Le novità sociali per la politica

Written by Carlo Carboni Monday, 02 January 2006 02:00 Print

Questo scritto non riprende l’analisi sociologica, in prevalenza descrittiva, delle novità sociali che hanno caratterizzato i mutamenti del paese negli ultimi quindici-venti anni. La sua ambizione è, semmai, compiere un passo avanti rispetto a quell’analisi, richiamandone le novità emergenti per la dimensione politicoistituzionale e, soprattutto, cercando di sviluppare un approccio interpretativo normativo dei mutamenti sociali. Richiamerei quattro idee che sorreggono quell’analisi sociologica. Innanzitutto, la tesi, diffusa in letteratura secondo la quale negli ultimi dieci anni, nelle società postfordiste più avanzate, si sono andate affermando sia una nuova economia che una nuova società, come manifestazioni di una nuova modernità tecnologica e globale, per la quale conoscenza e tecnologia assumono una centralità in ambito sociale (relazione) ed in quello economico (transazione).

Premessa

Questo scritto non riprende l’analisi sociologica, in prevalenza descrittiva, delle novità sociali che hanno caratterizzato i mutamenti del paese negli ultimi quindici-venti anni.1 La sua ambizione è, semmai, compiere un passo avanti rispetto a quell’analisi, richiamandone le novità emergenti per la dimensione politicoistituzionale e, soprattutto, cercando di sviluppare un approccio interpretativo normativo dei mutamenti sociali.

Richiamerei quattro idee che sorreggono quell’analisi sociologica. Innanzitutto, la tesi, diffusa in letteratura secondo la quale negli ultimi dieci anni, nelle società postfordiste più avanzate, si sono andate affermando sia una nuova economia che una nuova società, come manifestazioni di una nuova modernità tecnologica e globale, per la quale conoscenza e tecnologia assumono una centralità in ambito sociale (relazione) ed in quello economico (transazione).2

In secondo luogo, l’iperconsumismo descritto ad esempio da Ritzer, si è diffuso in tutto il mondo occidentale sospinto dalle nuove opportunità di comunicazione e di leasure, rilasciando un’immagine di società accessoria al mercato,3 la cui morfologia, come mostrato da Bourdieu, tende a dipendere più che dalle tradizionali relazioni produttive-occupazionali, da quelle che caratterizzano il mondo del consumo, dimensione che alimenta l’habitus, la distinzione, la disuguaglianza contemporanei.

In terzo luogo, nelle società sviluppate, a seguito della nuova dimensione tecnologica globale, sono enormemente aumentate le opportunità per gli individui di rafforzare la propria capacità cognitiva e di autonomia. I sistemi di comunicazione, di informazione di istruzione inglobano la «sorveglianza», ma costituiscono anche straordinari meccanismi di emancipazione individuale, professionale e civile. Sono uno straordinario lubrificante della modernizzazione che, a sua volta, è il motore del processo d’individualizzazione di cui le scienze sociali contemporanee parlano con maggiore insistenza.

In quarto luogo, le nuove mappe sociali e la nuova ambientazione tecnologica, hanno ripercussioni sulla configurazione della società civile. I diritti di cittadinanza si incrociano con l’individualizzazione e l’emergere delle cosiddette libertà negative. Il rapporto individuo-collettivo si trasforma a causa della parziale perdita di centralità della prossimità territoriale nelle relazioni sociali: le reti lunghe e tecnologiche divengono sempre più importanti, ma richiedono competenza nell’accesso e nell’uso. Una parte crescente delle relazioni sociali e civili tendono a divenire connettive (individuali e collettive insieme), richiedendo il ricorso al medium tecnologico.

