Nuovi elettorati, nuove strategie

Di Philip Gould Lunedì 02 Settembre 2002 02:00 Stampa

Negli ultimi dieci anni le regole della politica sono cambiate radicalmente, ma fino a qualche tempo fa sono stati in pochi ad averlo notato. Nel 1992 il terreno politico si stava già rinnovando in coincidenza con la fine della guerra fredda, il delinearsi del concetto moderno di globalizzazione, e l’inizio della rivoluzione di Internet. In Gran Bretagna, i laburisti subivano il trauma della sconfitta. Negli Stati Uniti, Bill Clinton vinceva le elezioni presidenziali grazie ad un nuovo programma politico progressista adatto al quadro dell’economia globale e a una strategia elettorale inedita. Non si trattava solo di tecniche originali ma soprattutto di valori, impegno, e della determinazione a risollevarsi dopo più di un decennio segnato dalla umiliante, e apparentemente inevitabile, avanzata dei repubblicani.

 

Negli ultimi dieci anni le regole della politica sono cambiate radicalmente, ma fino a qualche tempo fa sono stati in pochi ad averlo notato. Nel 1992 il terreno politico si stava già rinnovando in coincidenza con la fine della guerra fredda, il delinearsi del concetto moderno di globalizzazione, e l’inizio della rivoluzione di Internet. In Gran Bretagna, i laburisti subivano il trauma della sconfitta.

Negli Stati Uniti, Bill Clinton vinceva le elezioni presidenziali grazie ad un nuovo programma politico progressista adatto al quadro dell’economia globale e a una strategia elettorale inedita. Non si trattava solo di tecniche originali ma soprattutto di valori, impegno, e della determinazione a risollevarsi dopo più di un decennio segnato dalla umiliante, e apparentemente inevitabile, avanzata dei repubblicani. La campagna elettorale di Clinton nel 1992 era diretta ad una generazione di attivisti politici democratici pronti a sfidare la destra perché convinti che il tempo di reagire fosse ormai arrivato. Una nuova sinistra, dunque, sicura di sé e che non si sarebbe piegata ai primi colpi ostili della destra. Anche in Gran Bretagna era arrivato il momento di passare all’offensiva. L’umiliazione che i democratici avevano subito nel 1988 era stata cocente ma il 1992 aveva segnato per i laburisti una sconfitta ancora più umiliante. La campagna denigratoria portata avanti dalla stampa e gli insidiosi attacchi dei conservatori avevano affossato i laburisti, che non furono in grado di difendersi.

Ma i laburisti sono stati salvati dal processo di modernizzazione che ha investito non solo il programma politico ma anche le strategie elettorali. Una modernizzazione che gli altri partiti europei di centrosinistra avevano iniziato a sperimentare già dalla fine della guerra fredda, anticipando i laburisti sul piano del recupero del consenso elettorale. E tuttavia, quando anche il Labour ha finalmente avviato questo processo, lo ha fatto con zelo e tenacia straordinari. Ironicamente è stato p roprio il ritardo della modernizzazione laburista ad avere permesso al nostro partito di dotarsi degli strumenti adatti alle nuove circostanze politiche, creando le premesse per affrontare quelle sfide alle quali molti dei partiti continentali ancora non sono riusciti a trovare risposte adeguate.

Le tendenze elettorali degli ultimi dieci anni lo hanno dimostrato inequivocabilmente. Nel 1992 il partito laburista aveva già elaborato un programma vincente per fare fronte alla disoccupazione, per gestire l’istruzione e il servizio sanitario nazionale, ma stentava a decollare su altri temi critici: tasse, economia, difesa e criminalità. Tuttavia, con la guida di Tony Blair e la gestione economica di Gordon Brown, nel decennio scorso i laburisti hanno fatto significativi passi avanti nelle materie fiscali e nella criminalità e impresso una svolta decisiva alla gestione economica tanto che oggi il patriottismo laburista non è certamente più in questione. È proprio grazie a questa tripla garanzia – servizi pubblici, economia, e sicurezza – che il partito laburista ha potuto consolidare la sua forza elettorale e affrontare molto meglio le nuove sfide elettorali.

