbe l’offerta di servizi. Un mutamento simile si verificherebbe nei paesi asiatici di nuova industrializzazione. Ma il risultato più rilevante riguarda gli altri paesi emergenti e i paesi africani dove la contrazione della produzione di manufatti, soprattutto ad alta intensità di lavoro, sarebbe assai significativa.

Tabella 3

In conclusione, l’ingresso della Cina a pieno titolo negli scambi mondiali avrebbe conseguenze notevoli, ma queste sarebbero largamente positive per i paesi industriali mentre potrebbero essere negative per i paesi emergenti e per quelli più poveri, la cui struttura di specializzazione è più simile a quella della Cina. Questi ultimi sono quindi più esposti alla concorrenza dei lavoratori cinesi.

 

Implicazioni per l’Europa

Dallo scenario abbozzato derivano implicazioni di governance dell’economia globale, soprattutto per il ruolo che potrebbe e dovrebbe svolgere l’Europa. Ne consideriamo due aspetti: uno relativo alla politica industriale e uno alla politica valutaria.

Riguardo alla politica industriale, la Cina avrà bisogno di importare non solo beni capitali, ma anche e forse soprattutto, servizi avanzati. La capacità di offerta di servizi avanzati dell’Europa potrebbe essere molto più sviluppata e competitiva, soprattutto rispetto agli Stati Uniti, se in Europa si fosse completato il mercato interno dei servizi, se cioè si fossero eliminate le barriere che ancora separano i mercati nazionali dei servizi. Come recenti studi dimostrano,2 i servizi avanzati sono un ingrediente essenziale per l’accumulazione e la diffusione della tecnologia e la crescita in Europa sarebbe notevolmente rafforzata da una maggiore integrazione dei mercati dei servizi. Una politica di liberalizzazione dei servizi in Europa avrebbe dunque il duplice effetto di aumentare la capacità di crescita del continente e di aumentare la capacità di offerta di prodotti di cui la Cina avrebbe grande bisogno.

In relazione al secondo aspetto, invece, una politica valutaria compatibile con un graduale aggiustamento del tasso di cambio della moneta cinese potrebbe essere la seguente.3 In una prima fase lo yuan dovrebbe esser rivalutato, ma non reso più flessibile, nei confronti del dollaro fissando una nuova parità. Questa parità dovrebbe essere definita in termini di un paniere che potrebbe comprendere l’euro ed, eventualmente, lo yen. In un secondo momento il sistema dovrebbe essere reso più flessibile tramite la definizione di (ampi) margini di oscillazione attorno alla parità. Il tasso di cambio rimarrebbe fisso, evitando i problemi derivanti da una liberalizzazione troppo accelerata dei mercati finanziari e del conto capitale. La gradualità della flessibilizzazione valutaria da prendere in considerazione successivamente, sarebbe cadenzata sui processi di liberalizzazione finanziaria.

Un passo successivo, ma di più lungo periodo, potrebbe prevedere la formazione di un’area valutaria asiatica, incentrata sulla moneta cinese e sullo yen giapponese ed eventualmente sostenuta da un Fondo Monetario Asiatico, una proposta già avanzata nel decennio scorso ma rapidamente affossata dall’Amministrazione americana. Oggi la forza della Cina, sia economica che politica, e l’ingente ammontare di riserve che essa e gli altri paesi asiatici hanno accumulato, rendono questa scelta molto più realistica e tale che, se avanzata, sarebbe difficile da respingere. Un’Europa lungimirante, approfittando di questa particolare fase delle relazioni monetarie internazionali, potrebbe fare il passo definitivo verso una rappresentanza monetaria unica nelle istituzioni internazionali, nel FMI e nella Banca Mondiale. E prendere seriamente in considerazione la costituzione di un Fondo Monetario Europeo, al servizio dei tanti paesi che gravitano attorno all’euro, dall’Asia ex-sovietica, al Mediterraneo, al Medio Oriente e all’Africa.

 

 

Bibliografia

1 M. Dooley, D. Folkerts Landau, P. Garber, An Essay on the Revived Bretton Woods System, NBER WP 9971/2003.

2 P. Guerrieri, B. Maggi, V. Meliciani, P. C. Padoan, Technology diffusion, services, and endogenous growth in Europe. Is the Lisbon Strategy still alive?, Mimeo 2005.

3 Morris Goldstein, Adjusting China’s Exchange Rate Policies, Institute for International Economics, working paper 04/1, 2004.