In riferimento al nostro caso nazionale, sul primo e il secondo punto dei quattro ricordati, in altra sede, abbiamo messo in evidenza come lo scarso metabolismo innovativo riguardi più la nostra economia che la nostra società. La società dei consumi, la società accessoria al mercato in Italia naviga a vele spiegate. La società italiana rappresenta, ad esempio, uno dei migliori mercati di consumo di nuove tecnologie informatiche e mediali in Europa.4 Ma non si può dire che la nostra economia sia una delle più tecnologiche e dinamiche; anzi, è tra quelle europee che maggiormente stentano a raccogliere la sfida della nuova economia e ad esporsi alla concorrenza dei mercati globali (soprattutto i nostri grandi gruppi).

Tuttavia, in relazione al terzo e al quarto dei punti esposti, si può parlare di una «mezza debolezza» anche per la nostra società, visti comparativamente i mediocri tassi di istruzione superiore, la relativa diffusione di nuovi gruppi professionali, l’impatto tutt’ora limitato del nostro sistema formativo, l’anemia di investimenti in ricerca e sviluppo, etc. Dunque, un’ipotesi da verificare è che ci siano lacune ed inadeguatezze del nostro capitale umano e sociale che, unite ad altri fattori di vischiosità, non hanno consentito al nostro paese di agganciare lo sviluppo virtuoso della nuova economia.5 Singole ricerche su singole comunità, indicano che il metabolismo informatico degli italiani, al di là dei dati statistici, non è insufficiente in tema di possesso/accesso alle reti comunicative, ma in termini di capacità di utilizzarne le potenzialità: un tipico tema di risorse umane, delle loro competenze.

Tutto ciò deprime il profilo innovativo della nostra società ed economia e certo influenza anche la società civile che presenta una nuova segmentazione sociale tra coloro che vivono i cambiamenti in modo passivo, consumistico, in genere con minor istruzione e competenze e quanti sanno cogliere nei nuovi consumi le opportunità connettive per rafforzare le proprie competenze individuali, professionali e civili. Per il primo segmento il processo di individualizzazione comporta un’atomizzazione, una frammentazione individualista, la cittadinanza come lealtà passiva, mentre per il secondo rappresenta la possibilità di empowerment dell’individuo, del cittadino competente e che, eventualmente, chiede una partecipazione più attiva.6

È il quadro di una società complessa, piena d’incroci importanti come quello tra iperconsumismo, cittadinanza e individualizzazione o quello tra economia, politica e comunicazione, alla luce di altri fattori chiave come la conoscenza, la tecnologia, l’apprendimento, l’internazionalizzazione, etc. Insomma, una vera trama di combinazioni che vedono la politica in difficoltà, come mostra il caso italiano: la sua classe dirigente non è stata fino ad ora all’altezza di riformare e modernizzare il paese in modo adeguato.

 

Politica e sviluppo

Dalla somma delle debolezze economiche e sociali del paese reale, nasce una delle principali problematiche della nostra politica, incapace di modificare un’opinione pubblica critica e preoccupata per lo stato di incertezza e di sospensione in cui versa la nostra economia. Preoccupata soprattutto per le prospettive di ripresa e di crescita alle quali è legato l’andamento del nostro benessere sociale. Le nostre classi dirigenti hanno difficoltà ad interpretare in chiave di sviluppo le trasformazioni socioeconomiche che attraversano il mondo globale. Non sono riuscite a ricomporre in una nuova tessitura la frammentazione imprenditoriale, sociale e territoriale, come avrebbe richiesto una società complessa come quella italiana. È mancata una visione politica dello sviluppo economico in grado di far crescere e qualificare i localismi industriali e di offrire una strategia di sistema volta a rafforzare la competitività dei nostri grandi gruppi.7