I laburisti sono stati capaci di ottenere risultati sostanziali al governo facendo leva sul consenso guadagnato alle elezioni, evitando al tempo stesso il rischio che il loro programma si orientasse verso una progressiva radicalizzazione. Il primo compito con cui è stato necessario misurarsi riguardava la necessità di gestire l’economia su basi di competenza per trasferire poi tale competenza agli investimenti nel settore pubblico, correggendo i difetti principali del thatcherismo: la scommessa sull’espansione estrema e sregolata in economia e su livelli di investimenti ridotti al minimo. Questa è la ragione per cui dopo cinque anni di governo laburista stiamo discutendo sui 510 miliardi di sterline che sono stati investiti nel settore pubblico, e non sulla crisi economica che ha travolto ogni governo laburista precedente. Non dimentichiamo tuttavia che «il New Labour è solo all’inizio» come ha commentato di recente un accreditato giornalista. Ma le difficoltà della sinistra stanno emergendo altrove mentre stiamo entrando in una seconda fase della politica globale, più oscura, complessa e difficile della precedente. Nel 2002 ci troviamo davanti a un diverso scenario politico in cui nuove forze, ognuna fondamentale in sé, prospettano nell’insieme l’emergere di questioni di straordinaria complessità.

La prima tra queste è la globalizzazione. Tra il 1950 e il 2000 il commercio globale si è incrementato del 1700%. Ma i processi di globalizzazione si estendono ben al di là del commercio. Anche il potere è diventato globale, meno legato ai confini nazionali e molto più influenzato dalle dinamiche internazionali. Ciò ha fatto sì che si diffondesse un’immagine del potere svincolata dalle sue responsabilità verso gli elettori e che la stessa immagine della democrazia apparisse lontana dalla vita reale. Gli effetti della globalizzazione investono anche i movimenti delle persone. Se infatti la libertà di circolazione dei capitali, dei commerci e degli investimenti è ormai una realtà consolidata, viene spontaneo interrogarsi sul motivo per cui lo stesso non dovrebbe valere per le persone. Si arriva quindi alla questione fondamentale delle migrazioni, tema che divide e affligge la politica progressista moderna e crea divisione almeno per due motivi. Prima di tutto perché produce un nuovo, forte, divario fra le politiche europee e quelle americane. Emigrazione e immigrazione non rappresentano più fenomeni preoccupanti negli Stati Uniti. In Europa, al contrario, l’emigrazione è spesso percepita come una vera e propria minaccia, ed è pertanto diventata una questione di importanza politica cruciale nelle ultime elezioni. Come ha affermato un autorevole stratega nella campagna elettorale danese, «l’immigrazione è ormai, forse più della criminalità, un elemento dirimente per la credibilità elettorale dei socialdemocratici».

L’altra ragione per cui l’emigrazione diventa un fattore di divisione deriva dall’incapacità delle sinistre di trovare una risposta comune al problema. La sinistra ha certamente una posizione univoca a sostegno della creazione di comunità multiculturali, dell’abbattimento della discriminazione razziale e continuerà a promuovere l’uguaglianza dei diritti per tutti. D’altra parte però, ancora molti segmenti del suo elettorato - le fasce più deboli, la tradizionale classe operaia e gli emarginati – avvertono da vicino la minaccia dell’immigrazione e temono che le loro comunità, i loro standard di vita, le loro scuole, le loro già precarie opportunità possano essere messe ulteriormente a rischio. Poiché gli effetti dell’emigrazione non interessano tanto le classi medie e protette, bensì proprio quella parte della società più vulnerabile e fortemente esposta a un ulteriore declino sociale. Di conseguenza i partiti di centrosinistra rischiano di trovarsi intrappolati fra pulsioni progressiste contrastanti: i valori di una società multiculturale da un lato, e i timori delle fasce già svantaggiate che si sentono minacciate dall’immigrazione, dall’altro. La sinistra si trova davanti a un vero e proprio dilemma che richiede uno sforzo da parte di entrambe le parti per capire le ragioni reciproche.

