[…] Dobbiamo affrontare le ragioni più di fondo di una situazione che vede troppo indebolita la nostra capacità di coalizzare il complesso mondo che si oppone alla destra. E ciò per tante ragioni (errori, divisioni: si può elencare) ma soprattutto per una che a me sembra fondamentale e sulla quale mi piacerebbe molto discutere. Noi non riusciamo ancora a collocare la sinistra di governo in un orizzonte storico (storico, non ideologico) tale per cui si cominci a vedere il profilo di un soggetto politico davvero nuovo, più largo, che ritrova capacità di guida e di unificazione non solo per la forza dei suoi programmi – cosa essenziale – ma del suo pensiero, del suo progetto di futuro. Un nuovo pensiero riformista paragonabile per la sua forza a quello che si espresse nell’invenzione dello Stato sociale. Io questo non lo vedo ancora. Penso perciò che è tempo di ridefinire il riformismo come la risposta non solo a Berlusconi ma a ciò che ci chiedono le generazioni del Duemila. E che sono domande nuove, anche drammatiche, di libertà, di sicurezza, di giustizia. Domande di una dimensione della politica. Che succede se a queste domande non rispondiamo noi con un progetto di europeizzazione dell’Italia essendo questo il solo modo per difendere il suo potenziale umano e il suo patrimonio civile ed economico? Succede quello che già vediamo. Che risponde la destra con un modello autoritario in cui populismo e nazionalismo beceri (“Dio stramaledica gli inglesi!”) si associano alla difesa corporativa di un capitalismo straccione.
Con la fine del “ventennio” di Berlusconi, si avvia un mutamento profondo del sistema politico italiano. È da vedere se ciò riguarderà solo i partiti o se investirà – e in che misura – gli assetti più complessivi del “regime” italiano: se si tratta di un episodio tra i tanti delle lotte di potere tra il ceto politico oppure se si apre uno spazio nuovo per mettere finalmente in campo non solo qualche riforma settoriale, ma un progetto complessivo di cambiamento del paese.
In questi anni abbiamo assistito non solo alla controffensiva padronale contro i diritti dei lavoratori e la dignità del lavoro, ma alla rottura del compromesso fra capitalismo e democrazia su cui si era fondato il progresso economico e civile del paese. Oggi il conflitto nel mondo del lavoro non riguarda più l’antagonismo tra impresa e operai, ma l’insieme del sistema della produzione, oggetto di una forma nuova di sfruttamento che logora il legame sociale e le basi della vita democratica. Può un partito come il PD pensare che non sia più necessario fare del lavoro la base della lotta per il progresso?
Non è possibile ragionare di sinistra se si prescinde dal quadro storico, del tutto nuovo rispetto agli sviluppi del Novecento, in cui ci muoviamo, e che è caratterizzato dal fenomeno della mondializzazione e, al tempo stesso, dal fallimento del tentativo di governare per via fi nanziaria questa vicenda storica e la formazione di una nuova umanità plasmata su di essa.
In crisi sin dagli anni Sessanta, l’equilibrio tra democrazia e capitalismo sembra definitivamente compromesso. Da un lato, i rapporti di forza si sono rovesciati e la distanza tra chi produce ricchezza reale e chi specula sui movimenti finanziari è diventata abissale; dall’altro, grazie ai nuovi mezzi di informazione e comunicazione si fa strada un nuovo bisogno di senso, di verità e di conoscenza, al di là del verosimile.
Quanto accaduto in Italia e in Nord Africa nelle scorse settimane ci spinge a chiederci – afferma Alfredo Reichlin nella nota introduttiva ai lavori del nuovo Comitato di Indirizzo di Italianieuropei – se stiamo assistendo alla nascita di nuove soggettività politiche e culturali, donne e giovani soprattutto, sulle quali possa far leva un riformismo che voglia porsi all’altezza degli eventi cui sta assistendo. Servono nuove idee, che aiutino a superare la mera analisi autoflagellante delle ragioni della crisi della sinistra per rispondere invece alla nuova esigenza costitutiva del genere umano in formazione, l’esigenza di un nuovo “noi”.
Quali sono le condizioni per la creazione di una soggettività politica e sociale in grado di opporre al supercapitalismo mondializzato una idea di società, cioè uno spazio che consenta all’uomo di affermare la sua autonomia e la sua creatività? Come si può riaprire questo cammino di costruzione sociale? Il futuro del Partito Democratico si gioca sulla sua capacità di dare adeguate risposte a questi interrogativi.