Economisti e osservatori economici hanno sottolineato che la deficienza fondamentale dimostrata dal nostro scheletro tecnoeconomico è la sua bassa produttività, che spiega gran parte della nostra bassa competitività e il modesto tasso di crescita economica.8 Manca una cultura dello sviluppo a trazione innovativa e tecnologica e un’adeguata spiegazione dei vantaggi che alimenterebbe. Il mondo del lavoro eviterebbe che le nuove forme di flessibilità possano trasformarsi in precarietà (come oggi accade), ne ricaverebbe un’occupazione aggiuntiva nei nuovi servizi e la speranza fondata di una miglior qualità del lavoro. Da parte sua, il mondo dell’impresa ne trarrebbe vantaggio competitivo, realizzando risparmi, ma soprattutto profittabilità in vecchi e nuovi settori. Se l’economia della conoscenza è – almeno – alla porta, si tratta di attivarsi per il trasferimento di conoscenze alla nostra economia, anzitutto a quella industriale. Per la nostra industria significa maggiore tecnologia, la quale è in effetti conoscenza applicata alla produzione. Significa innovazione, che è apprendimento e gestione delle nuove tecnologie in ambito economico. Significa una finanza impegnata in investimenti innovativi piuttosto che immobiliari e di rendita.

Il tema della crescita e dello sviluppo implicherebbe consapevolezza della necessità di introdurre con maggior forza il modello di nuova economia nella nostra industria e nei servizi in un contesto globalizzato: quindi, impegnarsi con lucidità e coerenza per dare al paese una prospettiva di politica economica di medio termine. Un paese che viaggia senza una bussola dello sviluppo postfordista dagli anni Ottanta. Un progetto di sviluppo latita ormai da un paio di decenni. Anzi, com’è noto, la maggioranza degli studiosi riconosce nel nostro paese segnali di declino9 che stanno avendo evidenti conseguenze sociali.

Infatti, il severo periodo di stagnazione/recessione che ha caratterizzato in questi ultimi anni l’economia italiana ha influito negativamente sui redditi da lavoro dipendente, provocando uno sfrangiamento e slittamento verso una condizione di incertezza socioeconomica dello strato inferiore di quei gruppi sociali che fino ad ora avevano condiviso uno status ed un habitus sociale da ceto medio: molti autori hanno dimostrato questa crescita di disuguaglianze, anche in una società non più classista.10 Ma soprattutto l’incertezza delle possibilità di ripresa e di crescita della nostra economia hanno fatto scattare l’allarme per il destino delle politiche sociali, provocando spesso arroccamenti difensivistici attorno al complesso delle politiche sociali. Massimo Paci ha di recente indicato i nuovi percorsi da prospettare per le politiche sociali,11 ai quali aggiungerei la necessità di una qualità tecnologica del nostro modo di organizzare e fare welfare (dall’e-learning all’e-government, alla demotica, alla telemedicina). Soprattutto nella consapevolezza che senza il rafforzamento delle comunità professionali con competenze cognitivo-tecnologiche, sarà difficile risollevare i nostri tassi di produttività, in declino nella manifattura, ma decisamente depressi nell’occupazione pubblica e in specie nei servizi sociali.

 

Politica e società

Anche nel rapporto, più diretto, con il tessuto sociale emergono ritardi della politica, che ha difficoltà a progettare una visione socialmente rappresentativa di una società che è caratterizzata, al contempo, dalla cittadinanza e dalle libertà «negative» individuali, dai consumi e dai simboli, dalla comunicazione e dalle tecnologie di rete, dal locale e dal globale. La politica – governo e opposizione – ha difficoltà a rielaborare la complessità sociale, a dargli un senso con un pensiero e una visione strategica di medio-lungo periodo. La sua azione è piuttosto congiunturale e legata alle tornate elettorali che si susseguono.

La politica assegna sempre maggiore importanza alle tecniche di marketing, piuttosto che tentare di tradurre la complessità sociale in una visione comunicativa dello sviluppo economico e sociale. Tanto che viene da porsi due domande importanti. C’è consapevolezza politica di come si sia trasformata la società civile italiana? Gli strumenti del marketing e della comunicazione politica (la nuova ambientazione tecnologica) hanno facilitato o allentato il legame tra politica e società civile? E quanto la seconda è esposta e vulnerabile alle nuove tecniche della prima?

