La crisi economica in corso trova l’Unione europea in una condizione di debolezza persino maggiore di quella degli Stati Uniti, dove la crisi è nata. Se gli Stati membri dell’UE insisteranno nel perseguire politiche anticrisi autonome il rischio di una marginalizzazione dell’Europa non potrà che aumentare. Al contrario, l’adozione di politiche economiche comuni, l’istituzione di un Tesoro europeo a fianco della Banca centrale e l’emissione di eurobond potrebbero rendere più efficaci le politiche di stimolo e di risanamento condotte a livello europeo.
Con questo articolo si vogliono raggiungere due obiettivi. Il primo è quello di dimostrare che la politica economica del centrodestra nel quinquennio 2001-2005 è stata peggiore di quella del quinquennio 1996-2000, quando al governo c’era il centrosinistra. Per far questo si effettuerà un confronto tra i due periodi, entrambi quinquennali ed entrambi con al loro interno una prima frazione di anno non afferente alla legislatura del governo di cui si valuta il risultato economico. Il secondo obiettivo è quello di confutare le tesi del centrodestra che vedono la causa del peggioramento dell’economia italiana in fenomeni extra-italiani (come si evince dal primo punto del programma elettorale della Casa delle Libertà) e che sostengono che l’Italia ha una performance in linea con quella dei paesi europei e in alcuni casi migliore. Il giudizio quindi si baserà sul confronto dei dati dell’economia italiana con i dati dell’Europa a 15 (l’Europa degli Stati al nostro livello di reddito pro capite) sulla base dei dati Eurostat apparsi negli ultimi mesi.
Nei principali paesi europei crescono le preoccupazioni per il declino economico dell’Europa di fronte al dinamismo stupefacente dell’Oriente e di una superiore performance economica degli Stati Uniti d’America. Se la teoria ci aveva già preannunciato che paesi late comers potessero correre molto più svelti dei paesi maturi (e l’Italia stessa aveva goduto nel passato del vantaggio dell’ultimo arrivato), la stessa cosa non può dirsi del divario di performance con gli Stati Uniti. Questi ultimi, pur avendo un livello di reddito pro-capite superiore a quello dell’Europa, crescono più velocemente dell’Europa. Perché? Per cercare di avanzare qualche ipotesi interpretativa vanno stilizzati alcuni fatti e distinti tre periodi.
Tra gli economisti di tutte le università del mondo le posizioni keynesiane si identificano con posizioni di sinistra, le posizioni neoclassiche con posizioni più conservatrici. Nella politica italiana le cose stanno in modo diverso: nella Casa delle Libertà albergano due posizioni, una delle quali, la più moderata, si potrebbe chiamare «keynesiana di destra». Anche nell’Ulivo albergano due posizioni, una delle quali, la più moderata, si potrebbe definire «neoclassica di sinistra». Per illustrare i capisaldi di queste posizioni focalizzeremo la nostra attenzione sui tre tradizionali attori della political economy: imprese, lavoratori e Stato.
Dagli anni Settanta si assiste a una caduta tendenziale del saggio di crescita medio annuo del prodotto effettivo e del prodotto potenziale della nostra economia. Negli anni Settanta il saggio di crescita effettivo è stato del 3,6%; negli anni Ottanta il saggio di crescita effettivo è stato del 2,4% e quello potenziale del 3%; negli anni Novanta: effettivo 1,5%; potenziale 2%; nel 2001-2003: effettivo tra 0 e 1%, potenziale tra 1 e 2%.