La seconda forza consiste nel fatto che i cittadini oggi sono molto più esigenti. Allo stesso modo in cui il mondo è mutato intorno all’elettorato, anche l’elettorato si sta evolvendo e si assiste a una rivoluzione nelle aspettative. I cittadini pretendono di più dai loro governi e dalla democrazia, non solo servizi pubblici migliori e una migliore qualità della vita, ma anche più influenza, controllo e potere decisionale. E questa è ormai una tendenza irre f renabile. La terza è l’aumento dello scetticismo tra la gente. La fiducia nelle istituzioni è in declino, non solo in Eu ropa ma anche negli Stati Uniti. Sebbene il fenomeno non sia in sé negativo e sia sostanzialmente conseguenza di maggiore consapevolezza e spirito critico, ne consegue che sulla fiducia passiva prevale oggi un senso di fiducia critica e costruttiva che le classi politiche devono conquistarsi.

L’ultima forza è data dallo sviluppo delle comunicazioni globali. Con la portata e il ritmo della loro copertura, i media non si limitano più a riferire gli eventi bensì contribuiscono direttamente a plasmarli. L’economia mondiale risente del modo in cui i media commentano gli scandali finanziari in America e in Europa e il modo in cui questi destabilizzano i mercati azionari. La comunicazione mediatica globale annulla le distanze e i tempi, e le notizie e la politica diventano allo stesso tempo locali e globali. Il consolidamento di queste forze sta ridisegnando il mondo della politica attraverso trasformazioni di scala e portata immense. Il potere, svincolato dai confini dello Stato nazionale, sembra sottrarsi più facilmente alle responsabilità nei confronti dei cittadini, i quali rivendicano con più forza l’iniziativa e il diritto a partecipare al controllo delle decisioni che li riguardano. Diventa dunque indispensabile creare lo spazio per nuove risposte politiche.

La seconda fase della globalizzazione viene spesso associata a tre reazioni politiche: quella di destra, quella di sinistra e una terza meno identificabile. La risposta di sinistra viene dal movimento anti-globalizzazione. Aggregatosi intorno alla convinzione che questo processo sia fatale per i paesi in via di sviluppo, il movimento critica il potere arrogante dei grandi gruppi economici che rifiutano l’assunzione di qualsiasi responsabilità democratica e riconosce nel commercio globale l’espressione dell’egemonia economica americana. La minaccia più temibile viene quindi dai McDonalds che ne sono il prodotto, e non dall’immigrazione. Le destre rispondono invece attraverso il fondamentalismo politico radicato nel nazionalismo e nella razza. L’estremismo di destra ha registrato un significativo consenso elettorale in molte nazioni europee. I casi peggiori si sono verificati in Italia e Austria, in cui l’estrema destra è entrata al governo in coalizioni di centrodestra proprio nel momento in cui la sinistra nella maggior parte dell’Europa si stava frammentando. La terza risposta, non associabile direttamente a nessuna parte politica, è l’emergere di sentimenti antipolitici. Di fronte alla dimensione globale di politica ed economia e all’aggressività dei media cresce la tendenza della gente a prendere le distanze dai processi politici formali. Gran parte dell’elettorato europeo sta scegliendo di rinunciare al diritto di voto e si sta allontanando dalla politica.