Alla prima domanda si può rispondere negativamente, se si considerano alcuni ritardi della politica, della nostra classe dirigente, rispetto ad alcune trasformazioni sociali sulle quali abbiamo richiamato l’attenzione. La politica ha in effetti ignorato che il nostro tessuto sociale relazionale e di competenze avrebbe richiesto un’efficace opera di manutenzione (istruzione, formazione, ricerca) da cui dipendono le opportunità di progresso professionale e sociale. Il risultato è che oggi questo tessuto risulta impoverito e il nostro capitale sociale inadeguato. D’altra parte, l’efficienza delle relazionalità tradizionali «di corto raggio» (famiglia, comunità locale) e delle conoscenze tacite disponibili per tradizione in molti dei nostri localismi, si dimostra inadeguata per i nuovi scenari della concorrenza mondiale. Più che un supporto alla crescita del nostro tessuto sociale locale, si è verificato un ripiegamento provincialistico delle nostre classi dirigenti, non in grado di impostare il necessario ri-centraggio dei nostri localismi nel nuovo contesto professionale e tecnologico globale. Sebbene tra il 1990 e il 2000, la composizione della nostra occupazione abbia registrato un certo professional upgrading, i gruppi professionali più qualificati e innovatori sono mediamente meno presenti in Italia che in altri paesi europei e in taluni casi (ingegneri, fisici matematici e manager) con un’incidenza percentuale inferiore anche a paesi come la Spagna e la Polonia.12

I nostri sistemi di istruzione, formazione, informazione non hanno funzionato abbastanza da consentire una modernizzazione adeguata del nostro tessuto sociale e professionale. Ma neppure di quello civile, dato che la politica tende ad interpretare erroneamente il processo di individualizzazione come se fosse un indicatore dell’individualismo, che è, al contrario, il portato politico della cultura e dell’ideologia liberista. La politica si è orientata in tal modo sempre più verso gli interessi particolari, rendendo superfluo un disegno generale in funzione del bene pubblico (criticato perché in odore di ideologia). Posizionamenti e confini mobili sociali tipici di una società complessa, sono per lo più interpretati dalla politica – da destra a sinistra – come un disallineamento dalla morfologia sociale e dal comportamento sociopolitico tradizionale, a causa dell’individualismo diffuso (interessi particolari). I fenomeni di trasformazione sociale quali l’individualizzazione non sono pensati nell’aspetto positivo, cioè di un empowerment dell’individuo (istruzione, informazione, comunicazione, competenze) che di fatto chiede alla politica di costituire un nuovo bridge tra individuo e collettivo, tra cittadini e politica (ed istituzioni), soprattutto in termini, come vedremo più avanti, di nuove forme di partecipazione, ma anche di nuova impostazione nelle politiche sociali.13

Di conseguenza, non c’è consapevolezza politica neanche di come sia cambiato il senso di alcune configurazioni sociopolitiche tradizionali, in rapporto alle loro radici e composizione sociale. Si prenda ad esempio il concetto di «centro» verso cui si orientano entrambi gli schieramenti politici (Ulivo e Casa delle Libertà), soprattutto in periodi elettorali. Cos’è oggi il centro, chi sono gli elettori di centro che, secondo una ricerca Itanes, nel 2001 rappresentarono il 30% dei votanti?14 Senza dubbio una bella fetta ambita di elettorato, ma anche una terra di nessuno, che destra e sinistra si contendono a suon di spot elettorali.

