Non solo un voto. Rafforzare la democrazia

Di Antonio Menniti Ippolito Sabato 04 Febbraio 2012 12:37 Stampa
Non solo un voto. Rafforzare la democrazia Foto: Quicksilver

Al desiderio di partecipazione condiviso attraverso il passaparola digitale che ha caratterizzato in questi ultimi mesi le piazze d’Italia e del mondo, non ha saputo ancora dare risposta una politica che appare di colpo invecchiata, spaventata, arroccata nella difesa di se stessa. È tempo che la politica riprenda in mano le sue sorti e quelle del paese, con i fatti e non con parole vuole.

 

Il 2011 e l’inizio di questo 2012 sono stati caratterizzati, un po’ in tutto il mondo, da un desiderio di partecipazione diffuso che ha riempito le piazze – non sempre pacificamente –; ha incendiato il web e, spesso e volentieri, ribaltato nelle urne ogni previsione. Zuccotti Park e tanti altri luoghi negli Stati Uniti si sono riempiti di manifestanti contro il predominio sulla politica della grande finanza; in India la protesta ha spadroneggiato per diverso tempo nella scena politica appoggiando i digiuni dell’attivista Anna Hazare intenzionato ad imporre una severa legislazione contro la corruzione; il Nord Africa e il Medio Oriente si sono sollevati rimuovendo fino ad ora tre regimi; la Spagna ha proposto il modello degli indignados; mobilitazioni di diverso genere e intensità (dai movimenti No TAV, alla mobilitazione “dei Forconi”, alle proteste corporative) animano la nostra penisola. In Cina, in Russia, in Israele… ovunque si accende la protesta, spesso multi-direzionale, e un desiderio di partecipazione spesso accompagnato da un’ancora più forte voglia di punizione, da un’ansia di risarcimento.

Gli smartphones, i tablets, il web, insomma, il passaparola digitale, hanno sostituito in tutto questo i vecchi strumenti di mobilitazione: i giornali, le radio, la televisione, ma anche i sindacati e le forze organizzate in generale. La politica appare invecchiata di colpo in tutto il mondo, accusata di immobilismo, di disinteresse al bene comune, tesa solo a difendere se stessa, rifugiandosi in una pratica istituzionale che sembra solo vuoto ritualismo. Una politica che si mostra o che rischia di mostrarsi, ovunque, succube o comunque disarmata di fronte ai grandi interessi e ad un mondo della finanza mai così sotto accusa e così influente. Una politica che appare spaventata, anche un po’ indifesa, arroccata nel tentativo – questa la diffusa percezione – di salvare se stessa. Tale in effetti è stata la delusione per il mancato ruolo delle classi dirigenti nella soluzione dei problemi generali e non solo, che sembra impossibile immaginare di andare avanti così. E in Italia la politica è stata di fatto dichiarata moribonda o forse già morta, e così commissariata e messa all’angolo.

Che cosa accadrà? Difficile dirlo e il problema va affrontato in modo distinto, nel breve e nel lungo periodo. La storia insegna che le grandi mobilitazioni a tratti appaiono inarrestabili, così come in altri momenti assenti, e la fase di una protesta dal basso ispirata dall’ira o, meglio, indignazione, si esaurirà. Ma qualcosa di duraturo sembra essersi imposto. Anzitutto la consapevolezza che la globalizzazione abbia cambiato tutto. Un battito di ali di farfalla a Oriente diventa un tifone ad Occidente, quasi in tempo reale; le difficoltà di un paese, piccolo come la Grecia o più importante come l’Italia, rischiano di travolgere e di compromettere realtà più ampie. E la vicenda di questi ultimi mesi di politica europea è già diventata modello per tutti gli errori che sono stati commessi, per le puerili ricerche di protagonismo che l’hanno caratterizzata talvolta anche in modo tragicamente comico, per la miopia dimostrata da troppi che sistematicamente ha portato e porta a fingere di decidere degli interessi comuni difendendo però in realtà quelli particolari. Uomini e donne, ad est e ad ovest, si sono infine stufati di assistere a tutto ciò sempre più inquieti e col naso schiacciato sul vetro, o, meglio, sullo schermo, che li teneva separati dagli avvenimenti e favoriti dai nuovi strumenti di relazione hanno anzitutto espresso una nuova idea di democrazia: l’idea che questa, la partecipazione dei cittadini, non possa ridursi al solo esercizio periodico del diritto elettorale. La democrazia oggi è spesso solo un voto, viene interpretata da molti esclusivamente come tale, e questo più non è. Il web reagisce agli eventi in un battito di ciglio e attraverso la rete e i suoi strumenti il mormorio può riuscire a farsi boato.