Anche se in modo diverso queste tre posizioni rappresentano una minaccia per i partiti socialdemocratici. Lo spettro che tormenta la sinistra è la frammentazione, confermata con forza dall’esito del primo turno delle elezioni presidenziali francesi, che si aggrava col costituirsi di coalizioni di destra in grado di affermare una nuova solidarietà di matrice conservatrice mentre la sinistra si scompone. L’effetto che ne consegue è il rischio che si assista alla destabilizzazione della democrazia e all’allontanamento dalla politica proprio di quei segmenti dell’elettorato che più ne hanno bisogno. Tutto ciò sposta chiaramente la politica su un nuovo terreno. Non deve far meravigliare, dunque, il numero di politici progressisti europei che negli ultimi mesi si sono sentiti spaesati. Le regole valide un tempo oggi non hanno più valore. La mappa è cambiata e in molti sembrano non essersene accorti. Al centro della sfida progressista in Europa emerge quindi la necessità di affrontare questo scollamento, portando avanti politiche moderne impostate su trasparenza e spirito d’iniziativa, e combattendo gli estremismi.

Lo studio più esauriente sull’estremismo di destra in Europa condotto da tre professori universitari, Lubbers, Gijsberts e Scheepers, è basato su un campione di 50.000 votanti nel 2000.1 Le conclusioni dello studio indicano che «nei paesi dell’Europa occidentale i disoccupati sono più inclini a votare per i partiti di estrema destra». Le categorie che hanno votato per la destra estrema erano quelle degli «operai, lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti», e «in particolare, giovani disoccupati e di sesso maschile». Inoltre, «più sono diffusi atteggiamenti di ostilità verso l’immigrazione e l’insoddisfazione nei confronti della democrazia, più ampio è il consenso dell’estrema destra». Esiste poi anche una relazione tra i livelli d’immigrazione ed estremismo: «più alta è la proporzione di cittadini extracomunitari residenti in un paese, maggiore è la percentuale dei voti raccolti dall’estrema destra». Questo rapporto di correlazione si spiega con l’esistenza di interessi economici antagonistici poiché «chi vede gli immigranti come concorrenti è più portato ad adottare un atteggiamento di esclusione e quindi a votare per l’estrema destra». Tuttavia, le ragioni che spingono a votare per l’estrema destra non possono essere ridotte a una questione di determinismo economico. I fattori politici hanno infatti un peso cruciale, infatti «i partiti di estrema destra che hanno caratteristiche strutturali che li avvantaggiano – un leader carismatico o una forte organizzazione – riscuotono molto più successo». Non si tratta certamente di un quadro chiaro, ma si riesce comunque a trarne alcune conclusioni. È evidente che in alcuni paesi dell’Europa continentale l’estrema destra sta assorbendo segmenti dell’elettorato tradizionale della sinistra e che la percezione che questi hanno di una minaccia ai loro standard di vita e ai loro interessi economici associata all’immigrazione è decisiva per far confluire voti all’estrema destra. La disoccupazione diventa una questione determinante; la frammentazione politica è cruciale e molti elettori sentono che le loro preoccupazioni principali vengono ignorate. Ma soprattutto è evidente che la politica conta e che l’ascesa della destra può essere contrastata solo se puntiamo su campagne elettorali forti e adottiamo una strategia politica efficace. Riuscire a sconfiggere questo nuovo nemico non sarà un’impresa semplice. Non esiste nessuna bacchetta magica. Vincere dipende dalla nostra abilità in campagna elettorale e dalle nostre scelte politiche.

Per la risposta politica è fondamentale creare un clima di ottimismo. I mutamenti costanti della politica globale hanno tutte le caratteristiche per spaventare e l’elettorato può sentirsi insicuro e minacciato. Ma mentre la destra si nutre di queste paure, la sinistra deve offrire nuove speranze. La globalizzazione può essere un elemento di disturbo ma la sinistra non deve abbandonare la convinzione che la risposta giusta al cambiamento non è quella di fuggirlo bensì di dargli forma e imparare a gestirlo, offrendo ai cittadini gli strumenti necessari per affrontarlo. Ma se l’ottimismo è un elemento essenziale, questo non può prescindere dalla creazione di nuove opportunità economiche. È proprio nell’elettorato dell’estrema destra che la richiesta di maggiori opportunità si fa avanti a gran voce. Spesso infatti gli elettori dei partiti di estrema destra motivano la loro scelta di voto con la convinzione che i propri interessi economici siano messi in pericolo dall’immigrazione. Al centro delle risposte alla nuova politica globale elaborate dalle forze progressiste ci devono quindi essere nuove opportunità e giustizia sociale. Questa è una delle ragioni per cui in Gran Bretagna gli investimenti a favore dell’istruzione e i provvedimenti come il Working Families Tax Credit (il programma di sostegno finanziario per le famiglie con un reddito mediobasso) e il «New Deal» (programma di volontariato creato per aiutare genitori soli che vogliono continuare a lavorare) continuano ad essere punti chiave.