Secondo Sartori, ad esempio,«il centro è un calderone di tutto un po’: contiene elettori informati e anche totalmente disinformati, interessati o anche menefreghisti».15 Naturalmente, si riferiva all’elettore di centro. La definizione adombra, comunque, un’idea «liquida» di centro politico, molto imparentata con l’area dell’indifferenza e del disimpegno dell’uomo qualunque. E soprattutto non c’è traccia in quella definizione di un’associazione tra voto politico di centro e morfologia sociale. Piuttosto, l’attenzione slitta verso aspetti di civicness, riguardanti il grado di coinvolgimento civico dei cittadini-elettori. Del resto, la ricerca Itanes citata sottolineava elementi incontrovertibili, come ad esempio, l’importanza del grado di istruzione nelle preferenze all’uno piuttosto che all’altro schieramento politico. I risultati dell’indagine Itanes rivelavano per altro una certa debolezza del legame tra scelta elettorale e morfologia sociale tradizionale (ad esempio considerando le preferenze delle classi occupazionali e di status). La sequenza logica struttura-coscienza-azione che ha forgiato la politica classista (o basata sul blocco sociale di riferimento) non funziona più, o funziona più indirettamente, rispetto ad altri aspetti e connotati civici.

Qual è, ad esempio, il grado di interesse della società civile per la politica e le elezioni? Diversi recenti sondaggi apparsi sui quotidiani nazionali ammoniscono che, in periodi non elettorali, solo un cittadino italiano su quattro si interessa alla politica. Due su quattro, in periodi preelettorali.16

Questo 50% di elettori disimpegnati, disinteressati anche in periodi elettorali, è a dire il vero molto di più di quel centro di cui spesso si parla e, forse, costituisce un’area di società civile più ampia che lo include. Il segmento di elettori disimpegnati non è riconducibile ad una dimensione di classe: vi sono microimprenditori e lavoratori autonomi, ma anche casalinghe, disoccupati, pensionati e altre categorie sociali. Per questi elettori «disimpegnati» la politica si ferma alla percezione del proprio interesse: lo spazio pubblico è creato e concepito, come detto, solo a garanzia dello spazio privato (individualismo). Poco più della metà dei disimpegnati non votano. Ma poco meno della metà si reca alle urne come cittadino disinformato. Pertanto, gli elettori disimpegnati che votano rappresentano poco meno del 25% del totale dei votanti. Questo serbatoio di voti è il terreno di caccia elettorale privilegiato dei partiti centristi, a prevalente egemonia ex-democristiana. Il disinteresse per la politica non è necessariamente critico o ostile, ma più spesso esprime una lealtà passiva del cittadino verso il sistema politico-istituzionale, un’accettazione dello spazio pubblico in funzione del riconoscimento del proprio interesse privato. L’estensione di questa area di disinteresse verso la politica ben oltre il 60% della popolazione delle società sviluppate ha indotto Lash a sostenere che la democrazia oggi corre seri rischi di crisi non per intolleranza ma per indifferenza.17

Quest’area sociale di disinteresse verso la politica è forse il centro nell’Italia di oggi. Un tema che richiederebbe ben altro che una corsa dei due schieramenti politici verso analisi e obiettivi moderati, ma piuttosto un progetto politico innovativo di partecipazione e di comunicazione politica nei confronti di quel «pezzo» di società civile. Un progetto che per ora manca nell’agenda riformista.18

 

Politica e comunicazione

Veniamo alla seconda domanda relativa all’uso della comunicazione politica: la nuova ambientazione tecnologica ha facilitato o allentato il legame tra politica e società civile? Rodotà, qualche anno fa, sottolineò che la comunicazione e il marketing hanno cambiato la politica più di qualsiasi altro fattore, ivi incluse le riforme elettorali e istitituzionali.19 Ma può dirsi democratica, una politica che ricorre ai codici ipersemplificati dell’offerta politico-mediale? Certo, la mediatizzazione del senso comune e dell’opinione pubblica ha cambiato le carte in gioco nell’arena sociopolitica: ha accresciuto l’importanza della percezione e della rappresentazione sociale, anche a discapito di come «realmente stanno le cose». In questo contesto, le tecniche di sondaggio e di marketing hanno indubbiamente aiutato la politica ad operare in un panorama sociale pluralistico e mediale, dominato da processi di differenziazione e di individualizzazione. Soprattutto l’hanno aiutata a migliorare l’efficacia persuasiva dei messaggi di target in campagna elettorale. Le tecniche di marketing e di comunicazione politica nella nuova società tecnologica sono apparse indispensabili ai fini della raccolta del consenso. Indispensabili al punto che, secondo diversi autori, il marketing politico minaccia di inaridire la democrazia, apparsa vulnerabile all’efficacia degli spot in tempi elettorali. Utile nella fidelizzazione, il marketing politico è divenuto prezioso soprattutto per catturare, mediante pubblicità elettorale mediale, il segmento di elettori disimpegnati e disinformati, sui quali ci siamo soffermati in precedenza. Le tecniche di marketing, adatte a differenziare i target elettorali, consentono alla politica di far giungere nella società messaggi mirati a particolari gruppi ed interessi. Come fece Berlusconi nel 2001, che riuscì a raggranellare la maggioranza dei voti dei disoccupati, delle casalinghe e dei pensionati. Sul piano del marketing politico non c’è gran gara tra i due schieramenti politici, soprattutto in termini di esperienza e di risorse pubblicitarie e televisive. Al centrosinistra non resta che difendere regole irrinunciabili, come la famosa par condicio contro lo strapotere del centrodestra.20