Può, deve, essere incanalato tutto ciò? È la sfida del domani, quella su cui si giocano le nostre speranze e anche la nostra libertà, dicendo ciò nel senso che tutto quello cui si è fatto cenno può contribuire sia a creare maggiori spazi democratici che, al contrario, a distruggerli. È fondamentale che le forze politiche, in Italia e altrove, si destino dal torpore mostrando capacità di adeguarsi a ciò che muta. Negli ultimi due decenni in Italia (e altrove spesso anche prima) i partiti si sono trasformati in contenitori, in macchine elettorali, e la politica, che nei media tradizionali appare sempre più come un grande show, quando filtrata attraverso la rete, si mostra come una realtà mediocre se non inutile. Con rischi gravissimi: il Parlamento, mai così mortificato in Italia come nel corso di questa legislatura a causa della legge elettorale, del disprezzo mostrato nei suoi confronti dal governo di centrodestra capace solo di imporre voti di fiducia, e anche, perché no, di rappresentanti del popolo di assoluta mediocrità, rischia di apparire quale organismo inutile, al pari di tante altre istituzioni. Si pensi ai consigli regionali, provinciali, spesso ormai anche quelli comunali che appaiono solo utili a creare una nuova, parassitaria, nomenklatura. Partiti contenitori, leader sempre più al centro della scena possono ancora, e chissà per quanto tempo, servire ad intercettare consenso, ma sembrano poi destinati a tradurre l’appoggio raccolto in delusione e rabbia. Il potere pare gestito con poche eccezioni in modo irresponsabile, il tutto mentre gli equilibri della scena generale vengono rivoluzionati dalla crisi. Bisogna allora cancellare tutto?

No, ma non si può andare avanti così. Solo una politica consapevole, capace di intercettare i sentimenti e le aspirazioni, può tradurre queste ultime in buona pratica vissuta nel rispetto di regole antiche e sempre così necessarie. Parole vuote? La storia insegna che nessun organismo si autoriforma se non spinto da necessità drammatiche. Non sappiamo ancora se ci troviamo in questa situazione, ma sembra arrivato il momento di cercare di anticipare e prevenire i fenomeni. Cosa è necessario allora fare? Ciò che oggi viene definita con rabbia come casta deve adeguarsi al ritmo veloce della rete, che altro poi non è che il ritmo accelerato del mondo, mettersi in gioco, disincrostarsi, mostrarsi in grado di affrontare il giudizio comune ogni giorno, abbandonando i vecchi riti, licenziando i mausolei (tante vecchie facce), premiando le capacità dimostrate sul campo, diventando un servizio a tempo – e anche sottoposto a verifiche da parte degli elettori – e non un ergastolo dorato. Oggi come oggi la politica sembra più divorarsi da se stessa che dall’esterno: basti pensare allo scandalo che ha coinvolto il tesoriere della Margherita. Ma soprattutto la politica faccia e non parli solo: ad esempio e questo sarebbe possibile farlo da subito (ma si pensi però alle difficoltà che hanno gli uomini del governo Monti a mettere sul web le notizie sul proprio reddito e patrimonio), pubblicizzi i propri dati sensibili su internet, che anche per questa via potrebbe divenire strumento di controllo e di condizionamento positivo. Sarebbe poi opportuno riuscire a fare molto d’altro, ma da quanti decenni si sente solo parlare inutilmente di riforma della costituzione o anche solo dei regolamenti parlamentari!

La politica, la democrazia deve produrre sintesi utili a convogliare positivamente verso il bene comune interessi privati e anche rabbia e frustrazioni. Non sarà sempre possibile che l’interregno di “tecnici” supplisca a radicate, sempre più colpevoli, manchevolezze. E se l’interregno diventa poi un regno, quella è la morte della democrazia.



Foto: Quicksilver

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