Ma le opportunità devono essere bilanciate da assunzione di responsabilità e sicurezza. La responsabilità fa parte infatti dei diritti acquisiti; riguarda l’equità, le famiglie che lavorano per ottenere un compenso adeguato ai loro sforzi. Responsabilità significa premiare chi si comporta correttamente, ed è un presupposto fondamentale per la collettività e i rapporti reciproci che si instaurano all’interno di essa. È l’unica base su cui le relazioni sociali funzionano e deve impedire sia gli abusi del welfare che quelli dei grandi gruppi corporati. La responsabilità è un concetto progressista. Così come la lotta alla criminalità non è una questione che appartiene alla destra, ma una causa progressista. La criminalità colpisce più duramente le famiglie dei ceti popolari. Meno si possiede, più grande è il rischio di essere derubati o assaliti. Più si è vulnerabili, più facilmente ci si sente minacciati da strade insicure. Il crimine mina il cuore della comunità, rendendo pericolosi gli spazi pubblici ed erodendo la fiducia nelle relazioni sociali. Le persone associano la criminalità al contesto in cui vive la comunità, ai valori e ai vincoli sociali, e vedono l’erosione della comunità e il livello di criminalità come inestricabilmente legati. Per questo la risposta progressista alla criminalità deve essere tenace e rigida nel combatterne le cause. Maggiori opportunità potrebbero allontanare definitivamente i timori della globalizzazione, ma la risposta non può prescindere dalla questione della sicurezza.

Il terzo elemento della risposta progressista all’economia globale è il rinnovamento democratico. Come sostiene David Held, «la globalizzazione trasforma l’organizzazione, la distribuzione e l’esercizio del potere»,2 trasferendolo dai vincoli dei confini nazionali nell’etere delle istituzioni e delle corporazioni transnazionali. Ma mentre il potere slitta in avanti, l’elettorato sta diventando più sicuro di sé e più politicamente disimpegnato. Di conseguenza, questa nuova democrazia deve muoversi contemporaneamente in due direzioni: verso l’alto affinché chi gestisce il potere sia identificabile come responsabile verso l’elettorato, e verso il basso per rendere i processi politici più vicini ai cittadini. La risposta sta in una nuova politica di partecipazione, più aperta, accessibile e che coinvolga di continuo l’elettorato, permettendo ai cittadini di partecipare allo stesso tempo alle politiche che riguardano direttamente la loro comunità, ma anche alle istituzioni della nuova economia globale. Questo si profila chiaramente come un progetto di cambiamento politico di proporzioni enormi. Che impone di raggiungere ogni cittadino, soprattutto quelli distanti dalla politica, e di coinvolgerlo attivamente con la convinzione che il suo parere e il suo voto contino come quelli di ogni altro cittadino forte o potente.

Questi sono i tre aspetti essenziali della nuova politica progressista nell’era moderna. Una politica che deve armonizzarsi con un’idea nuova della conduzione delle campagne di informazione nell’opinione pubblica. Dopo dieci anni di campagna elettorale «totale», iniziata con Clinton, se ne vedono adesso i limiti. Frammentazione e cinismo nel processo politico sembrano essere dovute almeno in parte alla cruda professionalità della politica moderna. Predisporre un nuovo modello di campagna elettorale non significa tuttavia arrivare a un rovesciamento di quelle tradizionali. Abbiamo bisogno di trovare i modi giusti di fare propaganda, che ci permettano di guadagnare fiducia e consenso e ci facciano vincere le elezioni.