L’attuale governo sta tuttavia dimostrando che il marketing politico, unito alle tecniche mediali, è inservibile per governare in funzione dell’interesse generale del paese. Quel che il centrodestra dimostra di non sapere esprimere è un’offerta politica intesa come una piattaforma culturale condivisa dalla cittadinanza, un quadro di riferimento delle principali tappe e della direzione di marcia da seguire per lo sviluppo sociale ed economico.

Il centrosinistra potrebbe vincere questa partita della comunicazione. Dovrà però preparare una classe dirigente di governo che sappia decidere, realizzare e comunicare quello che fa e riforma. Riscoprire l’interesse generale. Dovrà non solo disporre di un buon prodotto, ma anche saperlo «vendere». E, a tal fine, sarà necessario: incidere sulle percezioni e le rappresentazioni che gli attori hanno della costruzione di una visione sociopolitica di medio-lungo termine; sostenere nuovi metodi di partecipazione democratica, riqualificare l’offerta politica e l’organizzazione del consenso; possedere tecniche adeguate di comunicazione e marketing; disporre di mappe sociali circostanziate dei gusti e degli stili di vita dei cittadini, senza troppo confidare su meccaniche corrispondenze con gli schemi tradizionali di morfologia sociale; creare e comunicare una formula politica da condividere con il paese, una sorta di mozione di riferimento per l’azione di governo successiva alla vittoria elettorale.

L’obiettivo è creare una cultura di governo. E se nel paese c’è paura del declino e dell’impoverimento, è necessario ridare speranza nel futuro con la comunicazione di una visione politica della strada che il paese deve percorrere.

 

La formula politica

Alla fine di questo primo quinquennio del Duemila, la situazione del paese è ora chiaramente rappresentabile con il concetto di ritardo, del nuovo che stenta a prendere piede, piuttosto che di declino (dato che la old economy si sta ridimensionando ovunque nei paesi a maggior sviluppo). Il ritardo ha natura economica, sociale e politica. Si configura perciò come un ritardo culturale delle nostre classi dirigenti. Anche il centrosinistra deve smettere di mirare alla mira e dichiarare il bersaglio prima di scoccare la freccia: esprimere una visione generale e condivisa, in grado di suscitare partecipazione e offrire futuro, esporre «come stanno le cose e come possiamo migliorarle». Questo è però il punto dolente del riformismo italiano. Le riforme sono difficili non solo a causa dell’esiguità delle risorse a disposizione. Non solo a causa dei veti incrociati e della vischiosità dell’azione degli interessi in gioco. Pesa anche la mancanza di un’offerta di contenuti riformisti in grado di consentire al paese di esprimere le proprie potenzialità. E pesa anche la mancanza di una formula politica, così come la intendeva Gaetano Mosca,21 cioè un «principio astratto, adottato e gestito dalla classe dirigente», che viene «condiviso dal paese», una saldatura di unità morale tra classi dirigenti e società. Capace di assicurare legittimità a posteriori al ceto di governo. A conferma che la legittimità di un governo non va solo acquisita a priori in occasione delle scadenze elettorali, ma guadagnata a posteriori, mantenendo la promessa contenuta nella formula politica. Sarebbe un passo avanti per la nostra democrazia rappresentativa.

