Mentre infuria la guerra di Libia nubi si addensano sul Mediterraneo orientale

Di Giuliano Francesco Martedì 19 Aprile 2011 11:48 Stampa
Mentre infuria la guerra di Libia nubi si addensano sul Mediterraneo orientale Foto: Jan Sefti

In Medio Oriente sono in atto profonde trasformazioni politiche che, qualora si verificassero alcune – non troppo remote – condizioni, potrebbero persino provocare un conflitto di vaste proporzioni.


Mentre si combatte una complessa battaglia per la determinazione dei futuri assetti della Libia e, incidentalmente, per capire che prospettive abbiano ancora l’Alleanza atlantica e il processo di integrazione europea, anche il Mediterraneo orientale pare progressivamente incamminarsi verso scenari turbolenti.

Sono infatti all’opera alcuni fattori che minacciano di far esplodere una serie di crisi, fino a provocare un conflitto di vaste proporzioni.

Ma andiamo con ordine. Il primo attore da considerare è certamente l’Egitto, dove importanti moti di piazza cavalcati dalle Forze armate hanno provocato due mesi fa l’uscita di scena del presidente Mubarak, senza tuttavia tradursi in un nuovo ordine politico. È ora in atto una transizione difficile. L’impressione condivisa da un certo numero di accreditati analisti è che al Cairo la giunta militare abbia in animo di traghettare il paese verso nuovi equilibri, cooptando gradualmente nel quadro di governo la Fratellanza musulmana, con l’obiettivo ultimo di affermare all’ombra delle piramidi una variante egiziana del modello di Islam moderato attualmente al potere in Turchia. Questo asse potenziale è già emerso in occasione del referendum costituzionale, che ha visto confermare con il 77% dei suffragi la base shariatica della legislazione egiziana, con grande rammarico degli internauti di piazza Tahrir, delle donne e dei copti. Non è detto tuttavia che il percorso si riveli facile o privo di insidie. Nuovi rivolgimenti, infatti, sono sempre possibili. Così come non può essere esclusa la graduale islamizzazione dell’esercito del Cairo, che condurrebbe l’Egitto non ad Ankara, come si vorrebbe, ma ad Islamabad. Un incubo.

C’è qualche ragione di ritenere che la recente offensiva scatenata da Hamas contro Israele possa essere in qualche modo collegata alla battaglia politica che infuria sulle rive del Nilo. Non è infatti sfuggita a molti osservatori la circostanza che il ministro degli Esteri egiziano abbia annunciato la propria intenzione di mantenere aperto il valico di Rafah qualora Tel Aviv intervenisse militarmente nella Striscia di Gaza con una riedizione della controversa operazione Piombo Fuso. Un’ipotesi del genere condurrebbe il Cairo fuori dal solco tracciato dagli accordi di Camp David, con vaste implicazioni sugli equilibri regionali.

Non sono solo paranoie israeliane. Che qualcosa stia bollendo in pentola lo provano anche i timidi tentativi fatti dalla diplomazia egiziana per riannodare le fila del dialogo con Teheran, che è interrotto dal 1979. A questo punto, non è difficile immaginare che gli attacchi di Hamas contro lo Stato ebraico mirino a provocarne la reazione proprio allo scopo di stanare l’Egitto o forse contribuire ad accelerarne il riposizionamento politico.

Fortunatamente, almeno finora, Tel Aviv ha dato prova di un notevole self restraint, preferendo enfatizzare le prestazioni, in verità non così eccezionali, del nuovo sistema di difesa contro i missili a corta gittata soprannominato Iron Dome, o cupola di ferro, ed evitando l’azzardo di una guerra. Ma non vi è dubbio che la sindrome di un accerchiamento incipiente si stia gradualmente radicando tra gli israeliani.

Vi contribuiscono altri due fattori, uno di portata regionale e l’altro di natura globale. Il primo concerne gli sviluppi della crisi in atto in Siria,paese in cui la lotta per il potere ha assunto contorni molto simili, a parti però invertite, a quelli della battaglia che si combatte in Bahrein, con i sauditi che soffiano sull’insurrezione anti-alawita[1] e gli iraniani che aiutano il regime di Bashir Al Assad.

L’esito della prova di forza interna siriana è decisivo. Perché se Assad riesce a spuntarla grazie al sostegno di Teheran, Damasco diverrà a tutti gli effetti un protettorato iraniano, ponendo Israele e la Repubblica islamica a diretto contatto. A quel punto, si materializzerebbe la temuta mezzaluna sciita e difficilmente Tel Aviv resisterebbe alla tentazione di scatenare un attacco preventivo simile a quello che nel 1967 portò alla guerra dei sei giorni. In effetti, tale eventualità può essere scongiurata solo se in Siria vincono le masse sunnite appoggiate da Riyad, anche perché a quel punto effetti positivi si osserverebbero a cascata anche in Libano, favorendo il blocco Hariri nei confronti degli Hezbollah.

L’ultimo elemento da inserire nel calcolo, quello globale, concerne la nuova postura mediterranea degli Stati Uniti, che paiono più che mai intenzionati a ridurre al minimo la loro presenza in questa parte di mondo: non solo nel Mar Mediterraneo, ma nella stessa Europa continentale, trattata dalla diplomazia americana con sempre maggior indifferenza.

Questa realtà era parsa evidente già lo scorso novembre, quando un Obama quanto mai distratto riservò un solo giorno all’importante vertice della Nato, dopo aver speso una settimana e mezzo a spasso per l’Asia. Adesso, con l’archiviazione di Odyssey Dawn e l’avvio di United Protector, il disimpegno di Washington è diventato una certezza. Basti un indice: non una delle numerose portaerei di cui dispone la marina militare statunitense è questo momento nel Mediterraneo – malgrado ciò che vi sta accadendo – né sembra che qualcuno oltreoceano si preoccupi più di tanto dell’imminente naufragio dell’Alleanza, scesa in guerra con Gheddafi senza truppe, pochi aerei e un pugno di bombe già finite, per salvare la Cirenaica.

Tale atteggiamento potrebbe riverberarsi anche su Israele, accrescendo tanto la sensazione di isolamento avvertita a Tel Aviv, quanto la percezione di disporre di straordinari margini di manovra.

Con gli Stati Uniti voltati dall’altra parte, e magari la compiacenza russa, diventerebbe certamente più facile per lo Stato ebraico definire una volta per tutte – unilateralmente e con le armi, si capisce – i confini e le condizioni politiche della regione mediorientale. Stiamo quindi entrando in un mondo nuovo, in una certa misura incognito e di sicuro molto più pericoloso, al quale sarà bene prepararsi psicologicamente. Nessuno, infatti, si occuperà più in vece nostra di stabilizzarlo come in passato.



[1] Gli alawiti sono un gruppo religioso minoritario, diffuso principalmente in Siria, del quale fa parte anche il presidente siriano Assad (ndr.).

 

 


Foto: Jan Sefti