Il pericolo di un rovesciamento delle campagne elettorali è stato dimostrato dalle sconfitte registrate in Europa. Pur nella peculiarità di ogni sconfitta, tutte sono state caratterizzate da tratti comuni. Le spiegazioni principali alle sconfitte sembrano essere quattro. La prima è stata il logoramento. La maggior parte delle elezioni perse seguivano a un lungo periodo di governo, i partiti risentivano della stanchezza ed erano ormai privi dell’entusiasmo e della forza necessarie per ottenere un successo elettorale. La seconda spiegazione deriva dagli effetti della permanenza al governo, poiché la maggior parte dei partiti sconfitti non è riuscita ad emanciparsi dal ruolo governativo e non è stata in grado di tradurlo in una strategia efficace per vincere le sfide moderne. La terza spiegazione è nella strategia politica. Per quasi tutti i partiti sconfitti è stato fatale non aver trovato il giusto modo di regolare l’economia. Mancavano infatti linee chiaramente distinte, una base logica di fondo, e un messaggio forte. La spiegazione finale per la sconfitta è la distanza dall’elettorato. La maggior parte dei partiti non sapevano, o non si rendevano conto, che stavano affondando sotto la pressione delle grandi questioni della criminalità e dell’immigrazione, e se anche ne avessero avuto coscienza non sarebbero comunque stati preparati ad affrontare queste questioni discutendo con gli elettori.

È indispensabile elaborare un nuovo tipo di campagna elettorale fondato sulla professionalità necessaria per affrontare la complessità delle comunicazioni moderne, ma che abbia anche la capacità di entrare in contatto con gli elettori, di guadagnarne la fiducia, ispirandoli, coinvolgendoli e stimolandone la partecipazione alla politica. Cinque anni fa ho elaborato dieci principi-guida per condurre una campagna elettorale: dialogo, concretezza, reazione ai timori degli elettori, fiducia, perseveranza, flessibilità, importanza del messaggio, slancio, dinamicità e olismo. Credo che questa lista sia ancora molto attuale ma aggiungerei adesso altri sei imperativi per affrontare nuove sfide.

Il primo è darsi uno scopo visibile. Le campagne elettorali hanno sempre avuto bisogno di essere guidate da una missione, e questo vale oggi più che mai. In un contesto mondiale che a molti può apparire incerto è importante che la missione che sta dietro ai partiti sia immediatamente riconoscibile. Nelle elezioni britanniche del 2001 il fine era immediato e diretto: «scuole ed ospedali prima di tutto». Le priorità dell’azione di governo erano dunque chiare così come i suoi valori, ovvero l’intenzione di mettere gli investimenti al di sopra dei tagli fiscali e quella di dare priorità assoluta al settore dei servizi pubblici. Una volta al governo il New Labour ha tenuto fede alle promesse, il sistema sanitario nazionale e l’istruzione sono le priorità assolute anche del suo secondo mandato. Il secondo è l’importanza dell’economia. Non concordo affatto con Dick Morris quando afferma che le sinistre europee dovrebbero smettere di impostare le loro battaglie elettorali sull’economia e puntare sui valori. Nel contesto politico attuale un approccio di questo tipo sarebbe del tutto sbagliato, poiché se regalassimo l’economia ai nostri avversari o la relegassimo in una sorta di dimensione neutrale oltre la politica, perderemmo uno strumento decisivo. La responsabilità economica, le opportunità economiche o la possibilità di decidere di dare la priorità agli investimenti sui tagli fiscali sono tutte questioni cruciali, certamente sostenute da valori, ma che prima di tutto presuppongono la gestione concreta dell’economia.