 

Bibliografia

1 Ho sviluppato questa analisi in La nuova società. Il caso italiano, Laterza, Roma-Bari 2002 e in Nuova economia e nuova società, in «Sociologia del lavoro», 98/2005.

2 Cfr. la ricca bibliografia citata in J. E. Katz and E. Rice, Social Consequences of Internet Use. Access, Involvement, and Interaction, MIT Press, Cambridge 2002.

3 K. Polaniy, La grande trasformazione. Le origini economiche, e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974.

4 Anche un recente studio (2004) condotto da S. Carbone, M. Guandalini e M. Labarile dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali dell’Università Cattolica di Milano conferma quanto da noi sostenuto, sottolineando non solo l’eccezionale diffusione del cellulare, ma anche la crescente e rapida diffusione di internet tra gli italiani.

5 Tra i vari indicatori della scarsa dinamicità attuale della nostra economia, ne citerei uno indiretto ricavato dalla recente consueta previsione trimestrale dell’OCSE riguardante il primato italiano tra i paesi del G7 in termini di rapporto medio ricchezza/reddito delle famiglie. Non a caso questo primato era stato del Giappone, un’economia a lungo tempo stagnante. Il primato in questione nasconde un’alta propensione al risparmio e una bassa al consumo e all’investimento e ciò rende meno dinamica l’economia italiana rispetto a quella statunitense dove vi è il rischio opposto dell’indebitamento eccessivo.

6 Sulla distinzione tra cittadinanza passiva e attiva cfr. C. Carboni, Cittadinanza sociale e classi sociali: Marshall contro Marx, in «Politica ed Economia», 7-8/1986 (e il precedente, The impact of the state on changing social classes, in «Kapitalistate paper», 1980).

7 Cfr. P. L. Celli, Impresa e classi dirigenti, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004.

8 Cfr. A. Sterlacchini (a cura di), ICT, mercato del lavoro, produttività, Carocci, Roma 2005.

9 Cfr. G. Nardozzi, Miracolo e declino. L’Italia tra concorrenza e protezione, Laterza, Bari-Roma 2004.

10 Sulla crisi dei ceti medi in Italia, si veda la parte monografica de «Il Mulino», 2/2004, significativamente intitolata Ceti medi e crisi nera, contenente contributi di Arnaldo Bagnasco, di Massimo Baldini, di Vincenzo Atella e Nicola Rossi e di Giuliano Cazzola.

11 M. Paci, Nuovi lavori, nuovo welfare. Sicurezza e libertà nella società attiva, Il Mulino, Bologna 2005.

12 C. Carboni, Innovazione e competenza nella società della conoscenza e della tecnologica, prolusione all’apertura dell’anno accademico, Università Politecnica delle Marche, Ancona, febbraio 2005, ora in «Lavori-QRS», 2/2005.

13 Paci, op. cit.

14 Itanes, Perché ha vinto il centro-destra, Il Mulino, Bologna 2001.

15 In «Il Corriere della Sera», 23/10/2004.

16 Itanes, op. cit.

17 C. Lash, La ribellione delle élite, Feltrinelli, Milano 1995.

18 Le primarie sono inevitabilmente destinate a quel terzo di elettorato che si interessa di politica e non sembra siano in grado di attrarre chi non ha interesse verso la politica.

19 S. Rodotà, Tecnoplitica. La democrazia e le nuove tecnologie della comunicazione, Laterza, Roma-Bari 1997.

20 G. Cuperlo, Par condicio? Storia e futuro della politica in televisione, Donzelli, Roma 2004.

21 G. Mosca, Elementi di scienza politica, Torino 1896.