Il terzo imperativo è la tensione verso il cambiamento. I partiti politici non devono cedere alla trappola della difesa dello status quo, lasciando che lo slancio verso il miglioramento si affievolisca. L’orizzonte delle prospettive riformiste è in continua evoluzione. I partiti di sinistra non dovrebbero mai smettere di innovarsi, neppure quando sono al governo, né smettere di combattere contro le ingiustizie, la disonestà, continuando a lavorare per la loro versione ideale del mondo. Il quarto principio è la coerenza con i valori. Affinché una campagna elettorale non perda di significato, è fondamentale, più della tecnica, la coerenza con gli obiettivi originali. Questo rischio è sempre incombente, anche nei paesi come la Gran Bretagna in cui ciò non è accaduto, ed è un rischio con cui le moderne campagne elettorali devono continuamente misurarsi incentivando la professionalità ma conservando la coerenza e, per quanto difficile, continuando a dare a questo obiettivo una priorità assoluta. Una propaganda non professionale è destinata a fallire, ma, per quanto professionale, se non è anche autentica comunque fallirà. È nella coerenza che si trova la verità essenziale sui politici e sui partiti. Ed è la coerenza che custodisce al suo fondo il progetto e lo scopo politico trainante della politica moderna.

Il quinto principio riguarda il coinvolgimento e la partecipazione degli elettori. È evidente che stiamo entrando in una nuova era di propaganda elettorale, in cui i vecchi metodi di comunicazione unidirezionali diretti dall’alto in basso non funzioneranno ancora a lungo. Dovranno essere rimpiazzati da forme interattive e locali di campagna elettorale, in cui il dialogo e la comunità assumeranno un valore fondamentale. Questo è un mondo politico diverso in cui diventa fondamentale che i leader sappiano ascoltare e guidare, dialogare e confrontarsi. La campagna elettorale deve coinvolgere e invogliare alla partecipazione i cittadini che non possono essere più spettatori passivi della politica e ricordare ai partiti che non devono più permettere che ciò accada. Gli elettori devono diventare quindi parte attiva del processo politico.

L’ultimo imperativo è la necessità di predisporre gli strumenti e le professionalità necessarie a tenere sotto controllo l’invadenza pervasiva dei media e le nuove provocazioni provenienti da una destra sempre più pericolosa. Molte delle competenze che si sono sviluppate dieci anni fa sono ancora valide, e sono alla base della professionalità su cui si devono costruire le nuove campagne elettorali. Fino a quando i governi e i partiti non saranno in grado di affrontare l’imprevedibilità e l’inesorabilità della nuova politica globale e il confronto con i media, la propaganda politica non potrà prescindere da questo principio basilare.

Gli imperativi elettorali che suggerisco non sono né perfetti né completi, perché le caratteristiche stesse del moderno mondo politico lo impediscono. Ma servono tuttavia a riconciliare il bisogno di gestire le richieste incalzanti dei media e la politica moderna con la necessità di un impegno costante da parte dei cittadini. Un nuovo modello di campagna elettorale che bilanci professionalità con partecipazione, dialogo, obiettivi e coerenza non è la fine del processo bensì l’inizio, ed è un inizio promettente. Il New Labour in Gran Bretagna ha dimostrato che, nonostante le pressioni e le difficoltà, è possibile governare con successo. Tony Blair è un leader che è riuscito a comprendere a fondo i nuovi scenari politici, e il New Labour si è dimostrato un partito capace di darne la giusta lettura. Ciò significa non riposarsi mai sugli allori, non essere indulgenti nei propri confronti e rimanere sempre attenti alle nuove sfide che richiedono riflessioni e soluzioni innovative. Altri partiti di centrosinistra, in questo momento all’opposizione, stanno iniziando solo adesso studi analoghi al nostro sulle campagne elettorali, cercando di compensare le difficoltà incontrate ad adattarsi al potere quando governavano i loro paesi. Ma l’importante è che il processo di rinnovamento sia finalmente cominciato. E la sinistra europea presto sarà di nuovo in marcia.

 

 

Bibliografia

1 Cfr. Lubbers in «European Journal of Political Research», XLI, (2002).

2 D. Held, Global Trasformation: politics, economics and culture, Polity Press, Cambridge 2000.

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